La bohème

Giacomo Puccini, La bohème

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 29 gennaio 2021

(video streaming)

Operazione nostalgia: a Torino la Bohème venuta dal passato

In tempi di pandemia i teatri italiani si rifugiano nel classico e nella tradizione ancor più che nei tempi normali: per il suo primo spettacolo in forma scenica dopo la chiusura per emergenza sanitaria la Scala ha riesumato uno spettacolo di quarant’anni fa, il Così fan tutte di Michael Hampe (1); il Regio di Torino, ancora commissariato, si spinge ancora più in là nel tempo e propone La bohème, l’opera di Puccini che aveva visto la sua creazione esattamente qui – beh, nel “vecchio” Regio. E proprio “quella” Bohème.

Doveva andare in scena nel marzo della scorsa stagione, ma il Covid-19 l’ha fatta annullare. Poi si è pensato di riprenderla in autunno, quando c’è stato uno spiraglio per i teatri con il pubblico ammesso a ranghi ridotti, ma il Commissario Straordinario, che nel frattempo era stato mandato da Roma, ha preferito tenere chiuso il teatro. Arriva il 2021 e si decide allora di aprire finalmente la nuova stagione recuperando lo spettacolo annullato per metterlo in onda il 1° febbraio, esattamente nel 125° anniversario della storica prima. Lo spettacolo viene registrato a porte chiuse il 29 gennaio e trasmesso subito dopo sulla rete con l’idea di renderlo poi disponibile in streaming come video on demand sugli schermi di tutti i computer, ma un problema tecnico ne impedisce la trasmissione per la delusione degli appassionati e ci vogliono ben quattro giorni per risolvere il problema. Un cervellotico sistema di vendita dei biglietti on line costringe poi il sottoscritto alla visione dello spettacolo solo l’11 febbraio.

Due registi, Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, una curatrice delle scene, Leila Fteita, e un’altra dei costumi, Nicoletta Ceccolini, danno vita a una Bohème che si basa sui bozzetti scenici originali di Adolf Hohenstein del 1896, disegni custoditi dall’Archivio Storico Ricordi e qui fedelmente riprodotti nei laboratori del teatro torinese. Scenografie che in verità non si discostano molto da quelle che vediamo ancora oggi in miriadi di Bohème in giro per il mondo, ossia una Parigi di metà Ottocento nostalgicamente riprodotta: la soffitta col finestrone sui «tetti bigi», il dehors del Café Momus nel Quartier latin con le luci calde dei lampioni e sul fondo le cupole del Sacré Coeur (piuttosto incongrue visto che la basilica dista sette chilometri al di là della Senna…) o la neve che imbianca la Barrière d’Enfer nel terzo quadro. Scene che fanno una certa tenerezza nella loro romantica ingenuità e i cui colori pastello probabilmente rendono meglio dal vivo, ma tant’è, ora è così, accontentiamoci di vederle sullo schermo.

Sul piano della regia vera e propria non c’è da aspettarsi nulla di nuovo: i due registi non prendono spunto dal distanziamento per proporre qualcosa di diverso e «Che gelida manina!» e «Vi starò vicina!» sono enunciati con gli interpreti a metri di distanza. Per il resto atteggiamenti e gesti sono quelli soliti, solo un po’ più impacciati, con i cantanti che non staccano un momento gli occhi dal direttore. Licenziato dal Commissario il Coro di voci bianche, il «Vo’ la tromba, il cavallin!…» viene “piagnucolato” da una fanciulla ben cresciuta, così come hanno superato l’età da marito quelle che formano la «turba di ragazzi che segue saltellando allegramente e circonda il carretto dei giocattoli» di Parpignol.

L’interesse maggiore di questa produzione va dunque alla componente musicale, affidata alla consolidata bacchetta di Daniel Oren che torna ancora una volta a quest’opera di Puccini con una stupefacente lettura della partitura, con tempi e rallentandi sorprendenti e dove le pagine più sinfoniche sembrano preparare gli slanci melodici che formano la struttura portante di quest’opera. I pianissimi e i colori strumentali sono di tale bellezza che quasi danno fastidio le voci…

Si scherza, ovviamente. La Mimì di Maria Teresa Leva è esattamente quello ci vuole: una voce di grande freschezza e liricità che emoziona giustamente nei momenti più toccanti in cui rivela grande sensibilità. Più guascone il Rodolfo di Iván Ayón Rivas, sempre troppo forte e che soprattutto negli acuti spinge molto sul fiato e difetta di naturalezza. Ottima anche l’altra interprete femminile, Hasmik Torosyan, Musetta fascinosa e dalla voce tecnicamente ben salda e perfettamente modulata. Massimo Cavalletti accusa anche questa volta in Marcello problemi di emissione e qualche incertezza di intonazione. Tommaso Barea è un efficace Schaunard mentre Alessio Cacciamani (Colline) è un giovane cantante che aspettiamo in futuro confermare il suo talento.

Superlativa la prova dell’orchestra: consola scoprire che questi mesi di forzata inattività non ne hanno minimamente intaccato la qualità.

(1) Impietoso il giudizio di Elvio Giudici su quello spettacolo: «Allestimento nato vecchio già quarant’anni fa, oggi inguardabile se non come reliquia fossile beninteso oh quanto “elegante”: quella “parola orrenda “ come direbbe Azucena, e purtuttavia stella polare dell’avanguardia della peggiore retroguardia teatrale, osannata da quanti perseverano nel ritenere vituperevole ogni scavo drammaturgico in favore d’un metafisico, asettico Bello Ideale che riduce una delle più dure, spietate, illuministicamente del tutto contemporanee descrizioni dei sentimenti umani a coccolezzi e moine da biscuit viennese più indigesto della giulebbosa Sacher…»

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