Prosa

La vita che ti diedi

Luigi Pirandello, La vita che ti diedi

regia di Stéphane Braunschweig

Torino, Teatro Carignano, 14 aprile 2024

L’illusione necessaria, o il lutto secondo Pirandello

«E… e non s’è nemmeno inginocchiata». Sono le prime parole, qui pronunciate dalla vecchia nutrice Elisabetta, in questa lettura di Stéphane Braunschweig che elimina la scena iniziale con le litanie funebri per la morte del figlio di Donn’Anna Luna, la madre che ne rifiuta la morte perché è ancora vivo nel suo cuore e ne aspetta il ritorno da un momento all’altro.

Breve tragedia in tre atti, La vita che ti diedi è il teatrale percorso d’arrivo iniziato da Pirandello con tre racconti scritti tra il 1914 e il 1916: I pensionati della memoria, in cui si interroga sul rapporto fra i vivi e i morti; Colloqui coi personaggi, scritto subito dopo la morte della madre, è un lungo dialogo con la defunta; ne La camera in attesa, scritto durante la Grande Guerra, la madre e le sorelle di un soldato scomparso continuano a preparargli la camera in attesa del suo ritorno.

Il rifiuto del lutto è dunque alla base del lavoro scritto per Eleonora Duse che però non poté recitarlo e al suo posto ci fu Alda Borelli alla prima del 12 ottobre 1923 al Teatro Quirino di Roma. L’idea di Pirandello è che la morte di un corpo non è nulla rispetto a quella morte lenta che costituisce la vita stessa nelle sue metamorfosi: la progressiva e ineluttabile scomparsa del bambino che eravamo per nostra madre. Ne La vita che ti diedi Donn’Anna dice al parroco don Giorgio: «Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora, è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio».

Donn’Anna ha assistito alla morte del proprio figlio e quindi non può prendere a pretesto l’incertezza della sua morte come ne La camera in attesa. La donna non sta negando i fatti: decide del tutto consapevolmente di continuare la sua vita come se il figlio non fosse morto. Si affretta a far rimuovere il corpo senza nemmeno prendersi il tempo di vestirlo e finisce per scrivere in sua vece una lettera all’innamorata a cui nasconde la sua morte quando quest’ultima decide di andarlo a trovare. Donn’Anna trasforma la sua casa in un teatro, dove il protagonista è assente sì, ma fin troppo vivo. «Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! Se l’era vissuta lui, la sua, lontano da me, senza che io ne sapessi più nulla. E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo? Che è morto di lui, che non fosse già morto per me?» è la straziante logica di Donn’Anna.

Teatro e follia sono sempre legati in Pirandello, i suoi personaggi spesso sembrano pazzi, ma la loro è una follia voluta, cercata, che rifiuta una realtà ridotta alla sola verità dei fatti: il figlio Fulvio è per così dire fuggito lontano dalla madre, per cadere innamorato di una donna già sposata e madre a sua volta. Per sette anni Fulvio e Lucia si sono amati platonicamente, poi la passione della carne è prevalsa, seppure per un unico amplesso, e Lucia è rimasta incinta e torna da Fulvio fuggito dalla madre. Ma qui è morto improvvisamente, forse per punirsi, per espiare la sua colpa.

L’allestimento di Stéphane Braunschweig, che vanta una lunga e significativa del teatro di Pirandello, prevede la collaborazione di Lisette Buccellato, che ha disegnato anche i costumi, le preziose luci di Marion Hewtt e i rarefatti suoni di Filippo Conti che solo nella straziante scena finale fa ricorso a una musica più strutturata, il “Lacrimosa” del Requiem di Mozart. Il regista fa svolgere l’azione per lunghi tratti sul proscenio, davanti a un sipario interno nero, nella terra di nessuno fra la vita e la rappresentazione della vita. E quando quel sipario si alza, appare la realtà come si manifesta nei sogni di Donn’Anna: la stanza con il figlio morto composto sul letto immersa in una tenue luce azzurrina, come in un delirio onirico. Ai lati due finestre chiuse, una scrivania, un armadio, due porte. Poi al secondo atto la stessa stanza, senza più il corpo del figlio morto, ha le finestre spalancate ed è letteralmente inondata di fiori in vaso: il figlio, morto nella realtà, “rifiorisce” come immagine. Nell’ultimo atto, dopo i drammatici colloqui con Lucia e la madre, Donn’Anna accetta finalmente la morte del figlio, ne disfà il letto e vi si sdraia. «È ben questa la morte, figlia. ‒ Cose da fare, si voglia o non si voglia ‒ e cose da dire…. ‒ Ora, un orario da consultare ‒ poi, la vettura per la stazione ‒ viaggiare…. ‒ Siamo i poveri morti affaccendati. ‒ Martoriarsi ‒ consolarsi ‒ quietarsi. ‒ È ben questa la morte».

Essenziale come la scenografia è la recitazione degli attori, sotto tono ma intensa, i personaggi, anche quelli minori della vecchia Elisabetta e del giardiniere sono magistralmente connotati dalla voce e dalle movenze. Daria Deflorian è una strepitosa e controllatissima Donn’Anna Luna, Federica Fracassi si divide efficacemente tra Donna Fiorina, la sorella, e Francesca Noretti, la madre della giovane Lucia, qui la brava ed espressiva Cecilia Bertozzi. Fulvio Pepe (don Giorgio e Giovanni il giardiniere), Enrica Origo (Elisabetta), Caterina Tieghi e Federico Costella (i figli Lida e Flavio) completano il bel cast.

In questa regia così essenziale solo due errori. Alla ricerca di un maggior effetto teatrale il regista fa muovere la sedia della scrivania e aprire la porta dell’armadio come per la presenza di un fantasma. Il brivido che procurano fa perdonare la trovata. Meno perdonabile invece è la presenza del figlio morto (che tra l’altro ha le fattezze del fratello Flavio) che “consola” la madre nel finale. Se quella del figlio “non morto” è un’idea della madre, l’idea non può concretizzarsi in una presenza. A parte questo, si è trattato di uno dei migliori spettacoli della stagione.

