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Jules Massenet, Werther
Milano, Teatro alla Scala, 27 giugno 2024
(diretta streaming LaScalaTv)
Werther e l’orologio
Un bellissimo tradimento quello del Werther di Massenet, tutt’altra cosa da Die Leiden des jungen Werther di Johann Wolfgang von Goethe, il romanzo epistolare pubblicato 118 anni prima, in cui il protagonista, ventenne e di buona famiglia, scrive all’amico Guglielmo nel corso di venti mesi, dal maggio 1771 al 22 dicembre 1772, dei suoi viaggi tra città e campagna e della sua infatuazione per Charlotte (Lotte), una ragazza del villaggio di Wahlheim già promessa sposa a un altro, Albert, un giovane funzionario.
Punto più alto del movimento Sturm und Drang che preluderà al Romanticismo e modello per il romanzo del Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis del 1804 che racconta una storia praticamente identica ma introduce il motivo politico-patriottico, l’apologo morale di Goethe diventa un drame lyrique intimo, un teatro da camera in linea con la lettura romantica dell’originale, ma guarda al Naturalismo di Maupassant o Flaubert. Nel libretto di Édouard Blau, Georges Hartmann e Paul Millet, Charlotte non è insensibile al fascino del giovane Werther il quale ha turbato anche i sentimenti di Sophie, la sorella minore di Charlotte, un’invenzione dei librettisti i quali posticipano anche il suicidio di Werther di tre giorni per farlo avvenire proprio il giorno di Natale, con la sua tragica morte punteggiata dai canti e dalle risa dei fratellini di Charlotte.
Qualche libertà se la prende anche Christof Loy in questa messa in scena del capolavoro di Massenet che mancava dalla Scala da oltre quarant’anni, essendo l’ultima volta quella con la direzione di Georges Prêtre e la voce di Alfredo Kraus. Il regista tedesco legge la vicenda agendo sui meccanismi psicologici dei quattro personaggi principali i quali agiscono sempre davanti a una parete che chiude il fondo del palcoscenico nella scenografia di Johannes Leiacker, dove solo una porta a battenti scorrevoli lascia intravedere, quando è aperta, quanto succede di là: un albero che segue il corso delle stagioni, una tavola imbandita per la festa del Pastore, immagini di una vita borghese preclusa a Werther – e infatti l’unica volta che varca quel confine è per spararsi. I dettagli della vicenda sono lasciati all’immaginazione dello spettatore e i quattro personaggi vivono le loro irrimediabili solitudini al proscenio, in una scena pressoché vuota, secondo una perfetta geometria di movimenti e cantando i loro monologhi verso il vuoto del pubblico. Il finale non avviene nella soffitta del giovane, ma nella casa di Albert e alla presenza anche di Sophie. E qui sottilissimi sono i tocchi psicologici messi in atto da Loy, come quando Sophie si stringe nella pelliccia della sorella o il pacco di lettere di Werther a Charlotte quasi sbattuto in faccia al marito. Più Ibsen che Massenet il finale e visto come uno psico-dramma. L’ambientazione è quella degli anni 50 del secolo scorso nei costumi di Robby Duiveman con le eleganti e lunghe gonne per le donne. In questa attualizzazione salta all’occhio l’orologio da polso con bracciale metallico di Werther, perfettamente plausibile, certo, ma comunque insolito su un personaggio che concepiamo così… fuori dal tempo.
Dopo Kraus solo Juan Diego Flórez nella produzione bolognese diretta da Mariotti nel 2016 aveva lasciato il segno. Ora è la volta di Benjamin Bernheim che si dimostra il miglior Werther di oggi, più lirico che drammatico, con un timbro purissimo e luminoso ma una proiezione che non teme i fortissimi orchestrali. I pianissimi sono i più delicati, il controllo di fiati e mezzevoci è da manuale, il fraseggio impeccabile, la vocalità cesellata ma espressiva, mai fine a sé stessa o esibita per edonismo. Perdendo ogni slancio eroico, il Werther di Bernheim diventa un sognatore umanissimo e commovente, destinato al fallimento fin dal suo primo ingresso quando si presenta in un completo con l’immancabile panciotto giallo ma con i pantaloni – era la moda degli anni ’50 – al di sopra delle caviglie. Jean-Sébastien Bou si dimostra come sempre ottimo attore nell’interpretare la figura di Albert, il marito che sa di non essere amato. Timbro caldo e corposo quello del mezzosoprano russo Viktoria Karkačeva, una Charlotte di carattere nobile e nascostamente appassionato. Non impeccabile neppure la dizione di Francesca Pia Vitale che peraltro delinea una Sophie sensibilissima, un personaggio complesso e sofferente nella sua condizione di amante rifiutata. Vivaci nella loro efficace caratterizzazione il Bailli di Armando Noguera, lo Schmidt di Rodolphe Briand e lo Johann di Enric Martinez-Castignani. Perfetti sia nel canto sia nella recitazione gli allievi del coro di voci bianche.
La musica di questo Massenet deve molto a Wagner ma anche a Čajkovskij e ciò è ben chiaro ad Alain Antinoglu che della partitura mette in luce tutta la sofferta malinconia e gli slanci lirici mai stucchevoli. L’esatta resa dei colori e degli impasti timbrici, l’equilibrio di trasparenze e squarci stordenti sono il risultato di una direzione magistrale e di un’orchestra in stato di grazia.
Visto su LaScalaTv.
⸪
