Thaïs

foto © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Jules Massenet, Thaïs

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 16 febbraio 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Per la prima volta Thaïs parla francese alla Scala

«En ce temps-là, le désert était peuplé d’anachorètes». Così inizia con sottile ironia il romanzo Thaïs (1891) di François Anatole Thibault, letterato francese conosciuto come Anatole France. Prima di diventare una delle più importanti coscienze del suo tempo nell’impegno in cause sociali e politiche, in questo lavoro egli si dimostra uno scrittore scettico, anti-clericale, profondamente ateo ma affascinato dalle credenze in cui non crede più, soprattutto dalla transizione dal paganesimo al cristianesimo, esemplata nella vita di questa attrice alessandrina di liberi costumi del quarto secolo, omonima della Taide di otto secoli prima che Dante mette nell’Inferno, che qui invece è convertita alla nuova religione e fatta santa.

Nel passaggio dal romanzo al libretto di Louis Gallet non cambia solo il nome del protagonista maschile, Paphnuce diventa Athanaël per ragioni eufoniche, ma anche il tono della narrazione: là di un sarcasmo che aveva fatto gridare alla blasfemia, qui una vicenda di ossessione erotica, di dissidio fra amore carnale e spirituale e di pulsioni represse. Non per nulla questi sono gli anni in cui Sigmund Freud, avido lettore di Anatole France tra l’altro, elaborava la sua teoria dell’inconscio. Quel clima di voluttà e religiosità morbosamente intrecciate era già presente nel romanzo, ma nell’opera ne diventa il tema principale: le due traiettorie, ascendente quella della cortigiana, discendente quella del monaco cenobita che cercando di redimerla ne resta invece morbosamente ammaliato, sono avvolte da una musica che oscilla tra sensualità e misticismo.

La prima e l’ultima volta di Thaïs alla Scala fu nel 1942, nel pieno della guerra. Allora fu presentata nella traduzione ritmica italiana di Amintore Galli. Poi nulla, fino ad oggi, quando il teatro milanese ripropone in lingua originale la quindicesima opera di Jules Massenet a distanza di 128 anni dalla prima, il 16 marzo 1894, all’Opéra Garnier. Si tratta di uno spettacolo che vede al debutto sulle scene italiane in una produzione originale il regista Olivier Py.

Sul podio il giovane Lorenzo Viotti, che da ragazzo aveva assistito alla recita veneziana, regista Pier Luigi Pizzi, diretta dal padre Marcello e ne era rimasto affascinato. Ha quindo colto al volo la possibilità di cimentarsi con un’opera che ha sempre amato e che presenta nella seconda versione, quella del 1898. Thaïs ai suoi tempi era stata accusata di avere «poca musica», la partitura infatti denota una rarefazione sonora, una leggerezza di scrittura e una trasparenza che la avvicina al mondo sonoro di Fauré e Debussy. Tutto questo è perfettamente chiaro nel gesto nitido di Viotti che rifugge una qualunque magniloquenza pompier per sottolineare invece il profumo decadente di certi temi estenuati su cui si distende l’ammaliante melodia massenettiana, prima fra tutte quella della “Méditation” magistralmente eseguita dal primo violino dell’orchestra ma accompagnata in scena da uno stucchevole pas de deux di ballerini che raccontano la solita storia di lui che lascia lei e lei poi muore, mentre la pagina di Massenet rappresenta la conversione e l’ascesi della donna che decide di lasciare le cose del mondo in cambio dell’immortalità dell’anima. Le coreografie di Ivo Bauchiero, anche aiuto regista, nella sequenza dei ballabili che Massenet dovette inserire per poterla rappresentare l’opera a Palais Garnier, non si fanno apprezzare per particolare interesse – a parte l’involontario ironico balletto delle anime dannate tra le fiamme di cartone del fuoco appiccato da Thaïs al suo palazzo. A parziale giustificazione di questa resa deludente va il poco spazio in palcoscenico lasciato ai danzatori dalla incombente scenografia di Pierre-André Weitz che fa piazza pulita di ogni orientalismo o suggestione ambientale. Ecco allora che invece dello sconfinato deserto e del sole cocente, nel terzo atto vediamo la coppia arrancare in un cortile chiuso tra grigie facciate nella luce notturna. Più convincente invece il secondo quadro del primo atto: la casa di Nicias è una struttura a tre piani che rappresenta i camerini di un teatro di burlesque di cui Thaïs è l’attrazione principale. Nella sua lettura, il regista Olivier Py recupera chiaramente la sulfurea ironia del romanzo originale che è andata persa nell’adattamento musicale e ne abbiamo conferma fin dall’inizio: i cenobiti del primo quadro sembrano appartenere all’Esercito della Salvezza impegnati nella distribuzione di pane e zuppa ai poveri e non ci si scandalizza più di tanto quando Palémon impartisce la benedizione con il mestolo della minestra o quando dalla cappelletta a sinistra, sormontata da una croce al neon, esce una rossa discinta che cercherà di irretire Athanaël. Altre figure femminili e maschili mezze nude popoleranno la struttura a tre piani in atteggiamenti osé e formando a un certo punto anche una sorta di “ultima cena” a un tavolo colmo di coppe di cristallo.