Medea

foto © Luigi de Palma

Euripide, Medea

regia di Leonardo Lidi

Torino, Fonderie Limone, 10 aprile 2024

Medea, una storia d’amore

Dopo tante riscritture, riletture, adattamenti, è salutare tornare al testo originale, o quasi. Le Medee di Seneca (I secolo d.C.), Corneille (1635), Grillparzer, (1821), Anouilh (1946), Alvaro (1949) e poi Charpentier (1693), Rameau (1721), Cherubini (1797), Mayr (1813), Pacini (1843), Reimann (2020) tra quelle messe in musica, Pasolini (1969) e von Trier (1988) quelle cinematografiche, devono tutto a Euripide che la presentò alle Grandi Dionisie del 431 a.C. come parte di una tetralogia andata in parte perduta. Ora il Teatro Stabile di Torino ha in programma alle Fonderie Limone una versione da Euripide, ossia una Medea filtrata attraverso la traduzione di Umberto Albini, la regia di Leonardo Lidi e la drammaturgia di Riccardo Baudino,  che con sensibilità moderna propongono la loro lettura della tragica vicenda.

Quando Giasone giunge nella Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, Medea se ne innamora perdutamente e per aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto. Quando lo zio di Giasone rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del tesoro,  Medea sfrutta le proprie abilità magiche e convince le figlie di Pelia a somministrare al padre una pozione che,  dopo averlo fatto a pezzi e bollito, lo avrebbe ringiovanito completamente. Le figlie ingenue si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre. Acasto, figlio di Pelia, bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposeranno. (Con una tale storia di sangue alle spalle, non sorprende il ricorrere di Medea all’omicidio prima della fidanzata rivale e poi dei figli, una decisione sofferta sì, ma presa razionalmente e che non suscita particolari sensi di colpa nella donna.)

Tutto questo è raccontato dalla nutrice nella prima scena sia in Euripide sia nello spettacolo di Lidi, ambientato in una stanza chiusa da pareti di vetro che separano dal pubblico gli attori. L’unico personaggio al di fuori di questo “acquario umano” è il re Egeo, che promette a Medea asilo purché lo guarisca dalla infecondità. Nella drammaturgia di Riccardo Baudino il personaggio del re Creonte è sostituito dalla figlia Glauce, presenza muta in Euripide, questo per sottolineare il confronto al femminile tra le due donne. Donna e straniera, Medea è la “diversa” che cerca la solidarietà delle donne di Corinto. Anche la scena finale tra Medea e Giasone è diversa, trasformata in un monologo di quest’ultimo.

Nello spettacolo di Lidi Medea ha perso ogni connotazione magica e regale, è dimessa, non è vestita sontuosamente, non ha un trucco particolare: è una povera donna sconvolta dal dolore di essere abbandonata, per un’altra più giovane, da un uomo a cui ha sacrificato tutto. Orietta Notari connota con grande intensità la sofferta psicologia della donna e nello stesso tempo la lucida spietatezza con cui arriva a ideare un piano così efferato senza cercare di costruire la grandezza del personaggio. Con un accorto uso del corpo e della voce – essendo in una gabbia vetro gli attori usano microfoni per farsi sentire ma il risultato è convincente – dimessamente vestita, scalza, utilizza un’ampia gamma espressiva con cui confrontarsi con gli altri personaggi. Giasone soprattutto, ma anche i due giovani attori che rappresentano la nutrice e il pedagogo, a cui si rivolge maternalmente,  infatti alla fine saranno loro a impersonare i figli fino a quel momento totalmente assenti dalla scena. Valentina Picello e Alfonso de Vreese interpretano con sensibilità questi due unici personaggi simpatetici della vicenda, il secondo anche con una chitarra elettrica da cui scaturiscono sobri ma accarezzevoli suoni. Marta Malvestiti impersona Glauce che qui sostituisce prima Creonte mentre riferisce a Medea l’ordine di abbandonare la città e poi il nunzio che racconta della fine della giovane sposa con particolari d’un orrore raccapricciante. Lorenzo Bartoli è Egeo nel breve unico momento non drammatico della storia e infine Nicola Pannelli è un Giasone che non ha nulla di eroico, è l’uomo pusillanime che giustifica nel modo più ipocrita il suo tradimento. 

Con una recitazione naturalistica e sempre attenta ai significati delle parole, i pochi attori in scena hanno connotato con efficacia uno spettacolo visivamente depurato da elementi distraenti. Però neanche questa volta è mancato il momento pop, quando Glauce ha preso il microfono per cantare una canzone allo sposo e anche Medea si illude di poter vivere un altro momento di felicità ballando col fedifrago.

Bérénice

Romeo Castellucci, Bérénice da Jean Racine

regia di Romeo Castellucci

Milano, Teatro del Palazzo della Triennale, 7 aprile 2024

Il teatro delle contraddizioni di Romeo Castellucci

Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres de la République Française, Romeo Castellucci è certamente più apprezzato in Francia che in Italia, però alla Triennale di Milano è “grand invité” e continua la sua collaborazione che tocca vari ambiti di azione: dalla regia alla scrittura, dalle arti visive alla scenografia al pensiero critico. Dopo Nascondere (2021), La quinta parete (2022) e Il passo (2023), nell’autunno di quest’anno curerà la quarta edizione di un progetto formativo dedicato alle arti della scena per un selezionato gruppo di professionisti e studenti.

