Auguste Anicet-Bourgeois

Nabucco

foto © Carole Parodi

Giuseppe Verdi, Nabucco

Ginevra, Grand Théâtre, 11 giugno 2023

★★★★☆

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A Ginevra il coro è il protagonista del Nabucco

La stagione del Grand Théâtre de Genève, intitolata “Mondes en migration”, termina con un’opera emblematica in cui le peripezie di un popolo che anela a una patria ne sono il soggetto principale. Il libretto di Temistocle Solera è tratto da un episodio dell’Antico Testamento in cui si narra del re di Babilonia Nabucodonosor che conquista la città di Gerusalemme e rende schiavo il popolo ebreo. Nell’Italia del 1842, anno in cui Verdi presentò la sua terza opera – poco dopo il fiasco di Un giorno di regno –, il clima politico suggeriva una lettura correlata alla contemporaneità di allora: con Milano occupata dagli austriaci, era facile per i milanesi identificarsi col popolo ebreo soggiogato dai babilonesi.

Particolarmente attenti a vietare ogni manifestazione che potesse minimamente suggerire un pensiero rivoluzionario, gli austriaci quella sera del 9 marzo non riuscirono però a impedire il bis di quel coro che lamentava le sorti di una «patria sì bella e perduta» e qualche anno dopo il cognome di Verdi diventava l’acronimo di “Vittorio Emanuele Re D’Italia” e il «W VERDI», che i patrioti vergavano sui muri delle case, assumeva un significato che andava ben oltre l’amore degli italiani per la musica del suo maggiore compositore.

Questa lettura risorgimentale della vicenda biblica è spesso presente nelle più recenti produzioni italiane di Nabucco – come è stato ad esempio per la messa in scena all’Arena di Verona di qualche anno fa in cui il regista Arnaud Bernard ha trasportato la vicenda biblica al 1848, anno del culmine dei moti rivoluzionari in Italia, e invece del Tempio di Salomone o degli orti pensili di Babilonia sul palcoscenico troneggiava un fedele modello del Teatro alla Scala.

È con grande curiosità quindi che si è attesa la produzione della brasiliana Christiane Jatahy del Nabucco ora in scena a Ginevra, quasi certi che non ci sarebbero state istanze risorgimentale nella sua lettura. Così è stato, infatti.

Artista ad ampio spettro di varie espressioni artistiche, Jatahy è autrice, regista e cineasta. Si è interessata soprattutto alla relazione tra cinema e teatro e, sul piano dei contenuti, ai problemi razziali. Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia del 2022, il suo spettacolo Depois do silêncio, presentato poco tempo fa al Piccolo di Milano, ha concluso la sua “Trilogia degli orrori”, orrori che contemplano le meccaniche del fascismo, la mascolinità tossica e il potere politico, il legame tra razzismo e capitalismo.

Con le stessa intensità degli altri suoi spettacoli che hanno fatto scalpore nelle ultime edizioni del Festival d’Avignon, ora Jatahy affronta per la seconda volta la prova della lirica con un approccio originale pur ottenuto con mezzi non inediti per le scene dei teatri d’opera. Ecco infatti due grandi specchi che si muovono obliquamente per riflettere gli attori in scena o il pubblico stesso, una pozza d’acqua in cui far sguazzare i cantanti, gli schermi su cui si proiettano le immagini riprese da due steadycam, i video che complementano le già ricche immagini reali, i coristi sparsi in platea. Nonostante si siano già visti tante altre volte, qui questi mezzi espressivi acquistano però una loro convincente, quasi inedita efficacia, come l’enorme specchio che si trasforma in uno schermo per aumentare il numero dei personaggi in scena facendo così del coro il vero assoluto protagonista. Non è poi una novità, ma ha comunque un suo impatto emotivo, il coro in platea. E allora ci si scopre vicini di poltrona di un soprano che si alza e intona «Gran nume, che voli sull’ale dei venti» oppure quando alla fine riecheggia attorno agli spettatori, in platea e nelle gallerie, il coro «Va’ pensiero» intonato a cappella come finale dell’opera! Finale? Su questo ritorneremo.

Per la sua proposta concettuale la regista organizza uno spettacolo che nel suo apparente minimalismo dimostra una grande complessità e lo dimostra la schiera di persone che vi sono state impiegate: oltre alla drammaturgia di Clara Pons, di casa qui al GTG, alle scene di Thomas Walgrave e Marcela Lipiani, ai costumi di An D’Huys e alle luci ancora di Thomas Walgrave, sono state necessarie le presenze di specialisti per il coordinamento audiovisivo, per lo sviluppo dei sistemi video e della creazione sonora e infine di un direttore della fotografia. Il risultato è una sequenza di immagini di grande impatto: una per tutte quella dell’enorme “mantello” inzuppato d’acqua che sostituisce la corona, il simbolo del potere, con cui si avvolge Abigaille, vestita altrimenti in un tailleur azzurro, quello di molte donne di potere di oggi. La presenza del numeroso coro e di un altrettanto folto numero di comparse riempie il palcoscenico di pieni e di vuoti in cui le vicende personali vengono schiacciate dalle vicende politiche che non lasciano posto all’amore di Fenena e Ismaele: «La storia che stiamo raccontando non si concentra solo su Nabucco come personaggio, ma molto più su una riflessione della conquista di un popolo da parte di un altro e sulla ripetizione storica di questa forma di supremazia. La scrittura del potere, la sua iscrizione nel mondo, non è cambiata e la sua trascrizione – la sua ritrascrizione nel caso di Abigaille – si basa su un’energia di potere che si potrebbe dire maschile, di conquista. Per noi, quindi, questo spettacolo non riguarda solo le persone che comandano, ma anche l’equilibrio tra queste persone e la collettività. Qui, questo grande gruppo di persone si chiama coro, ma non è un’entità unica: è una pluralità di individualità che, sebbene spesso ridotte a essere la stessa cosa, creano dei collettivi. Alla fine, naturalmente, si tratta di tutti noi», dice la regista. E infatti il coro non è monolitico: durante la perorazione di Zaccaria «Oh, chi piange?» alcuni se ne vanno sconfortati, non credono alla sua profezia e il grande specchio che riflette le immagini di noi spettatori induce a farci riflettere ancora più sui temi della nostra contemporaneità.