Assieme a Lorenzo Viotti, a prendere gli applausi più calorosi è il soprano lettone Marina Rebeka, che si presenta subito come «idole fragile» cantando in pianissimo su un tappeto orchestrale rarefattissimo. Esibisce una grande eleganza del fraseggio, una prodigiosa emissione e una purissima linea vocale che si innerva nella scena allo specchio nella puntatura al re sopracuto in un gesto di disperazione di fronte alla caducità della sua bellezza – momento di crisi di cui approfitta Athanaël per prospettarle l’eternità dell’anima in cambio dell’abbandono dei piaceri terreni. La Rebeka aveva già affrontato il ruolo l’anno scorso a Montecarlo e qui dimostra una totale immedesimazione col personaggio.

La figura di Athanaël è la più importante sia nel romanzo (che è ricordato anche col titolo Paphnuce) sia nell’opera. Al suo apparire in scena la prima volta, in orchestra si sentono suoni minacciosi e lugubri che sembrano voler mostrare dietro le vesti di pio eremita quelle di un sadico: «Marche encore! Brise ton corps, anéantis ta chair! Marche! Expie!» griderà alla povera donna allo stremo delle forze spiando con morboso piacere le gocce di sangue che rigano i suoi bianchi piedi. Tanto più Athanaël mortifica la carne tanto più soccombe all’inconfessato piacere della stessa e il regista si diverte a far interrompere il bacio, che finalmente e furtivamente sta per rubare alla donna, dal «Pater noster» intonato fuori scena dalle monache del convento. Nella figura di Athanaël Anatole France condensava la contraddizione di una religione il cui dio si faceva carne, ma che del disprezzo della carne stessa faceva uno dei suoi dogmi maggiori. Qui occorre un interprete autorevole vocalmente ma che sappia anche gestire con efficacia la spirale di dannazione del personaggio: il baritono Lucas Meachem, che ha sostituito il previsto Ludovic Tézier indisposto, risponde bene al compito con bel timbro e voce mutevole nei colori e nelle espressioni. Talora si sente qualche incertezza nella dizione e forse manca di personalità, tanto che non riesce a infiammare il pubblico. Corretti sono gli altri cantanti, dall’esuberante Nicias di Giovanni Sala, alla coppia di schiave dai fantasiosi nomi di Crobyle e Myrtale, Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli, a Federica Guida, soprano coloratura impegnata negli arabeschi vocali della Charmeuse.

L’immaginario visivo di Olivier Py si esprime in due tableaux vivants raffiguranti le tentazioni di Sant’Antonio prima secondo Félicien Rops, in cui vediamo una donna nuda prendere il posto del Cristo in una crocefissione a fronte della disperazione del santo, e poi secondo il Matthias Grünwald delle ante dell’altare di Isenheim, con quella folla di mostri che assaltano il povero vecchio barbuto in uno scenario di fuochi e rovine. Le riproduzioni dei due dipinti sono inserite strategicamente nel programma di sala quasi a prevenire le scandalizzate obiezioni del pubblico. Il regista di Grasse in questa sua prima produzione italiana sembra essersi cautamente autocensurato e nessuno né dalla platea né dal loggione del teatro milanese ha dato segno di insofferenza alle sue proposte. D’altronde mica si è trattato di Verdi o di Puccini…