Si diceva del rapporto privilegiato del regista di Cesena con la Francia, e francese è il classico su cui ha basato il suo ultimo spettacolo, Bérénice di Jean Racine. Dalla verbosa tragedia in cinque atti del massimo esponente, assieme a Pierre Corneille, del teatro tragico francese del Grand Siècle, Castellucci trae un monologo per l’attrice Isabelle Huppert, sola in scena con i versi della sua sofferta vicenda: amata da Tito, viene però lasciata per ragioni di stato – dal “Senatus populusque romanus” non è ben vista una straniera sul trono di Roma, essendo lei principessa di Giudea – e se ne torna mesta in patria promettendo di non uccidersi. Si è minacciato di suicidarsi invece Antioco, anche lui innamorato della bella Berenice.

Castellucci ha sempre rifuggito il teatro di parola, ma questa volta, e qui sta la prima contraddizione, affida quasi soltanto alla parola la drammaturgia del suo spettacolo, sottolineando e distorcendo la voce dell’attrice con i suoni elettronici di Scott Gibbons, lo stesso de Il Terzo Reich. Affascinato dalla tragedia greca, Castellucci si dichiara intrigato dai tentativi dei grandi autori di far rivivere la tragedia antica – Hölderlin, Alfieri, ma soprattutto Racine, che ha mescolato cultura greca e cultura cristiana. È l’anacronismo della sua lingua a rendere contemporaneo il testo di Racine: «Tutto è detto per essere in realtà nascosto», afferma il regista, «tutto è controllato o trattenuto. Appena riusciamo a sentire l’abisso nascosto». Castellucci si concentra sulle contraddizioni dell’opera per evidenziarne l’attualità: la violenza interiore che si esprime nella paralisi, la bellezza dei versi che ruotano intorno alle parole non dette, il caos di un triangolo amoroso che risplende con chiarezza attraverso la brutalità delle emozioni umane.

E la «nebbia di parole», l’ombra racchiusa in questi versi sono la cifra visiva dello spettacolo: entrando nel teatro del palazzo della Triennale una foschia invade la sala, per di più un velino separa il palcoscenico dal pubblico e la scarsa illuminazione aumenta l’ambiguità di quello che vediamo, la rappresentazione di confusi ricordi. Berenice è l’unico personaggio presente in una scena vuota, se non in compagnia di una lavatrice o un termosifone. Gli altri, soprattutto Tito e Antioco, sono presenze evanescenti, fantasmi che si esprimono non a parole ma con i gesti della pantomima dell’incoronazione di Tito. Ci sono poi altre dodici persone «reclutate in loco» come in Bros, il cui ruolo non è dei più evidenti.

Tutto ruota attorno alla performance dell’attrice e qui la Huppert, in questo vuoto, esplora ampi estremi emotivi: ora è una regina maestosa, con una mano alzata sulla fronte in segno di esaltata disperazione, mentre si aggira sul palcoscenico con i costumi sontuosi disegnati da Iris van Herpen. Un attimo dopo, invece, scatena un’energia fuori controllo, con battute amplificate e distorte al punto da diventare incomprensibili. Solo una scena, alla fine, la porta improvvisamente fuori dalla sua comfort zone: mentre recita il monologo finale, inizia a balbettare, inciampa sulle parole, lotta per fare uscire inarticolati fonemi, poi si ferma e rimane in silenzio, guardando a destra e a sinistra come se stesse aspettando un segnale, e ci si chiede se qualcosa sia andato storto. Invece si alza, va verso il fondo della scena e si volta indietro per rivolgersi al pubblico: «Ne me regardez pas!» urla più volte, sempre più disperatamente, prima di nascondersi dietro la manica dell’abito. E così si chiude lo spettacolo con quest’ultima contraddizione di Castellucci e del suo teatro di immagini.

Edipo re

foto © Andrea Macchia

Sofocle, Edipo re

regia di Andrea de Rosa

Torino, Teatro Astra, 13 marzo 2024

La luce che acceca

Sono ben tre gli Edipo re che si possono vedere in questi giorni: su RaiPlay lo splendido spettacolo di Carsen al Teatro Greco di Siracusa, al Teatro Elfo Puccini di Milano una intrigante riscrittura di Bruni/Frongia come “favola nera” e qui a Torino per il Teatro Piemonte Europa la messa in scena della tragedia sofoclea da parte del suo direttore, Andrea de Rosa, sopravvissuto al Ballo in maschera col Maestro Muti…

“Cecità” è il titolo della stagione del TPE e ovviamente non poteva mancare questo lavoro che fa del non vedere il punto focale. Tiresia è cieco ma “vede” la verità, Edipo non la vuole vedere e fino all’ultimo la respinge, non ammette di essere lui l’uccisore di suo padre, di essere colpevole di incesto per aver sposato sua madre, di aver portato la peste nella sua città. Solo davanti alla non più negabile evidenza sceglie di punirsi proprio dove ha mancato, trafiggendosi gli occhi con gli spilloni dell’abito della madre/sposa nel frattempo suicidatasi.

Questi terrificanti accadimenti non si svolgono sulla scena del Teatro Astra, in parte raccontati nella tragedia, sono ancora più indiretti in questo Edipo Re, un adattamento di Andrea de Rosa con la stringata traduzione di Fabrizio Sinis. Spettacolo che in meno di ottanta minuti fa rivivere la vicenda raccontata da Sofocle in una messa in scena quasi oratoriale consistente, un’installazione dove la luce è protagonista e lo spazio scenico di Daniele Spanò è inteso così da metterne in risalto le caratteristiche fisiche e simboliche. Proiettori distribuiti sul fondo di un emiciclo sono rivolti al centro dove è Edipo, pannelli dorati ne  diffondono la luce, altri trasparenti sono segnati da una linea di vernice bianca all’altezza degli occhi così da impedire la vista a coloro che non possono o non vogliono vedere la verità. I pannelli trasparenti fungono quasi da leggii a cui si appoggiano gli attori per recitare le loro battute. Luce e parola, l’altra protagonista su sfondo di immagini sonore, rumori, sussurri, grida, lamenti.