Questa lettura a-trionfalistica della regista trova una sponda perfetta nella direzione di Antonino Fogliani a capo dell’Orchestra della Suisse Romande. Fin dalle prime note della sinfonia si delinea il tono intimo e sommesso che dominerà la serata. Il grande specchio rimanda l’immagine dell’ampio gesto del direttore messinese, dove le braccia hanno un ruolo ben distinto, con il contributo essenziale della sinistra a definire il volume sonoro e il colore di una partitura che nella sua acerbità fa già intravedere il genio che verrà. La concertazione di Fogliani è sempre attentissima all’equilibrio con le voci in scena così da permettere a Nicola Alaimo di delineare al meglio il personaggio eponimo, che qui assume la grandezza di un Re Lear scespiriano, passando dalla arroganza del potere alla follia, che però lo salva. E come nel miglior Shakespeare, la parola si fa suono e il fraseggio diventa un discorso di grande incisività. Una prova magistrale quella di Alaimo, alla quale il pubblico teatro ha tributato meritate ovazioni.

Non altrettanto potente come proiezione della voce, Riccardo Zanellato è riuscito ugualmente a definire un autorevole Zaccaria per la sensibilità e intelligenza con cui ha saputo utilizzare al meglio il suo strumento vocale in favore di un’efficace espressività. Di proiezione vocale non fa certo difetto l’Abigaille di Saioa Hernández, ma qui ancora più che in passato la cantante spagnola ha saputo gestire la potenza sonora e la particolarità del suo timbro per definire un personaggio a cui ha dato grande presenza in tutte le sue apparizioni. L’Ismaele di Davide Giusti ha avuto momenti di rudezza vocale che col tempo sicuramente si risolveranno mentre ottima prova hanno fornito i quattro membri del Jeune Ensemble del teatro: Omar Mancini (Abdallo), Giulia Bolcato (Anna), William Meinert (Gran Sacerdote) e soprattutto Ena Pongrac, una Fenena di temperamento, sicura presenza scenica, timbro personale e già evidente padronanza tecnica.

E infine il coro, il vero personaggio di Nabucco, qui in una prova tra le più impegnative anche per le particolari richieste registiche, ma sotto la guida di Alan Woodbridge la compagine ha dimostrato grande compattezza e precisione. Al coro è poi affidata l’ultima parola in questa versione: non c’è stato il bis del «Va’ pensiero» nella terza parte, “La profezia”, ma il celebre coro si ascolta una seconda volta dopo un intermezzo sinfonico scritto dallo stesso Fogliani che si collega alle parole di Abigaille morente. Sappiamo che Verdi voleva terminare l’opera sul coro «Immenso Jehova», ma Giuseppina Strepponi, la prima interprete di Abigaille, si era rifiutata di morire fuori scena e voleva avere lei l’ultima parola. A questa richiesta della prima donna, e sua futura moglie, il compositore non aveva potuto far altro che accondiscendere scrivendo un finale, originariamente non previsto, con la conversione della donna. Al Grand Théâtre di Ginevra un finale alternativo è messo in atto dalla regista e dal direttore: sulle note che accompagnano le ultime parole che si spengono sulla bocca di Abigaille «te chiamo… o dio… te venero!… | non ma… le… di… re a me!…» nasce una pagina che utilizza il linguaggio della musica moderna – ricorda vagamente nello stile il finale di Berio per Turandot – che traghetta lo spettatore verso il coro a cappella dei coristi sparsi tra il pubblico mentre intonano appunto una seconda volta il lamento degli «ebrei incatenati e costretti al lavoro» sulle sponde dell’Eufrate.

Chissà come avrebbe reagito il pubblico di Milano o di Parma dove quel coro è un secondo inno nazionale e Verdi è per molti “intoccabile”. Qui sul Lago Lemano l’emozione è intensa e l’entusiasmo incontenibile. Verdi stesso ne sarebbe stato contento, forse.

 

Nabucco

Giuseppe Verdi, Nabucco

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 1 febbraio 2013

(registrazione video)

