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Luigi Pirandello, La vita che ti diedi
regia di Stéphane Braunschweig
Torino, Teatro Carignano, 14 aprile 2024
L’illusione necessaria, o il lutto secondo Pirandello
«E… e non s’è nemmeno inginocchiata». Sono le prime parole, qui pronunciate dalla vecchia nutrice Elisabetta, in questa lettura di Stéphane Braunschweig che elimina la scena iniziale con le litanie funebri per la morte del figlio di Donn’Anna Luna, la madre che ne rifiuta la morte perché è ancora vivo nel suo cuore e ne aspetta il ritorno da un momento all’altro.
Breve tragedia in tre atti, La vita che ti diedi è il teatrale percorso d’arrivo iniziato da Pirandello con tre racconti scritti tra il 1914 e il 1916: I pensionati della memoria, in cui si interroga sul rapporto fra i vivi e i morti; Colloqui coi personaggi, scritto subito dopo la morte della madre, è un lungo dialogo con la defunta; ne La camera in attesa, scritto durante la Grande Guerra, la madre e le sorelle di un soldato scomparso continuano a preparargli la camera in attesa del suo ritorno.
Il rifiuto del lutto è dunque alla base del lavoro scritto per Eleonora Duse che però non poté recitarlo e al suo posto ci fu Alda Borelli alla prima del 12 ottobre 1923 al Teatro Quirino di Roma. L’idea di Pirandello è che la morte di un corpo non è nulla rispetto a quella morte lenta che costituisce la vita stessa nelle sue metamorfosi: la progressiva e ineluttabile scomparsa del bambino che eravamo per nostra madre. Ne La vita che ti diedi Donn’Anna dice al parroco don Giorgio: «Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora, è vero? Non mi è morto ora. Io piansi invece, di nascosto, tutte le mie lagrime quando me lo vidi arrivare: – (e per questo ora non ne ho più!) – quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio».
Donn’Anna ha assistito alla morte del proprio figlio e quindi non può prendere a pretesto l’incertezza della sua morte come ne La camera in attesa. La donna non sta negando i fatti: decide del tutto consapevolmente di continuare la sua vita come se il figlio non fosse morto. Si affretta a far rimuovere il corpo senza nemmeno prendersi il tempo di vestirlo e finisce per scrivere in sua vece una lettera all’innamorata a cui nasconde la sua morte quando quest’ultima decide di andarlo a trovare. Donn’Anna trasforma la sua casa in un teatro, dove il protagonista è assente sì, ma fin troppo vivo. «Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! Se l’era vissuta lui, la sua, lontano da me, senza che io ne sapessi più nulla. E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo? Che è morto di lui, che non fosse già morto per me?» è la straziante logica di Donn’Anna.
Teatro e follia sono sempre legati in Pirandello, i suoi personaggi spesso sembrano pazzi, ma la loro è una follia voluta, cercata, che rifiuta una realtà ridotta alla sola verità dei fatti: il figlio Fulvio è per così dire fuggito lontano dalla madre, per cadere innamorato di una donna già sposata e madre a sua volta. Per sette anni Fulvio e Lucia si sono amati platonicamente, poi la passione della carne è prevalsa, seppure per un unico amplesso, e Lucia è rimasta incinta e torna da Fulvio fuggito dalla madre. Ma qui è morto improvvisamente, forse per punirsi, per espiare la sua colpa.
L’allestimento di Stéphane Braunschweig, che vanta una lunga e significativa del teatro di Pirandello, prevede la collaborazione di Lisette Buccellato, che ha disegnato anche i costumi, le preziose luci di Marion Hewtt e i rarefatti suoni di Filippo Conti che solo nella straziante scena finale fa ricorso a una musica più strutturata, il “Lacrimosa” del Requiem di Mozart. Il regista fa svolgere l’azione per lunghi tratti sul proscenio, davanti a un sipario interno nero, nella terra di nessuno fra la vita e la rappresentazione della vita. E quando quel sipario si alza, appare la realtà come si manifesta nei sogni di Donn’Anna: la stanza con il figlio morto composto sul letto immersa in una tenue luce azzurrina, come in un delirio onirico. Ai lati due finestre chiuse, una scrivania, un armadio, due porte. Poi al secondo atto la stessa stanza, senza più il corpo del figlio morto, ha le finestre spalancate ed è letteralmente inondata di fiori in vaso: il figlio, morto nella realtà, “rifiorisce” come immagine. Nell’ultimo atto, dopo i drammatici colloqui con Lucia e la madre, Donn’Anna accetta finalmente la morte del figlio, ne disfà il letto e vi si sdraia. «È ben questa la morte, figlia. ‒ Cose da fare, si voglia o non si voglia ‒ e cose da dire…. ‒ Ora, un orario da consultare ‒ poi, la vettura per la stazione ‒ viaggiare…. ‒ Siamo i poveri morti affaccendati. ‒ Martoriarsi ‒ consolarsi ‒ quietarsi. ‒ È ben questa la morte».
Essenziale come la scenografia è la recitazione degli attori, sotto tono ma intensa, i personaggi, anche quelli minori della vecchia Elisabetta e del giardiniere sono magistralmente connotati dalla voce e dalle movenze. Daria Deflorian è una strepitosa e controllatissima Donn’Anna Luna, Federica Fracassi si divide efficacemente tra Donna Fiorina, la sorella, e Francesca Noretti, la madre della giovane Lucia, qui la brava ed espressiva Cecilia Bertozzi. Fulvio Pepe (don Giorgio e Giovanni il giardiniere), Enrica Origo (Elisabetta), Caterina Tieghi e Federico Costella (i figli Lida e Flavio) completano il bel cast.
In questa regia così essenziale solo due errori. Alla ricerca di un maggior effetto teatrale il regista fa muovere la sedia della scrivania e aprire la porta dell’armadio come per la presenza di un fantasma. Il brivido che procurano fa perdonare la trovata. Meno perdonabile invece è la presenza del figlio morto (che tra l’altro ha le fattezze del fratello Flavio) che “consola” la madre nel finale. Se quella del figlio “non morto” è un’idea della madre, l’idea non può concretizzarsi in una presenza. A parte questo, si è trattato di uno dei migliori spettacoli della stagione.
⸪

