Sei soli attori – Marco Foschi è il tormentato Edipo, Frédérique Loliée è Giocasta, Roberto Latini dà voce a Tiresia e ai messaggeri, Fabio Pasquini è Creonte, Francesca Cutolo e Francesca della Monica il coro – per una rigorosa impresa teatrale salutata dagli applausi del pubblico colpito dalla sconvolgente modernità di un testo di 2500 anni fa.

Le serve

foto © Lalla Pozzo

Jean Genet, Le serve

regia di Veronica Cruciani

Torino, Teatro Gobetti, 27 febbraio 2024

La pièce “malsana” di Genet vince la prova del tempo

Nel 1933, a Le Mans, le due sorelle Christine e Léa Papin, di 28 e 21 anni, a servizio da tempo presso una famiglia borghese, in seguito a un rimprovero per un banale incidente, massacrarono madre e figlia e ne seviziarono i corpi con inaudita ferocia. Commesso il delitto si ritirarono nella loro stanza per dormire nello stesso letto. Al giudice non fornirono alcun motivo comprensibile del loro atto, l’unica loro preoccupazione sembrò quella di condividerne interamente la responsabilità.

Quando, liberamente ispirato da quel truce fatto di cronaca, nell’aprile 1947 al Théâtre de l’Athénée andò in scena per la prima volta Les Bonnes, la pièce fu accolta male: «Non ci furono applausi, ma un silenzio totale. È stato orribile», racconterà una delle interpreti. Il testo ruota attorno al crudele gioco delle parti di due domestiche, Claire e Solange, che a turno recitano la parte della signora indossandone vestiti e imitandone gli atteggiamenti, esprimendo così allo stesso tempo il loro odio e il loro desiderio di essere lei. Con delle lettere anonime le ragazze hanno denunciato di furto l’amante di Madame, ma quando vengono a sapere che l’uomo è rilasciato per mancanza di prove e che il loro tradimento sarà scoperto, tentano di assassinare Madame, falliscono, e poi tentano di uccidersi a vicenda.

Perfetto congegno di teatro nel teatro che mette a nudo la menzogna della scena, Le serve è uno straordinario esempio di continuo ribaltamento tra essere e apparire, tra immaginario e realtà. La rivolta delle serve contro la padrona non è un gesto sociale, un’azione rivoluzionaria, è un rituale e questo rituale è l’incarnazione della frustrazione: l’azione di uccidere l’oggetto amato ed invidiato non può essere portata a compimento, viene ripetuta all’infinito come un gioco. Tuttavia questo gioco non raggiunge mai il suo apice poiché la messa in scena viene continuamente interrotta dall’arrivo della padrona. Questo fallimento è inconsciamente insito nel cerimoniale stesso ed è il tempo sprecato nei preliminari a non portare al compimento del rituale. Anzi, questo rituale diventa un atto assurdo, il desiderio di compiere un’azione che non potrà mai superare la distanza che separa il sogno dalla realtà.

Genet aveva concesso al regista Louis Jouvet di affidare le parti a delle donne, ma avrebbe voluto invece che le domestiche fossero interpretate da uomini: come avrebbe poi scritto Jean-Paul Sartre in Saint Genet comédien et martyr, «il suo obiettivo era mostrare la femminilità senza femmina, mostrare una irrealizzazione, una falsificazione della femminilità e così radicalizzare l’apparenza. […] Le caratteristiche femminili dovevano essere solo “apparenza”, solo il risultato di una commedia, sogno impossibile di uomini in un mondo privo di donne. […] Solange e Claire amano Madame, che nel linguaggio di Genet significa che vorrebbero essere Madame e appartenere all’ordine sociale di cui invece sono gli scarti». Le due serve, insomma, non sono realmente “serve”, ma rappresentano tutti coloro che, in modo diverso e a diverso titolo, sono oppressi, rifiutati, reietti, considerati “diversi” e pertanto relegati ai margini. Ma qui la rivoluzione sociale non c’entra. Si tratta di una conflittualità che va al di là della disparità economica, qui è in gioco l’eros del potere. La lotta contro il potere è intrisa del desiderio del potere. L’identificazione nel potente è fondamentale, più che il capitale stesso.

Nello spettacolo ora in scena al Teatro Gobetti per la stagione del Teatro Stabile di Torino, Claire e Solange  sono Beatrice Vecchioni e Matilde Vigna, ma Madame è Eva Robin’s, all’anagrafe Roberto Coatti, personalità transgender affermatasi nella televisione e nel cinema negli anni ’90. Per il resto è tutta al femminile questa produzione che vede la regia di Veronica Cruciani, le scene di Paola Villani, i costumi di Erika Carretta e la traduzione, molto attualizzata e con ampio uso di interiezioni volgari, di Monica Capuani. Unico maschio John Cascone con i suoi interventi rock per la drammaturgia sonora.

È lo stesso Genet a dare libertà allo scenografo: fermo restando trattarsi della camera da letto della Signora, «se il lavoro è rappresentato in Francia, il letto sarà capitonné […] se è rappresentato in Spagna, Scandinavia o in Russia, il letto deve essere diverso» scrive nella prefazione. La scenografa Paola Villani ambienta la vicenda in uno spazio non realistico ingombro di flightcase, quei contenitori per il trasporto di attrezzature, che aperti diventano armadi con le cose di Madame e accostati ne formano il letto. E poi fiori, tanti fiori. Le fredde luci e gli acidi suoni fanno da sfondo alla recitazione fatta di piani e di forti delle due brave allieve della scuola dello Stabile torinese. Una recitazione un po’ troppo gridata visto che Genet insiste sul termine furtif : «Le jeu théâtral des deux actrices figurant les deux bonnes doit être furtif […] afin qu’une phraséologie trop pesante s’allège et passe la rampe» (Il tono recitativo delle attrici che interpretano le due cameriere deve essere discreto, non appariscente […] in modo da alleggerire e far passare in secondo piano la pesante fraseologia). Meglio il tono mellifluo e non realistico della Madame di Eva Robin’s in un elegante completo maschile che sottolinea la sua transessualità. In ciò perfettamente in linea con le intenzioni dell’autore. 

