foto Andrea Macchia @Teatro Regio Torino
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Giacomo Puccini, La bohème
Torino, Teatro Regio, 13 febbraio 2022
Orlando Perera è andato a vedere la Bohème del Regio, in scena finalmente dal vivo. Queste le sue impressioni.
Torna la Bohème col profumo d’un tempo
Che si ricordi, mai opera al Regio di Torino ebbe vita tanto travagliata come questa Bohème storica. Calamità pandemiche e dissesti di bilancio si sono sommati in una miscela devastante. Era in cartellone per il marzo del 2020, e il Covid ha bloccato tutto. Si è provato a riproporla nell’autunno, quando pareva aprirsi qualche spiraglio per i teatri, sia pure a ranghi ridotti, ma la Commissaria Purchia, mandata nel frattempo da Roma, ha detto no per ragioni di costi. Arriva il 2021, e si decide di recuperare l’allestimento almeno in streaming, senza pubblico in sala, sul canale Classica HD di Sky, il 1° febbraio – 125esimo anniversario dalla prima assoluta in questo stesso teatro, direttore un 29enne Arturo Toscanini – e poi a pagamento fino all’8 febbraio sul sito del Regio (per inciso l’opera è ambientata in inverno, da Natale a febbraio appunto). Peccato che gravi problemi tecnici si frappongano e che il debutto smart debba essere rinviato di quattro giorni. Anche il sistema di pagamento on-line mostra qualche crepa e non facilita gli utenti. Finalmente i più tenaci riescono a farsi un’idea di questo spettacolo che vanta per le scene il recupero dei bozzetti originali 1896 di Adolf Hohenstein conservati nell’Archivio Storico Ricordi. Il direttore a sua volta è in qualche modo storico, lo stesso Daniel Oren che aveva diretto la Bohème del centenario il 1° febbraio 1996, con il duo Pavarotti/Freni quali Rodolfo/Mimì. Ma su questo spettacolo virtuale rimando alle recensioni uscite un anno fa, per occuparmi, dopo due anni di vuoto, del debutto fisico, con il pubblico in sala (tanto), di un’opera che con Traviata e Carmen si gioca il primato fra i titoli più rappresentati al mondo. Preciso che per ragioni mie non ho assistito alla prima, ma alla pomeridiana domenicale con la seconda compagnia di canto. Tra l’altro, rispetto al 2021 tutto il cast è cambiato, dal direttore al coro dei bambini del secondo quadro.

Per questo, e per non infierire sulle debolezze del nuovo organico di cui dirò dopo, preferisco puntare l’attenzione sull’aspetto rimasto invariato, e in fondo più interessante, cioè l’allestimento. Regia prudente, per non dire convenzionale del duo Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, che forse avrebbero dovuto curare maggioramente i gesti e le posizioni dei protagonisti, talvolta un po’ sperduti sulla scena. Divertente e giustamente animato però il secondo quadro. Il coro dei bambini che saltellano attorno al carretto dei giocattoli («Ecco Parpignol…col carretto tutto fiori»), per i quali è stato ripristinato per fortuna il coro di voci bianche di Claudio Fenoglio, e la festosa “Ritirata Militare”, che sfila trionfalmente sul palco sono i momenti più felici della regia. Scene e costumi ripresi rispettivamente da Leila Fteita e Nicoletta Ceccolini sui disegni tardo-ottocenteschi di Hohenstein, che hanno suscitato reazioni contrastanti. Visti dal vivo hanno certo un impatto molto diverso dallo schermo Tv o dal monitor del PC, i colori pastello ne sono esaltati, il velo che pare avvolgere la vicenda in una luce fané si può apprezzare solo così. Chi ne ha parlato come vecchiume stantio, e chi se n’è commosso, aggiungendo nuove lacrime a quelle di prammatica. Vediamo di fare ordine. Hoenstein, russo d’origine naturalizzato tedesco, pittore, scenografo, figurinista, è stato uno dei massimi interpreti del Liberty europeo nelle arti figurative, fondatore della cartellonistica italiana (fu tra l’altro maestro di Marcello Dudovich). I quattro quadri (anzi tre perchè l’ultimo riprende notoriamente il primo) disegnati per Bohème dopo più di un secolo conservano un’eleganza formale e una suggestione che non si discutono. Ma soprattutto una riconoscibilità immediata, come riportassero alla luce qualcosa che senza sapere abbiamo dentro di noi, quasi a sfogliare un vecchio album di foto di famiglia (del resto, non è questa la bellezza della musica di Puccini, o di Verdi?). Romantiche cartoline di una Parigi 1830 “circa”, con i luoghi canonici dove si consuma «la vita gaja e terribile» dei giovani protagonisti, descritta da Henri Murger nel romanzo Scènes de la vie de bohème che ha ispirato i librettisti Illica e Giacosa. La soffitta con il finestrone a destra, ritratta da Hohenstein con colori caldi, a lume di candela, alla Delacroix. Il Quartiere Latino e il Cafè Momus, che esisteva davvero, peccato che si trovasse non qui, ma dall’altra parte della Senna, sulla Rive Droite, in rue des Prêtres-Saint-Germain l’Auxerrois. Tant’è vero che nella ripresa attuale la via è meglio identificata rispetto al bozzetto di Hohenstein. E pazienza per la topografia. La Barriera d’Enfer sotto la neve del terzo quadro, che invece è ancora lì, a due passi dal cimitero di Montparnasse, anche se oggi si chiama Place Denfert-Rocherau. A ben guardare Bohème è una delle poche opere, con Tosca, Traviata, Rigoletto e poche altre, dove i luoghi del libretto sono reali. Non è un caso se i bozzetti di Hohenstein sono rimasti un punto di riferimento per innumerevoli allestimenti successivi, anche recenti. Da Zeffirelli, teatro alla Scala, 1979, in quella che rimane per me una Bohème di riferimento, direttore Carlos Kleiber, con Pavarotti/Cotrubas, alla citata Bohème del centenario qui al Regio con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Per i centovent’anni, nel 2016, arrivò invece la scena distopica del catalano Alfons Flores, per la regia di Alex Ollé direttore artistico della Fura dels Baus, dove un’enorme struttura tecno dominava il palco con effetti a dir poco stranianti. Se qualcuno mi chiede da che parte sto, mi pare sia chiaro. Ancora una volta si ripropone l’irrisolto dilemma: ma l’opera bisogna farla sempre allo stesso modo? Se non la adeguiamo al gusto attuale, non si rischiano l’effetto-museo e il rigetto delle giovani generazioni? Interrogativi irrisolti, che si ripropongono ogni volta di fronte al cosiddetto teatro di regia. Caso più recente il verdiano Macbeth di Davide Livermore che ha inaugurato la Scala lo scorso 7 dicembre, bersagliato anch’esso di polemiche. Questa Bohème rappresenta, degnamente secondo chi scrive, il gusto della tradizione, il sapore romantico e l’effusione delle passioni sotto l’ombra della morte, dettati dalla musica impetuosa di Puccini. Un contesto di valori ancora saldi e non fluidi, fondati ad esempio su una cura minuziosa dei particolari, della ricca attrezzeria di Bohème che hanno un ruolo scenico e musicale di prim’ordine. Dalla cuffietta rosa donata da Rodolfo a Mimì nel secondo quadro, al cappotto sdrucito, sulla strada del monte dei pegni, la «vecchia zimarra» di Colline alla fine dell’opera. Forse i miei capelli bianchi sono cattivi consiglieri, lo ammetto, ma per me tutto questo ha un suo preciso luogo della mente, che non può essere tradito. Siamo tutti saturi di regie e ambienti nazi-tech. Per quanto mi riguarda, lode dunque alla scelta scenica fatta dal Regio per segnare il suo ritorno alla vita.

