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Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto
Ravenna, Teatro Alighieri, 17 gennaio 2025
(video streaming)
Giulio Cesare si arena a Ravenna
Il Giulio Cesare (senza in Egitto) inaugura la stagione lirica del teatro Alighieri di Ravenna che per il quinto anno consecutivo inizia con un’opera del repertorio barocco: nel 2020 fu il Serse di Händel, L’isola disabitata di Haydn nella stagione ’21-‘22, Il Tamerlano di Vivaldi nel ’23 e L’incoronazione di Poppea di Monteverdi nel ’24.
Tre secoli dopo, il complesso capolavoro di Händel conferma la sua difficoltà di esecuzione: 40 numeri chiusi per quasi quattro ore di musica, otto personaggi, un coro e un’orchestra imponente per l’epoca: due flauti dolci, flauto traverso, due oboi, due fagotti, quattro corni, tromba, archi e basso continuo (violoncello, contrabbasso, fagotto, clavicembalo) più un diverso ensemble in scena nel secondo atto. Nel Giulio Cesare Händel non fa ricorso ad auto-imprestiti: la musica è praticamente tutta originale e di grande qualità, la strumentazione molto ricca e differenziata in relazione ai personaggi e alle situazioni drammatiche, con momenti di grande suggestione emotiva e intensi recitativi accompagnati.
Due sono le versioni: 1724 e 1729. Ottavio Dantone utilizza la versione critica curata da Bernardo Ticci basata direttamente sul primo manoscritto autografo conservato alla British Library sul quale Händel aggiunse, nel corso della stesura, qualche variante o correzione. A capo della sua Accademia Bizantina e con Alessandro Tamperi primo violino, tolti alcuni momenti di sbandamento del corno, Dantone riesce a realizzare la straordinaria varietà di colori e timbri della partitura, ma alcune pagine sono sacrificate, molti sono i tagli spesso all’interno dei numeri, con pregiudizio delle forme musicali, o di interi brani con danni alla drammaturgia. La suddivisione in due parti invece dei previsti tre atti turba l’equilibrio dell’ascolto con una prima parte molto più lunga della seconda mentre tagli vengono effettuati anche all’organico strumentale (tre corni su quattro e tromba assente), mentre l’arpa, la tiorba e la viola da gamba, che dovrebbero dare un colore diverso alla musica “all’antica” per la scena di seduzione di Lidia/Cleopatra con strumenti sul palcoscenico (qui lasciati in buca), suonano anche per il resto dell’opera, rovinando l’effetto sorpresa della scena. Tra le scelte non ortodosse del direttore anche l’aver affidato al flautino invece che al violino la ripresa concertante di «Se in fiorito, ameno prato».
Tra i solisti vocali l’interpretazione più convincente è quella di Marie Lys, bel timbro, tecnica elegantemente impiegata e agilità eseguite con agio e gusto. Il Cesare di Raffaele Pe soffre di un’estensione limitata, difficoltà nelle agilità (gli è infatti risparmiata l’impervia «Qual torrente, che cade dal monte») e alcuni problemi di intonazione. Del tutto assente è l’intesa tra i due personaggi principali, ma qui la regia ha la sua colpa per aver voluto un Cesare pesantemente caricaturale. Stesso discorso per Filippo Mineccia, un Tolomeo che sembra uscito dal film Il vizietto, in manti svolazzanti d’oro o bordati di piume, per non parlare del fatto che per buona parte del primo atto deve cantare impiastricciato di panna: non manca infatti la gag della torta in faccia. Non stupisce quindi che la sua performance vocale non risulti al massimo, con momenti di evidente stanchezza. Delphine Galou presenta il caso di mezzi vocali limitati ma compensati da un certo temperamento drammatico atto a delineare una Cornelia particolarmente sofferta. Il figlio Sesto con la voce di Federico Fiorio risulta più infantile di quanto sia il personaggio mentre Davide Giangregorio mette in campo un Achilla espressivo ma non sempre stilisticamente controllato. Il quarto controtenore Andrea Gavagnin (Nireno) e il baritono Clemente Antonio Daliotti (Curro) completano il cast.
Ci sono spettacoli in cui le intenzioni registiche sono lodevoli ma è poi la loro realizzazione che manca l’obiettivo e alla fine non convince. Questo è il caso del Giulio Cesare di Chiara Muti, che con le scenografie di Alessandro Camera, i costumi di Tommaso Lagattolla e le luci di Vincent Longuemare, mette in scena il capolavoro di Händel puntando alla simbologia, come afferma lei stessa: «mi muovo attraverso un gioco di simboli: chi riuscirà ad accaparrarsi la corona si garantisce l’immortalità. È Giulio Cesare, l’eroe, ed è suo il volto che come un puzzle si ricomporrà alla fine, ma anche lui di fronte all’amore si rivela fragile: di fronte a Cleopatra si trasforma in asino come Bottom all’apparizione di Titania in Sogno di una notte di mezza estate. Ma tra i rimandi shakespeariani emerge anche Sesto che allude alla figura di Amleto nell’ostinazione frustrata di vendicare il padre… un gioco di immagini e allusioni». Lo spazio scenico ideato dalla regista è atemporale – gli egiziani come usciti dalle pitture parietali delle tombe, i romani in orbace fascista – senza profondità e immerso nel buio con luci taglienti e pochi volumi formati da pezzi di teste di statue colossali che, in modo piuttosto irriverente per l’effigiato, fungono da praticabili. Velari neri si alzano ed abbassano per isolare il cantante al proscenio nei da capo delle arie, cosa vista e rivista e indice di mancanza di valide idee registiche. Ma è l’azione dei vari personaggi sia primari che secondari che difetta nel gioco teatrale, con invadenti figuranti ipercinetici e rumorosi che riempiono la scena con gesti inutili o gag ripetute.
Il video dello spettacolo è attualmente disponibile sul portale italiano Opera Streaming mentre dal vivo la produzione dopo Ravenna toccherà Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e Bolzano.
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