Il merito maggiore dello spettacolo è l’aver evidenziato il sentimento su cui è basato Le serve: l’odio, il protagonista indiscusso della nostra epoca, unitamente all’invidia di non poter essere ciò che si desidera. Da qui la tremenda attualità – il meccanismo degli haters nei social non è diverso da quello ambivalente di odio/amore delle serve – di un testo di quasi ottant’anni fa che il pubblico ha compreso e salutato con calorosi applausi.

Otello

William Skakespeare, Otello

regia di Kriszta Székely

Torino, Teatro Carignano, 22 febbraio 2024

«Jago è un brav’uomo»

La parola “negro”, che ieri al Teatro Regio per Un ballo in maschera non è stata cancellata dal libretto ma che è ormai stata bandita da qualunque discorso “politically correct”, è tra i termini più ripetuti in questa versione dell’Otello di Shakespeare messo in scena in prima nazionale per il Teatro Stabile di Torino da Kriszta Székely. È spesso sulla bocca di Jago, il personaggio principale in questa drammaturgia di Ármin Szabó-Székely.

La regista ungherese, che ritorna al TST per la terza volta dopo un’intrigante Hedda Gabler e un meno convincente Riccardo III, basa la sua lettura sulla diversità del comandante moro, che qui ha le fattezze caucasiche dell’attore Barna Bányai Kelemen, e sulla rancorosa gelosia del suo capitano. Ma la centralità del personaggio di Jago qui è talmente accentuata da trasformare la tragedia del bardo in un “one man show” per la stupefacente prestazione dell’attore che lo interpreta, Lehel Kovács.

Nel depurato spazio scenico di Nelli Pallós, teli sia trasparenti che traslucidi appesi a putrelle di metallo delimitano un luogo dove, con precisione cronometrica e infallibile senso teatrale, agiscono dieci formidabili attori che mettono in scena una versione sintetica ma fedele – lo spettacolo dura in tutto un’ora e 40 minuti senza intervallo – del gioco di manipolazione effettuato da quell’anima nera di Jago, il personaggio che non vacilla, non torna indietro di fronte a nulla ed è allo stesso tempo determinato e subdolo nelle sue candide bugie che instillano il dubbio e il veleno nelle orecchie del moro veneziano. Il quale crede al suo capitano perché questi è bravissimo a recitare la parte dell’uomo onesto, a presentare la realtà come equivocabile e trascinare tutti nella distruzione. Kriszta Székely vede un forte filo conduttore tra Jago e Riccardo III: «Ho creato prima Jago come studio preliminare per Riccardo. Il pubblico vede mostri e come agiscono fino a provare simpatia nei loro confronti. Agli applausi finali di solito si rende conto e pensa: oddio, ma per chi sto simpatizzando? La Storia è così. In Europa oggi ci sono molti Jago, soprattutto intorno al potere, per questo è tutto così sporco. Pensavo che il mio Riccardo fosse una cosa estrema, invece di recente ci sono state molte cose avvenute nel mio paese, l’Ungheria, che sarebbero potute entrare nello spettacolo».

La regista esamina con lucidità in questo suo lavoro il «cancro del nostro presente, cioè la volontà distruttiva ed egoistica del potere e il meccanismo socialmente dominante delle fake news». Un tema di drammatica contemporaneità che tocca il pubblico che risponde con insistiti applausi a questa messinscena in cui la barriera della lingua non costituisce un impedimento alla sua fruizione.

Solo quattro repliche al Teatro Carignano. Spettacolo che sarebbe un peccato perdere.

Il tango delle capinere

foto © Rosellina Garbo

Emma Dante, Il tango delle capinere

Torino, Teatro Gobetti, 30 gennaio 2024

Un nostalgico viaggio a ritroso nel tempo sulle note delle canzoni

Nel 1983 con Le bal (Ballando ballando in Italia) Ettore Scola aveva raccontato cinquant’anni di storia di una nazione facendo diventare un film l’omonimo spettacolo teatrale di Claude Penchenat. Ora Emma Dante con Il tango delle capinere racconta cinquant’anni di storia di una coppia. Se il film affidava solo alla musica e ai costumi il passaggio del tempo, qui brevi dialoghi aiutano a definire la vita di una vecchia coppia che, a ritroso nel passato ripercorre i momenti salienti della esistenza assieme. Ed è proprio lo stare assieme, l’aggrapparsi l’uno/a all’altra/o che dà significato al loro vivere. Tanto che quando uno dei due viene a mancare sarà la fine anche dell’altro.

Il teatro della Dante è arcaico, rituale, fatto dai corpi degli attori e questo spettacolo non è diverso. In scena solo due bauli e la graticcia trapunta di lampadine. Una vecchia ingrigita e malferma è china su un baule aperto, poi si alza con in mano una spina elettrica e una presa; non appena le collega sopra la sua testa si accende il firmamento. Da un altro baule appare un uomo vecchio che la guarda e le sorride amoroso. Ballano. Lui con la testa poggiata sulla testa di lei, lei aggrappata alla giacca di lui. Il vecchio ha un sussulto di piacere. Anche la donna prova piacere, ma poi ha dei colpi di tosse e deve prendere delle medicine. Meno 5, meno 4, meno 3, meno 2, meno 1… Al rintocco della mezzanotte lui fa scoppiare un piccolo petardo. Lui e lei si baciano. Lui infila la mano in tasca ed estrae una manciata di coriandoli. Li lancia in aria, festoso. Lei fa suonare un vecchio carillon. Si tolgono la maschera da vecchi, inforcano gli occhiali e riprendono a ballare sulle note di vecchie canzoni che punteggiano  a ritroso la loro storia d’amore.