Sul piano musicale si poteva fare meglio. Sempre si può fare meglio, e da un secondo cast, in un’edizione travagliata, non si può pretendere un’esecuzione di riferimento. Ho detto che non voglio infierire e mantengo la parola. I due protagonisti, il giovane poeta Rodolfo e la tenera ricamatrice Lucia chiamata Mimì (la Bohème è una storia tutta di giovani poveri e innamorati, per questo ci seduce tanto), Rodolfo e Mimì dunque sono notoriamente chiamati quasi subito alla prova, con due arie celeberrime appaiate, «Che gelida manina» e «Sì, mi chiamano Mimì». Una volta si sarebbero dette arie di sortita, perché in esse i personaggi si presentano l’un l’altro e al pubblico. In realtà sono due arie d’amore, apparentemente semplici ma irte di difficoltà nel fraseggio e nei repertini salti al registro acuto. Il do di petto che Puccini assegna a Rodolfo sulla parola «speranza» il giustamente impaurito Matteo Lippi, 38enne tenore genovese, lo abbassa di almeno un tono, e pazienza. Dove mostra la corda è però nel fraseggio secco e frettoloso che penalizza la smagliante partitura pucciniana. Meglio la Mimì di Francesca Sassu, giovane soprano sardo, dalla voce calda e morbida, è capace di arrampicarsi senza inciampare sugli acuti colmi di passione e di malinconia del personaggio. Come si usa dire, bene gli altri, come la sfrontata Musetta di Cristin Arsenova e il Colline di Bozhidar Bozhkilov con la sua toccante Vecchia Zimarra. Impeccabile come sempre, anche per le qualità attoriali, Matteo Peirone nel doppio ruolo di Benoît e di Alcindoro.

Sul podio uno specialista del repertorio italiano come Pier Giorgio Morandi, già oboista alla Scala, poi assistente di Riccardo Muti, approdato infine a fama internazionale. Si sente che Puccini è nel suo cuore, il che lo aiuta nell’impervia, ricchissima orchestrazione dell’opera, dove accanto a un’inesauribile gamma di tinte musicali, si deve governare il frequente susseguirsi dei Leitmotiv, che il maestro di Torre del Lago ha mutuato direttamente da Wagner. Curioso che l’insuccesso della prima torinese del 1896 sia stato decretato a quanto pare proprio dalla fazione wagneriana… In ogni caso prova superata per Morandi, sempre tenuto conto dei difficili confronti che la popolarità dell’opera rende inevitabili.
Non resta che sperare, con qualche fondata fiducia, che la stagione del Regio prosegua finalmente con regolarità, magari sotto la guida di un nuovo sovrintendente che chiuda la parentesi mai esaltante del commissariamento. Apprezzabile la decisione assunta dal Consiglio d’Indirizzo di invitare gli eventuali candidati a una manifestazione d’interesse per questa carica oggi piuttosto ingrata, per il depauperamento subito dalla struttura gestionale e tecnica del teatro. Sommessamente osiamo sperare che per questa scelta non si faccia torto ai talenti che la città sicuramente già possiede.
⸪