Nabucco, da dramma sacro a dramma attuale

Nel 2013 ricorre il bicentenario della nascita dei due maggiori compositori dell’Ottocento, Giuseppe Verdi e Richard Wagner. Al primo il Teatro alla Scala dedica un’opera giovanile quale il Nabucco, che così viene presentato da Philip Gossett: «Nel 1842 Verdi aveva ventinove anni, un’età nella quale Rossini, Donizetti e Bellini avevano già conquistato enorme reputazione (Rossini aveva scritto Il barbiere di Siviglia a ventiquattro anni). Verdi proveniva dalle Roncole, un piccolo borgo nei dintorni di una piccola città come Busseto, vicino a Parma. Il suo apprendistato musicale fu adeguato, ma certamente non eccezionale: Antonio Barezzi, un benestante protettore locale del quale avrebbe sposato la figlia, lo aiutò a intraprendere ulteriori studi a Milano, ma il musicista era troppo in là con gli anni e un pianista non sufficientemente abile per venire ammesso al conservatorio. Lezioni private e la regolare frequentazione dei teatri milanesi gli consentirono comunque di sviluppare le proprie capacità compositive e di conoscere la coeva opera italiana, tuttavia, ciò che poteva realisticamente aspettarsi era una carriera locale come maestro nelle istituzioni musicali bussetane. La forza di volontà, unita a conoscenze nell’alta società di Milano e alle necessità dell’impresario Bartolomeo Merelli, gli fornirono l’opportunità di comporre un’opera seria per il Teatro alla Scala. Nel 1839 Oberto debuttò con discreto successo. Nel frattempo, fra l’agosto 1838 e il giugno 1840, Verdi perse la moglie e due figli, restando solo ad affrontare il fiasco della sua seconda opera, il melodramma giocoso Un giorno di regno, nel settembre 1840. […] Molte leggende sono sorte intorno al successivo anno e mezzo della biografia verdiana: la volontà di abbandonare il mestiere di compositore, i misteriosi legami fra il musicista e l’impresario della Scala, il crescente affetto e la stima fra Verdi e la primadonna Giuseppina Strepponi, creatrice del ruolo di Abigaille nel primo ciclo di recite del Nabucco e destinata a rimanere al fianco del maestro per più di cinquant’anni. E poi c’è il libretto di Temistocle Solera, infilato nel cappotto di Verdi, gettato senza cura sul tavolo della cucina e aperto casualmente sulle parole “Va pensiero sull’ale dorate”. Purtroppo manca documentazione esaustiva su questa fase della vita del compositore e solo questa abbondanza di aneddoti riempie la lacuna. L’unica certezza è che Verdi musicò il Nabucco di Solera, rappresentato la prima volta alla Scala il 9 marzo 1842, opera che segnò il conseguimento della maturità creativa, primo trionfo di una vita dedicata al teatro che sarebbe proseguita fino agli anni Novanta. […] Non possiamo cancellare più di centocinquant’anni di storia quando ascoltiamo Nabucco, tuttavia è importante immaginare cosa l’opera dovesse significare per Verdi e il suo pubblico al tempo della prima rappresentazione. Compiere tale sforzo ci aiuta a percepire Nabucco non come precursore delle glorie di là da venire, non come un titolo del ‘primo Verdi’, ma come frutto rimarchevole di un compositore in fase di maturazione che presenta forti legami con le generazioni precedenti, così come una crescente confidenza con la forza della sua voce artistica».

Prodotto con la ROH di Londra, la Lyric Opera di Chicago e il Liceu di Barcellona, lo spettacolo di Daniele Abbado, non essendo in costume, è subito definito «discusso allestimento» e si attira qualche dissenso dalle solite care salme della platea e dalle vestali del loggione. L’opera qui aveva visto il suo debutto proprio in questo teatro e forse quelli che hanno fischiato l’avrebbero voluta vedere con la cartapesta finto-assira, le palandrane e i torreggianti copricapi. «Eliminate completamente sia l’assireria da rigattiere sia l’archeologia da British Museum, per parlare della Memoria, legandola a filo doppio col fanatismo che troppo spesso essa ingenera: quel fanatismo che conduce a follia collettiva e individuale. La scenografa Alison Chitty presenta, su una vasta distesa di sabbia bianca, una serie di monoliti grigi a varie altezze che rievocano il Memoriale della Shoah realizzato da Peter Eisenman nel cuore di Berlino, là dove una volta sorgeva il palazzo di Goebbels: 2700 stele di calcestruzzo grigio che definiscono un percorso claustrofobico e alienante, geniale traduzione materica della perdita della ragione. Un non luogo fatto di sabbia e di massi, con proiezioni sul fondo che riprendono le stesse immagini viste dall’alto e via via disgregantesi: le vicende dei singoli dissolte nella memo-ria d’un popolo che ha in sé secoli di guerra, d’esilio, di “soluzioni finali”. Gesti essenziali, abiti moderni, racconto semplice e diretto non tanto di fatti quanto di sensazioni multiple stratificate in una sorta d’immaginario collettivo». (Elvio Giudici)

Leo Nucci dispensa il suo accento e la sua intensa recitazione, ma la voce dà segni di stanchezza. Certo, così aderisce più fedelmente all’idea registica di un re stanco, invecchiato, sovrastato dalla figlia Abigaille, ma il timbro e l’emissione sono solo un ricordo del baritono che è stato. Il pubblico non manca comunque di tributargli caldi applausi al merito di una grande carriera. Senza imperfezioni invece la performance di Liudmyla Monastyrska, una regale Abigaille dalla voce estesa ma capace di intense mezze voci. Efficace ma un po’ deficitario nel registro basso lo Zaccaria di Vitalij Kowaljow, grezzo l’Ismaele di Aleksandrs Antonenko, sensibile la Fenena di Veronica Simeoni.

Senza particolari pregi la direzione di Nicola Luisotti con sonorità talora troppo accese e tempi non sempre attenti ai cantanti in scena. Il coro istruito da Bruno Casoni ha il suo momento di gloria nel «Va’ pensiero» col suo colore uniforme illuminato da sprazzi di speranza. Raggruppato nel vuoto del palcoscenico sulla sabbia di un deserto metaforico, è un gregge smarrito che solo alla fine nel coro a cappella «Immenso Jehovah» esprime la gioia per la ritrovata libertà.