Dal baule usciranno l’abito da sposa, i costumi della gara di ballo, i costumi da mare di quando si sono incontrati la prima volta. Gli abiti li rinvigoriscono e riportano indietro nel passato sulle note delle canzoni delle varie epoche. Ecco allora le voci di Mina, Francesco de Gregori, Gianni Morandi, Rita Pavone, Edoardo Vianello, il Quartetto Cetra. Fino a Nilla Pizzi che canta quel Tango delle capinere che dà il titolo al lavoro: «Laggiù nell’Arizona | terra di sogni e di chimere […] A mezzanotte va | la ronda del piacere | e nell’oscurità | ognuno vuol godere».

L’amore reciproco e la passione per il ballo sono il collante di una relazione che, come tutti, essi credono eterna e festeggiano l’anno nuovo ogni anno fino alla fine. Sulle note di quell’ultimo tango lui cade a terra e lei lo veste con una camicia da notte bianca. Lui non ce la fa a camminare, allora lei lo prende in braccio come un bambino, lo depone nel suo baule e chiude il coperchio. Adesso è ancora lei a tossire, prendere qualche pillola e andare a sistemarsi nel baule tomba.

La vecchiaia è spesso al centro degli spettacoli di Emma Dante: «È una fase della vita straordinaria, delicata, importante. I vecchi sono creature quasi mitologiche, custodiscono la storia di tutti noi», dice la regista, «quindi mi interessa interrogarli: non sono mai noiosi o banali. Inoltre, mi affascina il loro corpo, a mio avviso molto teatrale. Somiglia a quello dei bambini: sono timorosi, sbilanciati, hanno sempre paura di cadere e, nonostante i dolori fisici, è come se ricominciassero a camminare, a vivere, proprio come i bimbi». Ma questa volta alla Dante manca un disagio da denunciare, uno stato di oppressione da affrontare. La drammaturgia è evanescente, non genera tensione, non è quello che ci si aspetta dall’artista palermitana che qui intesse una lode dell’amore fin troppo limpido e lineare, quasi sdolcinato.

Coprodotto dal Teatro Biondo di Palermo con l’Emilia Romagna Teatro, il Teatro di Roma, il Centre Dramatique National di Montpellier e altri, lo spettacolo arriva sulle scene del Teatro Gobetti con gli stessi attori, Sabino Civillari e Manuela lo Sicco, che avevano interpretato Ballarini, l’ultimo capitolo della Trilogia degli occhiali (2010), da cui è tratto. I due straordinari interpreti raccontano con gesti minuti e movimenti danzati una vicenda che è uguale a tante altre e per questo tocca di più un pubblico che risponde con lunghi applausi.

Tartufo – Un curioso accidente

Molière, Tartufo, regia di Jean Bellorini

Molière, Tartufo

regia di Jean Bellorini

Torino, Teatro Astra, 24 gennaio 2024

Carlo Goldoni, Un curioso accidente

regia di Gabriele Lavia

Torino, Teatro Carignano, 26 gennaio 2024

La modernità dei classici

Sulle scene torinesi sono contemporaneamente presenti due titoli dei maggiori drammaturghi del XVII secolo francese (Molière) e del XVIII secolo italiano (Goldoni). Un’opportunità per considerare il ruolo dei classici nel teatro contemporaneo e dei problemi della loro messa in scena.

Al teatro Astra Jean Bellorini presenta Tartufo, ossia la versione in italiano di Le Tartuffe ou L’imposteur di Molière, pièce in cinque atti in versi creata il 5 febbraio 1669 al Théâtre du Palais-Royal a Parigi. Originariamente una farsa in tre atti intitolata Le Tartuffe ou L’hypocrite era stata data al Castello di Versailles cinque anni prima, ma su insistenza dell’arcivescovo di Parigi ne erano state vietate le rappresentazioni pubbliche. Riveduta da Molière per renderla meno provocatoria nel soggetto, la nuova versione venne data una volta sola il 5 agosto 1667 al Palais-Royal e nuovamente vietata.

La proibizione della commedia fu certo dettata da considerazioni di politica religiosa, in particolare dalla necessità di non indebolire la Chiesa cattolica in un momento in cui il dissenso giansenista la minacciava di scisma. Tartufo è infatti il falso devoto, ipocrita e manipolatore che cerca di ingannare un uomo, rubargli la fortuna e sedurne la sposa. Quasi ci riuscirebbe perché la vittima, Orgone, è “cieco”, non ne vede i misfatti, anzi li giustifica egli stesso e apre gli occhi solo alla fine di fronte alla dimostrazione più inappellabile. Quanti anche oggi non vedono o vedono quello che vogliono vedere – terrapiattisti, trumpiani… – e negano l’evidenza più lampante per seguire i propri falsi giudizi.

Prodotto dal Teatro di Napoli, dopo il passaggio al Théâtre National Populaire di Villeurbanne di cui Bellorini è il direttore, lo spettacolo approda a Torino per la stagione del Teatro Piemonte Europa intitolata appunto “Cecità” e due sono gli elementi a favore dello spettacolo: la traduzione di Carlo Repetti che, anche se non riproduce fedelmente gli alessandrini di Molière, fornisce però una versione in rime e ritmi che ricreano efficacemente il suono originale; e la recitazione degli attori, massimo fra tutti il Tartufo di Federico Vanni, giocato con un perfido calibratissimo umorismo nero. L’ambientazione scelta dallo stesso regista colloca la vicenda nell’epoca presente in una grande cucina di una casa che la scempiaggine del proprietario rischierebbe di perdere senza l’intervento di un deus ex machina, che dopo essere stato appeso a una grande croce per tutto il tempo, ne discende per salvare la situazione. Le trovate sceniche – il lancio della farina, i momenti truculenti… – sono sempre al limite di una farsa senza però mai valicarlo, mentre il ritmo, le accelerazioni controllate, la velocità e le pause, le nostalgiche canzoni italiane anni ’80 rendono lo spettacolo estremamente godibile. Gli attori – oltre al citato Vanni, Gigio Alberti, Teresa Saponangelo, Betti Pedrazzi, Ruggero Dondi, Daria d’Antonio, Angela de Matteo, Francesco de Nicolais, Luca Iervolino, Giampiero Schiano e Jules Garreau, l’unico francese della compagnia – nei costumi di Macha Makeïeff restituiscono dei personaggi di grande empatia umana che il pubblico della prima ha applaudito con calore.

