foto © Brescia e Amisano
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Vincenzo Bellini, Norma
Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2025
(video streaming)
Il tabù infranto
Presentata alla Scala il 26 dicembre 1831 con Giuditta Pasta protagonista, Giulia Grisi Adalgisa e Domenico Donzelli Pollione, Norma ora torna alla Scala 48 anni dopo l’ultima volta, quasi mezzo secolo in cui non si è osato riprendere il titolo.
Certi “fantasmi” (leggi Maria Callas…) hanno tenuto lontano quest’opera per così tanto tempo dal teatro milanese e che ci si aspettasse una reazione non inerte da parte del pubblico era previsto, così come non hanno troppo sorpreso i fischi verso il regista e il suo team (cosa non rara, d’accordo, alle prime milanesi, ma questa volta unanimi e senza appello). Di Olivier Py ricordiamo molte messe in scena interessanti, qui alla Scala la sua Thaïs, ad esempio. È un regista dalla cifra molto evidente: ambientazioni moderne, eleganti e stilizzate, spesso al limite del Kitsch, molto nero e oro, controscene di figuranti e danzatori in una drammaturgia mai banale, ma in questo caso poco convincente.
Norma è una diva (attrice, cantante? non si sa) non più giovanissima, che se la deve vedere con una rivale più giovane. La vicenda è ambientata dal regista francese «in un Ottocento che è quello risorgimentale nel quale la partitura è stata scritta, quando in Italia ci si interrogava se agire o non agire, fare o interrompere la rivoluzione, prendere le armi o fare la pace. Se si toglie Norma dal contesto storico della sua scrittura, si perde moltissimo. Perché Norma è un’opera profondamente risorgimentale, persino più di Nabucco» dice Py. Norma si confronta con la figura di Medea, « due miti che la Callas, il fantasma che aleggia qui, ha portato sul palcoscenico. Norma è una Medea che non riesce a uccidere i suoi figli, perché è una donna dell’Ottocento, una donna italiana e l’Italia non uccide i suoi figli, dicono Bellini e il librettista Felice Romani».
Fin dalla sinfonia scopriamo l’ambientazione pre-risorgimentale con un rivoluzionario in camicia rossa che entra correndo con una bandiera italiana, piuttosto anacronistica nel 1831, ma viene arrestato e fucilato da figuranti in divisa austriaca. Il suo cadavere è poi adagiato sulla suddetta bandiera da Pollione/Mazzini tra il pianto di donne in gramaglia. Come nella scenografia del Nabucco di Arnaud Bernard all’Arena di Verona, in quella di Pierre-André Weitz la facciata del Piermarini campeggia in mezzo alla scena, ma quando ruota sull’immancabile piattaforma girevole non svela l’interno del teatro, bensì una scalinata da tempio classico ma dorata e un intreccio di altre scale su cui si muovono uomini in redingote e alto cappello a cilindro e gli onnipresenti danzatori a torso nudo e maschera, d’oro quando non sono impegnati nelle inutili coreografie di Ivo Bauchiero. Capelli fulvi ed elegante abito da sera, anche i costumi sono firmati da Pierre-André Weitz, Norma entra con un ramo di vischio e una sfera nera da veggente mentre dall’alto scende la sagoma di una grande luna. La struttura non smetterà mai di roteare e i danzatori di affacendarsi con teschi, maschere d’oro e finti fucili con cui uccidere nel finale la coppia invece del rogo. Le fiamme erano comparse in cartonato in una delle tante pantomime.
Contrariamente a quanto si potesse prevedere, trionfano le voci femminili. Nella parte del titolo è la volta del soprano lettone Marina Rebeka affiancata dalla Adalgisa di Vasilisa Beržanskaja, mezzosoprano russo, ed è un trionfo, soprattutto per la seconda. Molto meno entusiasmante il Pollione di Freddie de Tomaso e come sempre esemplare l’Oroveso si Michele Pertusi nonostante l’usura della voce.
All’indomani della prima si sono letti giudizi diametralmente opposti da parte di due importanti firme del giornalismo: «Bontà dell’esecuzione musicale, tenore a parte, con due prime donne splendide e la direzione di Luisi che valorizza con rara sensibilità quegli accompagnamenti al canto dove solitamente i direttori rimestano la zuppa nel paiolo» scrive Francesco Maria Colombo. «La direzione: l’orchestra di Luisi è una morta gora limacciosa nelle sue rarissime pulsioni dinamiche, opaca sempre, chiassosa spesso, colori mai, elasticità ai minimi termini, logica narrativa yo-yo tra quello che Cimarosa chiamava «oh che armonico fracasso» nei momenti concitati e catatonia plumbea in quelli elegiaci», afferma Elvio Giudici.
In realtà la direzione di Fabio Luisi è generalmente apprezzabile. Rispetto alla prima nel corso delle recite, questa è la terza, certi squilibri sonori si sono probabilmente limati. Luisi è a suo agio in questo repertorio e ha diretto solo la scorsa estate Norma a Martina Franca. Non viene quindi messa in discussione la padronanza tecnica e la capacità a sostenere i cantanti. È stata poi scelta l’edizione critica di Roger Parker che reintegra, tra l’altro, il finale del coro di guerra e il da capo del primo duetto Norma-Adalgisa.
In definitiva si è trattato di uno spettacolo con luci e ombre con il quale perlomeno si è rotto il tabù che aveva impedito al teatro milanese di mettere in scena questo ineludibile titolo del Belcanto italiano.
⸪