Nabucco

Foto Edoardo Piva © Teatro Regio Torino

Giuseppe Verdi, Nabucco

Torino, Teatro Regio, 12 febbraio 2020

★★★☆☆

Teatro Regio: va’, pensiero

Le tribolazioni del popolo ebraico sotto lo spietato Nabucodonosor richiamano quelle del teatro torinese nelle mani di una politica altrettanto spietata nei suoi confronti: i tagli ai finanziamenti del passato, quelli solo promessi per il presente e imprevedibili per il futuro sono conseguenza di un colpevole disinteresse per il teatro, sia a livello locale che nazionale, che ha portato il Regio di Torino ad una situazione di incertezza che il sovrintendente Sebastian Schwarz sta cercando di risolvere con teutonica caparbietà e genuino entusiasmo.

Tutto si dimentica però quando in scena va un titolo tra i più popolari di Verdi, ma non rappresentato sovente. Grande era quindi l’attesa e prevedibile il quasi esaurito delle repliche. Chissà però se il pubblico apprezzerà questa produzione: ieri alla prima gli applausi sono stati da minimo sindacale e il «Va,’ pensiero» non è stato bissato.

Il Nabucco messo in programma dalla gestione precedente e coprodotto con il Teatro Massimo – sarà infatti a Palermo il mese prossimo con otto repliche, due in meno di quelle torinesi – sconta la defezione di una delle voci previste. Per contro, la presenza di Donato Renzetti sul podio è stato l’elemento più apprezzato: una direzione senza sbavature né cedimenti di gusto, con gli strumenti sempre messi a fuoco e una concertazione con i cantanti che, a parte un piccolo ritardo negli attacchi del finale secondo, si è dimostrata adeguata. Se non smaglianti, le tinte sono sempre state intense e ben definite, i tempi mai esageratamente incalzanti. Anche il coro, qui rimpolpato di una decina di elementi (ma era proprio necessario?), sotto la sapiente cura di Andrea Secchi si è dimostrato all’altezza nei tre grandi momenti corali di questo giovanile lavoro in cui Verdi già dimostra la sua genialità. Se dopo il Nabucco si fosse fermato al Macbeth, sarebbe stato comunque un grandissimo compositore.

Tre diverse voci si alternano nella parte titolare. Quella della prima recita era affidata a Giovanni Meoni, baritono dalla voce relativamente chiara, di buona proiezione ma senza molto carattere. D’accordo che i confronti sono sempre antipatici, ma quando uno ha ancora nelle orecchie il Nabucco di Amartuvshin Enkhbat non solo per la potenza sonora, ma soprattutto per la parola scolpita e la presenza scenica…

Dalla stessa produzione – quella di quattro mesi fa a Parma, per intenderci – doveva arrivare la Abigaille di Saioa Hernández sostituita qui da Csilla Boross, soprano ungherese di voce un tantino aspra, efficace nelle agilità, ma dalla dizione impastata. Timbro abbastanza simile è quella di Enkelejda Shkoza, Fenena appassionata, ma una voce più lirica qui sarebbe stata maggiormente apprezzata. Corretto lo Zaccaria di Riccardo Zanellato, anche se ci si sarebbe aspettato un timbro più corposo (a Parma c’era Michele Pertusi…). Adeguato alle aspettative invece l’Ismaele di Stefan Pop, voce luminosa e allo stesso tempo sostanziosa. Imponente per l’altezza, meno per la presenza vocale, il Gran Sacerdote di Romano dal Zovo.

Sia nella sua presentazione al pubblico sia nel programma di sala, Antonio Rostagno ha discusso sul significato dell’opera e sul suo frainteso ruolo di manifesto risorgimentale. È ovvio che nel marzo 1842 quando il Nabucco andò in scena alla Scala «Verdi non poteva essere interessato a concetti come patriottismo, unità nazionale, eguaglianza, rivoluzione democratica, che solo più tardi sono divenuti cardini della sintassi risorgimentale», ma il fatto è che in seguito fu costruita una mitografia su questo titolo in cui la cattività babilonese degli ebrei assurgeva a simbolo degli oppressi di tutti i tempi e su ciò si è costruita, nei quasi centottanta anni successivi, la fama del Nabucco, cosa da cui è difficile prescindere. All’Arena di Verona nell’agosto del 2017 Arnaud Bernard l’ha rappresentato come un colossal risorgimentale con gli Asburgo al posto degli Assiri, grande sfoggio di tricolori, cannoni e cariche di cavalleria e il modello del teatro scaligero quale edificio simbolo dell’insurrezione popolare. Tutto storicamente incongruo, teatralmente efficacissimo però.

Al suo debutto torinese il regista Andrea Cigni rifugge da questa e da altre interpretazioni. La sua messa in scena è di quelle che si definirebbero tradizionali – l’ambientazione e i costumi si ispirano per lo meno vagamente all’epoca storica – e con la sua numerosa squadra (ben otto persone salgono sul palcoscenico per i saluti finali) allestisce uno spettacolo che non si può però dire memorabile. Non certo perché fa a meno di un Konzept à la page – l’idea che si tratti di un dramma borghese in cui la fanno da padrone le «dinamiche […] tra “padre e figlie”, tra “amante e amato/a”, tra “sorellastre in conflitto”, che si inseriscono in un discorso più ampio sul significato di potere» è pienamente condivisibile – ma perché la realizzazione rimane debole e manca di teatralità. Il coro, in un’opera così “corale”, è una massa inerte da schierare al proscenio come per un’esecuzione oratoriale o far goffamente marciare inciampando negli strascichi; il conflitto tra le sorellastre ad un certo momento sembra degenerare in una lite tra comari; quello tra soldati e oppressi ridicolmente infantile (io spingo te, tu spingi me); i movimenti dei personaggi senza una vera necessità drammatica e l’attenzione attoriale sui protagonisti minima o caduta nel vuoto.