Non così popolare è il titolo proposto dal Teatro Stabile di Torino, un Goldoni poco conosciuto in Italia ma molto tradotto all’estero. Un curioso accidente è un’opera in tre atti scritta nel 1760 e portata per la prima volta sulle scene a Venezia senza successo. Ambientata in Olanda e basata su un fatto vero, narra del ricco mercante Filiberto che ospita a casa sua Monsieur de la Cotterie, un giovane militare francese ferito in guerra, innamorato, ricambiato, della figlia del mercante, Giannina la quale non volendo rivelare la realtà, gli dice che il francese ama Madamigella Costanza (figlia di Riccardo) e i due non possono sposarsi in quanto il padre della fanciulla non vuole che la figlia si sposi con un uomo considerato non alla loro altezza. L’inganno porta Filiberto a suggerire, per far dispetto all’amico/nemico Riccardo e liberarsi dell’incomodo militare, il rapimento della fanciulla e il matrimonio. Cosa che infatti avviene, ma con la propria figlia…

Gabriele Lavia monta sulle scene del Carignano uno spettacolo di metateatro – nella scenografia di Alessandro Camera un secondo sipario sbilenco, bauli, attrezzi di scena, un camerino… – dove la presenza del pubblico è volutamente esibita: sul palco prendono posto alcuni spettatori e lo spazio dove si muovono gli attori invade i corridoi della platea con il coinvolgimento di chi sta seduto. Il flusso della recitazione non è sempre perfettamente fluido e qualche inciampo viene prontamente corretto con il mestiere, ma quello che viene fuori è uno spettacolo poco convincente con una recitazione o dimessa (i personaggi femminili) oppure sopra le righe (il Monsieur de la Cotterie di Simone Toni) e una certa gigioneria da parte del Monsieur Filiberto di Gabriele Lavia. Anche qui vengono introdotti momenti musicali con canzoncine e l’accompagnamento di due pianoforti, ma senza una particolare esigenza drammaturgica. Lavia tratta con libertà il testo goldoniano, inserisce un prologo ricavato dalle note de “L’autore a chi legge”, aggiunge divagazioni, battute sul secolo dei lumi, gag ripetute («ah, questi francesi!»), anche un Arlecchino per buona misura.

Il pubblico comunque abbocca a questo aspetto un po’ ruffiano dello spettacolo e ne decreta il successo con prolungati applausi.

Carlo Goldoni, Un curioso accidenti, regia di Gabriele Lavia

Diari d’amore

foto © Luigi de Palma

Natalia Ginzburg

Dialogo

Fragola e panna

regia di Nanni Moretti

Torino, Teatro Carignano, 15 ottobre 2023

Debutta in teatro uno splendido settantenne

Al cinema aveva presentato Cario diario, ora Nanni Moretti debutta settantenne in teatro con Diari d’amore, un titolo che unisce due pièce di Natalia Ginzburg Scritta nel 1966, un anno dopo Ti ho sposato per allegria, la prima e più famosa commedia di Natalia Ginzburg, Fragola e panna è la più sfortunata fra le sue commedie, mai allestita in teatro e una volta sola in televisione. Quattro anni più tardi scrive Dialogo, destinato espressamente per il mezzo televisivo. Del 1991, anno della morte, è il decimo e ultimo suo testo per il teatro, Il cormorano.

Nata a Palermo ma cresciuta a Torino, Natalia Ginzburg è stata una figura di primo piano dell’antifascismo e poi del Novecento letterario italiano ma senza mai abbandonare la militanza politica. Nella raccolta di racconti Le piccole virtù (1962) e nel romanzo Lessico famigliare (1963) è contenuta la poetica della scrittrice, tutta votata ai ricordi, alla famiglia, agli amici, alla religione laica delle piccole cose e ai sentimenti delle persone. Vicende private che raccontano trent’anni della storia di una nazione.

Dialogo forma la prima parte dello spettacolo. Qui una coppia, marito e moglie, ancora a letto tardano ad alzarsi per scambiare chiacchiere in cui la donna esprime le insoddisfazioni della sua vita matrimoniale e critica il marito che dimostra la sua vena cinica. È il lavoro prediletto dell’autrice per la quale «è difficile parlarne proprio perché non succede quasi nulla, e tutto è in quello che si dicono i due personaggi, due giovani coniugi, per un’ora da soli in una stanza da letto. La drammaticità della situazione sta nel fatto che qui c’è una donna che vuole dire al suo partner una cosa che non riesce a dire», ossia che lo vuole lasciare.

In Fragola e panna i personaggi sono cinque e tutto ruota intorno a una ragazza che ha lasciato il marito che la maltratta ed è in cerca di una nuova vita. La pièce gioca sulla assenza di un personaggio a turno: due donne, Barbara e Flaminia, per la maggior parte del primo tempo parlano di un uomo assente, Cesare avvocato e marito di Flaminia con una storia con Barbara che sta per finire. Nel secondo atto scompare Barbara e compare Cesare, Flaminia rimane in scena e non si farà che parlare di Barbara fino all’ultima battuta. È una vicenda livida, cruda, piena di disperazione in cui i personaggi si mettono a nudo e il maschio rivela tutta la sua piccolezza.

