foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino
(non ci sono fotografie col protagonista della serata del 18 febbraio)
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Giuseppe Verdi, Rigoletto
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 18 febbraio 2025
Al Maggio Fiorentino riproposto il Rigoletto di Livermore
Il Rigoletto è titolo che non manca di certo nelle stagioni liriche fiorentine. Subito frequentatissimo – negli anni 1852-62 si ebbero rappresentazioni alla Pergola, al Leopoldo, al Teatro Nuovo, a quello di Borgognissanti, al Pagliano e all’Alfieri – rimase poi stabilmente in repertorio e dal 1934 sui palcoscenici del Comunale e del Verdi si succedettero venti diverse produzioni. L’attuale nuovo edificio nel 2015 ha ospitato la messa in scena di Henning Brockhaus, mentre nel 2018 e 2019 il Rigoletto di Francesco Micheli ha fatto parte del Progetto Trilogia Popolare. In piena pandemia e con i teatri chiusi al pubblico, il 23 febbraio 2021 fu trasmessa in streaming la produzione di Davide Livermore diretta da Riccardo Frizza (con Javier Camarena, Luca Salsi ed Enkeleda Kamani) che nell’ottobre dello stesso anno potè arrivare normalmente in sala in tre rappresentazioni con Piero Pretti, Amartuvshin Enkhbat e Mariangela Sicilia.
Quella produzione è ora riproposta con lo stesso Sparafucile di allora ma con tutti gli altri interpreti nuovi. Nella recita del 18 febbraio Rigoletto ha la voce di Leon Kim, baritono sudcoreano specializzato al Conservatorio Cherubini di Firenze e frequentemente presente nel repertorio verdiano (Germont, fra Melitone, Conte di Luna, Foscari, Macbeth, Amonasro, Miller, Renato, Paolo Albiani…). Voce chiara ma di grande proiezione, fraseggio variegato, accorto uso dei livelli sonori, delinea con sensibilità il personaggio e il suo «Cortigiani, vil razza dannata» va al segno anche senza eccessi espressivi. Straziante ma equilibrato è il tragico finale con lo scoprimento del cadavere della figlia. Non presenta difformità fisiche, ma è ben chiaro il suo ruolo subordinato rispetto al nobile padrone.
Il Duca di Celso Albelo è giustamente superficiale e arrogante, e supplisce con la presenza vocale a una presenza scenica non particolarmente affascinante. Il belcantista di Tenerife ha un inizio non esaltante, poi nel corso della recita migliora sempre più per quanto riguarda colori e agilità, ma il tono è quello di un interprete del passato, con gli stessi vezzi, come la n in «qual piuma al ve-n-to, muta d’acce-n-to…». Con il suo prezioso strumento vocale Albelo evidenzia la unicità del personaggio puntando alla singolarità dei suoi interventi, quasi tutti solistici in un’opera dominata invece da numeri a dialogo. «Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto», scrive Verdi, che plasma le forme dei numeri chiusi in una visione di moderna esaltazione della drammaturgia. Come avviene ad esempio nella prima scena del secondo atto, dove la tradizionale successione di recitativo-aria-cabaletta diventa una complessa scena teatrale: l’esclamazione del Duca «agitatissimo», «Ella mi fu rapita!», è seguita dal lirico «Parmi veder le lagrime» e dopo l’intervento del coro attacca la trascinante cabaletta «Possente amor mi chiama» («alzandosi con gioia», dice il libretto) con i pertichini del coro «Oh, qual pensier or l’agita». Di esempi simili ce ne sono altri in questo lavoro che allora si dimostrò in anticipo sui tempi e che nelle intenzioni del compositore doveva essere un primo passo verso la liberazione dagli schemi rigidi delle convenzioni musicali del tempo.
Il timbro di Ol’ga Peretjat’ko non è mai stato il punto forte della sua voce: un freddo metallo penetrante, compensato però da ottima intonazione, precise agilità ed efficace utilizzo dei piani sonori, con mezze voci e filati, tutti quanti impiegati nel definire il complesso personaggio di Gilda, innocente vittima dei sentimenti in una società brutale. Aiutata da una direzione di ampio respiro, il suo «Caro nome», distillato con preziosi pianissimi e belle variazioni, entusiasma il pubblico fiorentino.
L’interprete di Sparafucile, si diceva, è l’unico in comune con le passate edizioni: Alessio Cacciamani non sfoggia una voce cavernosa, ma delinea con efficacia e una certa eleganza la figura del sicario. Molto scuro è invece il timbro della Maddalena di Eleonora Filipponi, tanto che quasi non se ne sente la voce nel quartetto del terzo atto. Adeguati si rivelano gli altri comprimari con in evidenza il Monterone nobile e autorevole di Manuel Fuentes. Come si è già detto, la direzione di Stefano Ranzani ha tempo molto ampi a favore dei cantanti, ma è comunque funzionale allo svolgersi implacabile del dramma. Gli strumentisti dell’Orchestra del Maggio rispondono con precisione e giusti colori, così come il coro maschile, compatto ma duttile, istruito da Lorenzo Fratini.
A suo tempo la regia di Davide Livermore aveva diviso la critica: chi aveva apprezzato la cupa atmosfera e la serrata interazione tra i personaggi, chi aveva sollevato dubbi su una drammaturgia che non rispetta le indicazioni del libretto. Le scene di Giò Forma, i fantastici costumi di Gianluca Falaschi e le crude luci di Antonio Castro creano ambienti diversi e atemporali che più che la fedeltà alla lettera del libretto, interpretano lo spirito di un dramma sotto il peso della “maledizione”, con l’ineluttabile sconfitta del debole rispetto al più forte.
Il primo suono che ascoltiamo al levarsi del sipario è il rumore di una stazione della metropolitana: è qui infatti che è ambientato il breve preludio, con il cadavere di Gilda per terra e tre personaggi che prima indifferenti poi guardano con tono di condanna il quarto, il padre, sopraffatto dal senso di colpa. La «sala magnifica nel palazzo ducale» del I atto è dominata da un letto dorato per le «orgie» del depravato duca e da un grande affresco con figure e scene barocche ottenute con le proiezioni della D-Wok. Lo stesso sfondo rappresenterà poi il marciapiede visto dalla lavanderia seminterrata che è la casa e il posto di lavoro di Gilda e Rigoletto (atto II), poi un finestrone, attraverso il quale si vede il temporale, nel night club di Sparafucile e Maddalena (atto III), per poi terminare appunto nella squallida stazione della metropolitana vista all’inizio. Nella regia non mancano i rimandi cinematografici cari a Livermore, (qui il Kubrick di Eyes Wide Shut, ad esempio) con il solito horror vacui visivo e abuso di armi. Ma il taglio drammatico rimane efficace, anche se nella ripresa di Gian Maria Sposito si perde un po’ il lavoro sugli interpreti e salta fuori qualche imprecisione, come i fari luminosi sul pubblico durante gli interventi di Monterone.
⸪