I contrasti fra le due culture sono affidati ai costumi di Tommaso Lagattolla, con l’oro predominante per gli assiri e il bianco (troppo elegante, troppo pulito) degli ebrei, e al simbolo dei libri che ingombrano la scena, vengono bruciati e poi, miracolosamente, piovono con le loro pagine nel finale per la “lettura” della preghiera/profezia: «Sì, fia rotta l’indegna catena, | già si scuote di Giuda il valor!», anche questa recitata in forma oratoriale. Le astratte scenografie di Dario Gessati, materiche e illuminate sapientemente dal gioco luci di Fiammetta Baldiserri, formano i vari solenni ambienti con efficacia. Nel finale sono belli i fasci luminosi che perforano le lettere dell’alfabeto ebraico traforate nella parete di fondo mentre in “Gerusalemme” era ben riuscita l’entrata di Nabucco su un masso trattenuto vanamente da Zaccaria. Appena soddisfacente invece la scena finale de “L’empio” quando Nabucco è percosso dal fulmine: un lampo e un po’ di fumo che escono da una griglia del pavimento.

Nabucco

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Giuseppe Verdi, Nabucco

Parma, Teatro Regio, 29 settembre 2019

★★★★★

Il Nabucco a Parma! Di Ricci/Forte!

Uno dei meriti maggiori del Festival Verdi di Parma è di presentare una scelta di spettacoli in allestimenti tradizionali e altri in allestimenti attuali. Appartiene al primo caso la ripresa della storica Aida che Zeffirelli aveva adattato agli esigui spazi del teatro di Busseto; al secondo il Nabucco di Ricci/Forte andato in scena al Teatro Regio, ultimo titolo dei quattro in programmazione. Ma, come aveva detto in mattinata Alberto Mattioli sotto la tenda del Verdi Circus assieme al direttore e ai due registi, non dovrebbe neppure esserci questa distinzione: il teatro è sempre contemporaneo e va fatto con  mezzi contemporanei per il pubblico contemporaneo. Certo che scegliere proprio questo titolo per far debuttare a Parma la coppia di registi più discussi al momento in Italia è stata considerata una sfida per alcuni loggionisti che hanno risposto rumorosamente alla proposta, ma sono stati coperti dagli applausi della grande maggioranza del pubblico presente.

Dopo la Turandot di Macerata di due anni fa e il dittico Die glückische Hand / Il castello del duca Barbablù a Palermo, questo è il terzo approccio all’opera lirica del duo di artisti visivi e il loro spettacolo è il più atteso. Ovviamente, la vicenda biblica per loro è una opportunità per parlare del presente: il presente del 1842 per Verdi,  il nostro presente per noi. A torto o a ragione il Nabucco è stato letto in chiave risorgimentale ancora poco tempo fa mentre altre letture hanno messo al centro il destino degli ebrei vittime della Shoah, altre ancora quello dei palestinesi vittime degli ebrei di oggi…

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Stefano Ricci e Gianni Forte dichiarano di aver voluto ambientare il loro spettacolo nel futuro prossimo, in particolare nell’anno 2046, anche se i costumi e le scenografie propendono per il 1946: il passato peggiore, con i suoi autoritarismi, ci aspetta dopodomani, se non ci diamo da fare oggi per cambiarlo.

Il ferrigno sipario si apre dunque sull’interno di una nave, ma potrebbe essere anche un’astronave che rastrella civili per assoggettarli o magari trasferirli su un pianeta inospitale. Unico accenno alla modernità sono gli scooter elettrici su cui scivolano silenziose le guardie dal volto semicoperto, disumanizzato. Uno schermo dall’alto trasmette l’immagine impassibile della faccia del dittatore come in un “video portrait” di Robert Wilson in cui nel tempo si notano solo impercettibili movimenti. Il popolo che entra nel “tempio” è formato da gente come noi, chi con pellicce chi in abiti più dimessi, a cui viene tolto il giubbotto salvagente arancione e incollato un numero con cui venire registrato in una foto segnaletica. La claustrofobia dell’ambiente si ritroverà anche nelle altre scene: il cielo e la natura sono completamente assenti su questo vascello che trasporta una triste umanità. Anche la reggia di Nabucco è rinchiusa all’interno e degli «orti pensili» c’è solo un albero di Natale, simbolo della nostra superficiale religiosità, attorno al quale si muove una Abigaille ora regina (e il suo viso ha sostituito quello di Nabucco sull’onnipresente schermo) che assomiglia a Eva Perón, indaffarata a distribuire regali e onorificenze al popolo per farsi riprendere da una sempre presente televisione. Il culto dell’immagine è parallelo alla cancellazione della cultura e del passato: nella pausa tra la prima parte (“Gerusalemme”) e la seconda (“L’empio”) davanti al sipario macchine trita documenti vengono messe in azione per distruggere pagine di libri. Altri libri saranno nelle mani dei giovani performer per poi diventare colombe che cercano di prendere il volo e la libertà – da Fahrenheit 451 al finale con l’aquila ferita di Da una casa di morti questi sono solo alcuni dei rimandi visivi di cui abbonda la visione di Ricci/Forte. Come l’altro “interludio” tra la terza parte (“La profezia”) e la quarta (“L’idolo infranto”): una corda azzurra rappresenta la superficie del mare in cui annegano dei giovani. Qui i giubbotti salvagente non ci sono.

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«Oh chi piange?» chiede Zaccaria dopo il coro. E sembra additare tutto il pubblico che, commosso, ha cantato fra sé le parole di «Va’, pensiero, sull’ale dorate». In scena non c’è il coro del teatro, ci siamo tutti noi e le parole che cantano all’unisono soprani contralti tenori bassi sono quelle che cantiamo noi, bianchi neri alti bassi. L’umanità intera si scopre in questo momento dolente che viene bissato a furor di popolo da un pubblico finalmente unanime. Fino a quel momento il maestro Francesco Ivan Ciampa aveva tenuto l’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini sotto pressione con ritmi incalzanti e colori brillanti, ma qui le acque dell’Eufrate scorrono lente e dolorose come le lacrime degli oppressi. Ma non è questo il solo momento di commozione di una resa musicale che spesso tocca le corde del cuore con le finezze strumentali che il giovane compositore inseriva nella sua prima vera partitura – con Nabucco nasceva il Verdi che poi è diventato tale.