Formano lo smilzo cast quattro donne (Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli, Daria Deflorian, Giorgia Senesi) e un solo uomo (Valerio Binasco, il direttore artistico dello Stabile) tutti bravissimi, con una recitazione asciutta e basata esclusivamente sulla parola. Moretti ha trasferito al teatro il suo approccio al cinema, prosciugando, togliendo. Anche la scenografia di Sergio Tramonti è quanto di più essenziale ci sia: un letto proteso verso la platea da cui mille volte Francesco, il marito, fa cenno di alzarsi senza mai abbandonarlo, nella prima parte; nella seconda una porta, quasi un sesto protagonista, e un unico divano «che le cose della vita hanno spezzato in due», commenta il regista. Con le luci di Pasquale Mari e i costumi di Silvia Segoloni, Moretti costruisce uno spettacolo che il pubblico torinese dimostra di apprezzare tantissimo. Un insolito e felice debutto di stagione per il Teatro Stabile. Recite fino al 29 ottobre.

La colonia

Pierre de Marivaux, La colonia

regia di Beppe Navello

Torino, Teatro Romano, 3 settembre 2023

Protofemminismo nel secolo dei lumi

“Commedia utopica”, La colonie fu pubblicata sul Mercure de France nel dicembre nel 1750 riadattando una vecchia commedia che non aveva avuto successo: i tre atti de La nouvelle colonie ou la Ligue des Femmes del 1729 diventano un atto unico e questo secondo tentativo è destinato alla lettura “dans une Société”, non sembrando i tempi ancora maturi per declamare parole tanto sovversive sulle tavole di un palcoscenico. Era successo d’altronde a un altro testo di Marivaux ispirato alle idee dell’Illuminismo, L’Isola della Ragione, che dopo il buon esito riscontrato attraverso le letture ad amici e intellettuali non si era però trasformato in un successo teatrale.

«Ah çà, Madame Sorbin, ou plutôt ma compagne, car vous l’êtes, puisque les femmes de votre état viennent de vous revêtir du même pouvoir dont les femmes nobles m’ont revêtue moi-même ; donnons-nous la main, unissons-nous et n’ayons qu’un même esprit toutes les deux». (Oh sì, Signora Sorbin, o meglio mia compagna, perché lo siete, visto che le donne del vostro Stato vi hanno appena rivestito dello stesso potere di cui mi hanno rivestito le nobildonne; diamoci la mano, uniamoci e sia unico lo spirito di tutte e due). Così inizia con la prima battuta che la “femme noble” Arthénice rivolge alla “femme d’artisan” Madame Sorbin. Da qui parte la rivoluzione con cui le donne intendono appropriarsi di quello che fino a quel momento è stato prerogativa dei soli uomini: «Vogliamo essere coinvolte in tutto, esercitare con voi tutti i lavori, quelli della finanza, della magistratura e della spada». Ma, ahimè, le prime crepe nella “lega” delle donne non si devono alla tracotanza del sesso forte, ma si formano proprio all’interno dell’universo femminile e di fronte alla necessità di imbracciare le armi di fronte all’attacco di forze ostili le donne preferiscono cedere il comando ai maschi.

«Tra ventimila anni saremo ancora la notizia del giorno» ripete nel finale Mme Sorbin. «E se non ci riusciremo, ci riusciranno le nostre nipoti» aggiunge Arthénice. Dopo meno di trecento anni noi oggi vediamo che molte delle istanze “utopiche” si sono realizzate, ma ancora molto resta da fare. Anche in questo testo Marivaux si dimostra maestro nello smontare e mettere a nudo la complessa macchina nel mondo degli uomini. «Un precursore dell’analisi dell’anima e, in quanto tale, inevitabilmente contemporaneo» sintetizza efficacemente Beppe Navello.

Ospite un po’ incongruo della rassegna Torino Crocevia di sonorità – che ha presentato concerti jazz, di musica da camera, di percussioni e fiati realizzati con il Conservatorio Statale di Musica “Giuseppe Verdi di Torino” e con formazioni di musicisti del repertori folk e contemporaneo – e in collaborazione con i Musei Reali e l’associazione Teatro Europeo, lo spettacolo che era stato programmato l’anno scorso a Firenze occupa ora quello spazio centralissimo ma molto poco utilizzato dei resti del Teatro Romano compreso tra la Manica Nuova di Palazzo Reale e la Torre Palatina. Lasciato l’intimo saloncino Paolo Poli del Teatro della Pergola, gli spazi aperti sembrano ancora più adatti alla vicenda ambientata in un’isola inospitale su cui si sono rifugiati i personaggi fuggiti alla minaccia di chi ha invaso la loro patria. Prima assoluta in italiano, il testo è stato tradotto da Beppe Navello, qui anche regista, nell’ambito della SEM (Scènes Européennes Marivaux), un progetto internazionale che ha anche avviato la versione nella nostra lingua dell’integrale del teatro di Marivaux. Se ne aveva avuto un assaggio un anno fa con La seconda sorpresa dell’amore vista al milanese Teatro Grassi. Assieme a cinque pièces, tra cui le altre due del “trittico delle isole”, questo testo entra nel terzo dei sette volumi previsti presso l’editore CuePress.

 

Con la stessa compagnia de La seconda sorpresa dell’amore Beppe Navello allestisce questo apologo venato di amarezza con le giuste scenografie e i gustosi costumi di Luigi Perego e le luci di Orso Casprini. Le musiche di Germano Mazzocchetti, rese efficacemente al pianoforte da Alessandto Panatteri, danno un ironico tono da cabaret che però ben si adatta alla parola del drammaturgo francese – «un ricamo linguistico di matematica perfezione» come è stato definito – realizzato nella sciolta dizione dei dieci bravissimi attori guidati con precisione dalla mano sapiente del regista.

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