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Nonostante il clima da bagarre della serata, il direttore avellinese ha mantenuto la calma e con mano ferma ha concertato magistralmente interpreti di livello tale da tacitare definitivamente anche chi era dubbioso sullo spettacolo, facendolo terminare tra le ovazioni. Già si conosceva l’immane forza sonora di Amartuvshin Enkhbat, ma qui col suo Nabucco dimostra non solo una linea di canto continua e piena, nota dopo nota, ma anche di essersi appropriato della parola, lui che viene dalla lontana Mongolia. Le fattezze da orientale aggiungono poi un quid inquietante in più alla figura del despota orientale. Gli fa da controcanto con eguale forza e sicurezza vocale Saioa Hernández che rende impavida la spericolata parte di Abigaille, «umil schiava» assurta al trono. Col suo timbro d’acciaio sa però assumere toni patetici alla fine quando muore impiccata nell’alias della ragazza ebrea. Terzo vertice del triangolo di eccellenza vocale di questo spettacolo è lo Zaccaria di Michele Pertusi, forse il personaggio più aiutato dalla regia, ma non ce ne sarebbe stato neanche bisogno vista la presenza scenica e la vocalità, se non intatta comunque sempre ragguardevole, del basso di Parma. Ad un altro livello si pongono la soddisfacente Fenena di Annalisa Stroppa e il meno convincente Ismaele di Ivan Magrì, dalla linea di canto discontinua. Assieme al festeggiatissimo coro, tutti hanno ricevuto la meritata dose di applausi.

Qualche dissenso per i registi era scontato, ma possiamo dire con sicurezza che uno spettacolo come questo dieci o quindici anni fa non sarebbe stato possibile vederlo a Parma. Ottimo segno dei tempi.

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foto © Roberto Ricci

Nabucco

Nabucco, bozzetto di Alessandro Camera – © Fondazione Arena di Verona.

Giuseppe Verdi, Nabucco

★★★★☆

Verona, Arena, 26 agosto 2017

(video streaming)

Nabucco, colossal risorgimentale

Regolarmente rappresentato all’Arena di Verona fin dal 1938, quest’anno Nabucco inaugura la stagione e viene per la prima volta ambientato in un’altra epoca. In scena ci sono gli As… no, non gli Assiri, bensì gli Asburgici: il regista Arnaud Bernard sceglie infatti il 1848, anno di moti rivoluzionari in Italia come in Europa, e posticipa di sei anni il debutto della fortunata opera verdiana al Teatro alla Scala. Nella scenografia di Alessandro Camera troneggia un fedele modello dell’esterno dell’edificio del Piermarini nel momento dei moti delle Cinque Giornate di Milano. Spari ed esplosioni contrappuntano l’ouverture mentre la scena si riempie di civili feriti sulle barricate. Entrano soldati a cavallo e una carrozza e le note prendono subito il colore risorgimentale che noi tutti gli abbiamo attribuito, a dispetto della vicenda biblica.

Non è l’unica volta che Verdi utilizza vicende storiche del passato per parlare dell’Italia del suo presente: il re degli Unni del 453 A.D. (Attila), le Crociate del 1095 (I lombardi alla Prima Crociata), la Lega Lombarda contro il Barbarossa del 1176 (La battaglia di Legnano) o le insurrezioni in Sicilia contro i francesi del 1282 (I vespri Siciliani) saranno sempre pretesti per esaltare il suo paese. «Che sia morte allo stranier» è un verso che andrà bene in molte occasioni.

Qui una cattolicissima processione prende il posto delle preghiere degli ebrei, Zaccaria è uno dei capi dei patrioti con fazzoletto tricolore al collo, Abigaille una principessa austroungarica e Nabucco ha le fattezze dell’imperatore austriaco Franz Joseph, che invece che a cavallo arriva in carrozza per poi affacciarsi alla terrazza del teatro. Ovviamente così si perde il fatto sacrilego del suo ingresso a cavallo nel tempio.

Nel secondo atto l’edificio ruota su sé stesso e diventa il foyer del teatro, ora sede del potere, in cui si consumano le smanie di Abigaille e poi si ritorna sulla piazza per la caduta di Nabucco, qui non colpito dal fulmine divino bensì dalla pallottola di un attentatore.

Quando nel terzo atto il modellino ruota ancora una volta svela l’interno del Teatro alla Scala stesso, pieno di pubblico per la rappresentazione proprio di Nabucco: in platea gli austriaci, nei palchi i borghesi, in loggione i popolani – indubbio omaggio del regista francese alla prima scena del film di Visconti Senso anche se là era Il trovatore alla Fenice. Il «Va’ pensiero» è cantato sia dal coro degli ebrei in scena sia dagli spettatori nei palchi tra il nervosismo degli austriaci, un momento di grande efficacia teatrale con il “pubblico” che richiede il bis. Incongruo il “Viva V.E.R.D.I.” srotolato dal loggione: Vittorio Emanuele sarà Re d’Italia solo nel 1861, nel ’48 c’era ancora Carlo Alberto. Per non parlare della Croce Rossa che arriverà a fine secolo. Ancora più ingenua la conversione di Nabucco/Ceco Beppe alla causa dei patrioti oltre alla fede cristiana, ma tricolori garrenti e lancio di volantini risolvono con soddisfazione del pubblico vero il finale in cui i personaggi assumono i costumi dei ruoli storici e diventano all’improvviso tutti buoni.

Le idee registiche funzionano dunque, e la musica scritta da Verdi sembra del tutto consona a quel che vediano in scena, certo molto di più dell’ambientazione assiro-babilonese. Lo specifico dell’Arena qui va incontro a un pubblico vasto e che apprezza la “leggibilità” dell’opera e la colossalizzazione cinematografica della messa in scena. Se serve a riempire le gradinate e a far uscire la fondazione dai debiti, ben venga.

Sul piano musicale si può contare sul mestiere di Daniel Oren, come sempre a suo agio nei grandi spazi. Nelle numerose repliche si sono succeduti vari cast. Questo è quello della recita registrata il 26 agosto: George Ganidze (Nabucco), Rubens Pelizzari (Ismaele), Rafal Siwek (Zaccaria), Susanna Branchini (Abigaille) e Nino Surguladze (Fenena). Nessuna eccellenza, ma neanche nessuna particolare falla.

Nabucco

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★★★★☆

Il primo successo di Verdi

Nel 2012 in preparazione al bicentenario dalla nascita del maestro di Busseto la Unitel Classica e il teatro Regio di Parma mettono insieme il progetto “Tutto Verdi” comprendente la serie completa delle sue 26 opere. Al numero 3 c’è il Nabucodonosor (a partire dal 1844 semplicemente Nabucco), la prima grande opera dopo gli “esperimenti” di Oberto e di Un giorno di regno.

Debuttato il 9 marzo 1842 alla Scala con la Giuseppina Strepponi nella temibile parte di Abigaille, il dramma lirico in 4 parti su libretto di Temistocle Solera si rivelò un successo fin dalle prove: «il carattere dello spartito era talmente nuovo, talmente sconosciuto, lo stile così rapido, così insolito che lo stupore era generale e che cantanti, cori, orchestra, all’udire questa musica, mostravano un entusiasmo straordinario» (Arthur Pougin, riportato in Verdi di Massimo Mila).

Atto I – Gerusalemme, Nel tempio di Salomone, Ebrei e Leviti invitano le vergini ebree a pregare per la salvezza di Israele, poiché Nabucco, il re d’Assiria, li ha invasi. Entra Zaccaria, profeta ebraico, dicendo che Dio ha tratto in suo potere Fenena, figlia di Nabucco: lei forse potrà far ritornare la pace; invita perciò gli Ebrei a confidare nel loro dio. Improvvisamente si sentono urla: giunge quindi Ismaele, nipote di Sedecia re di Gerusalemme, per annunciare che Nabucco si sta avvicinando furibondo. Zaccaria affida Fenena a Ismaele, predicendo rovina al dio di Belo. Rimasti soli Ismaele e Fenena, ricordano quando, nelle vesti di ambasciatore di Giuda, Ismaele andò in Babilonia e fu imprigionato. Fu Fenena a salvarlo sia dalla prigione sia dall’amore furente della di lei sorella, Abigaille. Fenena gli rammenta la sua attuale condizione di schiava, e Ismaele, follemenente innamorato, le giura che le renderà la libertà. Mentre sta per aprire una porta segreta da cui fuggire, entra Abigaille, schiava creduta figlia primogenita di Nabucco, seguita da alcuni guerrieri babilonesi travestiti da Ebrei. Sorpresi i due amanti, ella accusa Ismaele di tradire la patria per una donna babilonese e grida vendetta, confessando di averlo amato e di avergli offerto anche il regno di Babilonia; sentendosi schernita, ha mutato ora il suo amore in odio, ma si dichiara pronta a salvarlo se Ismaele cambierà partito. Gli Ebrei sono in preghiera nel tempio, quando giunge la notizia che Nabucco a cavallo si sta avvicinando. S’avanza anche Abigaille, inneggiando a Nabucco: è lei che ha aperto il passo ai guerrieri babilonesi, che ora fanno irruzione nel tempio. Segue anche Nabucco, che viene affrontato da Zaccaria; questi minaccia di uccidere Fenena, che tiene in pugno, se Nabucco osasse profanare il tempio. Mentre Zaccaria sta per vibrare il colpo su Fenena, Ismaele ferma il pugnale; la fanciulla corre fra le braccia di Nabucco, che annuncia tremenda vendetta.
Atto II – L’empio. Abigaille ha in mano uno scritto, sottratto a Nabucco, nel quale scopre le sue origini servili. Per questa ragione Nabucco destina il trono alla figlia minore, Fenena, mentre Abigaille è tenuta in schiavitù. Questa sua condizione la rende furente contro tutti, al punto da minacciare di morte Fenena, il finto padre Nabucco e il regno. Il gran sacerdote di Belo avverte Abigaille che Fenena sta liberando gli Ebrei, per cui il popolo assiro acclama regina Abigaille. Nella reggia Ismaele incontra i Leviti che gli intimano di fuggire, maledicendolo perché ha tradito il suo popolo. Sopraggiunge Anna, che dice di aver pietà di Ismaele: ha salvato un’ebrea, Fenena, che si è infatti convertita al dio di Israele. Entra Abdallo dicendo che è stata annunciata la morte di Nabucco e che Abigaille è invocata regina.  Abigaille intima a Fenena di renderle la corona; ma entra Nabucco e, strappata la corona dalle mani di Abigaille, la sfida a prenderla dal suo capo. Nabucco ripudia il dio di Babilonia, che ha reso i babilonesi traditori, e quello degli Ebrei, che li ha posti in suo potere e, in un impeto d’orgoglio, dichiara sé stesso dio. A questa affermazione viene colpito da un fulmine e Nabucco sembra avere sul volto le tracce della follia: sconvolto, cade, invocando l’aiuto di Fenena, mentre Abigaille raccoglie la corona.
Atto III – La profezia. Negli orti pensili di Babilonia Abigaille è sul trono. Il sacerdote di Belo invoca la morte per tutti gli Ebrei e per Fenena per prima, perchè traditrice di Belo. Entra quindi Nabucco, trasandato e con abbigliamento lacero. Abigaille ordina di rinchiuderlo nelle sue stanze, poiché ha perso il senno, ma Nabucco rivendica il suo trono e affronta Abigaille chiedendole come osa sedervi. La donna dice di averlo occupato per il bene di Belo quando lui era demente e lo informa dell’imminente sterminio degli Ebrei. Nabucco è stupito, Abigaille rincara la dose e lo accusa di essere un vile e Nabucco, messo alle strette, firma allora l’ordine, ma quando si rende conto che in questo modo ha condannato anche Fenena vorrebbe tornare sui suoi passi. Abigaille non lo permette, e dice che avrà lei come figlia. Infuriato, Nabucco la definisce schiava e cerca il foglio che attesta la sua nascita servile, ma Abigaille lo estrae dal seno e lo distrugge. Abigaille fa rinchiudere Nabucco in prigione ed egli disperato le chiede di rendergli almeno Fenena. Intanto, sulle sponde dell’Eufrate, gli Ebrei incatenati pensano con nostalgia alla loro patria. Subito dopo giunge Zaccaria, che profetizza la futura liberazione del suo popolo.
Atto IV – L’idolo infranto. Negli appartamenti della reggia Nabucco sta dormendo. Si ode il suono di guerra e Nabucco si sveglia ansante credendo che Belo stia cadendo in mano agli Ebrei. Si affaccia alla finestra e vede la figlia Fenena tratta a morte in catene. Cerca di liberarsi, ma si rende conto di essere rinchiuso; disperato, si tocca la fronte e invoca il perdono al Dio di Giuda. Sentendosi guarito e rinvigorito riesce ad aprire con violenza la porta, ruba la spada ad Abdallo e corre a salvare Fenena. Intanto negli orti pensili il sacerdote di Belo attende Fenena, che si prepara al martirio. Irrompe Nabucco, con Abdallo e i guerrieri; cade l’idolo e Nabucco spiega come il dio di Giuda lo rese demente quand’era tiranno, facendo anche impazzire Abigaille che nel frattempo ha bevuto il veleno. Tutti si inginocchiano e rendono grazie a Dio. Entra Abigaille, in fin di vita, sorretta da due guerrieri: chiede perdono a Fenena, benedicendo il suo amore con Ismaele; muore implorando la pietà di Dio, mentre Zaccaria saluta Nabucco re dei re.

I libretti d’opera dell’800 – e questo del Solera, (basato sul Nabuchodonosor di Anicet-Bourgeois e Francis Cornu, 1836)  non fa eccezione – sono stati fatti oggetto talora di una critica letteraria spietata che ne ha messo in luce gli aspetti grotteschi e risibili, dimenticando però che il linguaggio del libretto non è una cosa a sé, ma è funzionale alla musica che accompagna. Certo che gli ottonari della cabaletta di Abigaille appartengono a uno stile eccessivo, hanno rime sgangherate e usano metafore logore, ma la musica li carica di connotazioni prima impensabili. «L’umil schiava» è stata proclamata regina, la sua rivincita sulle altezzose «regie figlie» si sta per compiere; ne esce un ritratto di donna vendicativa che approfitterà della sua posizione per sfogare un rancore represso da tempo. Quell’accenno infatti allo «sgabello insanguinato» ci suggerisce una certa cruenta lotta di potere che ha già mietuto vittime in abbondanza. Questo è quanto ci dicono i versi – e non è poco per due quartine di ottonari. Ma ecco che la musica riveste queste parole caricandole di un’ulteriore capacità connotativa.

La frase musicale su cui Abigaille canta i primi versi è concitata, procede per ampi salti d’intervallo, repentini passaggi di registro, note accentate, trilli nervosi. Non è l’incedere solenne di una regina nella sua maestà, è la foga un po’ isterica di una donna che si affanna per salire sul trono, inciampa nello strascico, le va la corona di traverso… Tutte cose che il testo poetico non faceva sospettare e che è la musica a mettere in luce. Da «vendetta» a «fulminar» c’è poi un salto vertiginoso di quasi due ottave (dal la sopracuto al do centrale) che ben dipinge l’abbattersi dal cielo della folgore vendicatrice. E al lampo segue il tuono: tre colpi di timpano concludono l’esposizione della prima strofa.

Se poi a cantare questi versi c’è una professionista dalla voce di acciaio come Dīmītra Theodosiou il ritratto del personaggio è perfetto. Assieme al Nabucco di Leo Nucci, inossidabile anche lui, forma il culmine del cast, per il resto modesto, di questa produzione del 2009 che si avvale della regia abbastanza statica di Daniele Abbado (che veste i coristi in abiti moderni mentre i personaggi principali sembrano usciti dalle figurine Liebig) e della energica direzione musicale di Michele Mariotti.

  • Nabucco, Luisotti/Abbado, Milano, 1 febbraio 2013
  • Nabucco, Oren/Bernard, Verona, 26 agosto 2017
  • Nabucco, Ciampa/Ricci-Forte, Parma, 29 settembre 2019
  • Nabucco, Renzetti/Cigni, Torino, 12 febbraio 2020
  • Nabucco, Fogliani/Jatahy, Ginevra, 11 giugno 2023