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Georges Bizet, Les pêcheurs de perles (I pescatori di perle)
Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 16 settembre 2025
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Dal grande schermo al palcoscenico: il naufragio lirico di Wenders
Overshadowed by Carmen, Bizet’s Les pêcheurs de perles remains a fragile yet enchanting work, rich in melodic beauty and youthful inspiration. The Maggio Musicale Fiorentino revived Wim Wenders’s cinematic 2017 staging, visually clumsy despite Jérémie Rhorer’s refined conducting. Vocally, Javier Camarena’s luminous Nadir and Lucas Meachem’s intense Zurga triumphed, proving Bizet’s early gift for unforgettable, emotionally charged melody.
Les pêcheurs de perles, opera giovanile di Bizet del 1863, resta un lavoro fragile ma affascinante: melodie ispirate e un lirismo già maturo compensano un libretto ingenuo e una drammaturgia incerta. La produzione del Maggio Fiorentino firmata da Wim Wenders delude sul piano visivo, ma la direzione di Jérémie Rhorer e le voci, soprattutto quella luminosa di Javier Camarena, salvano la serata.
Schiacciata dal peso ingombrante di Carmen, la sorella maggiore che ha monopolizzato la gloria e i cartelloni, l’opera Les pêcheurs de perles di Georges Bizet ha vissuto un destino anomalo: amata e insieme dimenticata, una creatura fragile che, dopo un inizio controverso, è scivolata presto nell’ombra, soprattutto al di fuori della Francia. Eppure, a distanza di oltre un secolo e mezzo, la sua freschezza melodica e l’incanto delle sue atmosfere rivelano il segno di un talento precoce, quello di un compositore che a ventiquattro anni aveva già la capacità di scolpire emozioni musicali indelebili, anche se non ancora la mano drammaturgica che avrebbe reso immortale la sua ultima opera.
Nel 1863 Bizet aveva ventiquattro anni quando mise in musica la vicenda di due amici, Nadir e Zurga, innamorati della stessa donna, Leïla, sacerdotessa consacrata al voto di castità. Un intreccio fragile, retto su un libretto ingenuo e in parte artificioso, ma illuminato da lampi melodici straordinari. Se l’architettura drammatica appare incerta, la musica ha la grazia di un canto che non teme il tempo: l’aria di Nadir «Je crois entendre encore», con il suo legato sospeso e quasi diafano, resta una delle più difficili e affascinanti pagine per tenore; la romanza di Leïla «Comme autrefois dans la nuit sombre» vibra di malinconia e nostalgia; il monologo di Zurga nel terzo atto rivela una sorprendente introspezione psicologica. E poi, naturalmente, c’è il duetto «Au fond du temple saint», vero cuore emotivo dell’opera, con quel “thème de la déesse” che ritorna come un’ossessione: non un Leitmotiv wagneriano, ma piuttosto un’“idée fixe” berlioziana, una melodia che si imprime nella memoria e struttura la drammaturgia musicale. È grazie a questo che Les pêcheurs de perles, pur con le sue fragilità, continua a conquistare il pubblico.
L’ambientazione di questa vicenda doveva inizialmente essere il Messico, ma i librettisti la spostarono senza troppi scrupoli a Ceylon, l’attuale Sri Lanka. Bizet, però, non tentò mai di imitare suoni o stili orientali: il suo “esotismo” non è archeologico, ma poetico. È piuttosto un gioco di colori melodici, una musicalità avvolgente che anticipa certe pagine di Puccini per intensità e languore. Il direttore Jérémie Rhorer, nel programma di sala, ha giustamente osservato come in quest’opera giovanile emerga un impulso lirico dominante, che sovrasta la dimensione narrativa. Bizet sembra più interessato a dipingere i sentimenti che a raccontare la trama.
L’ultima tappa di questo percorso interpretativo è la produzione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, la ripresa dello spettacolo presentato nel 2017 alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino. Allora Daniel Barenboim aveva voluto al suo fianco Wim Wenders, il grande regista tedesco, cineasta delle solitudini e dei paesaggi interiori. Per Wenders l’opera era stata una sorta di destino: nel 1978, a San Francisco, in un bar frequentato da artisti in crisi, aveva ascoltato dal jukebox proprio l’aria di Nadir, e ne era rimasto folgorato. Quando Barenboim gli propose di collaborare, il regista non ebbe dubbi: il titolo giusto era Les pêcheurs de perles. La storia, in fondo, sembrava parlare la lingua del suo cinema: due uomini uniti e divisi dall’amore per una donna, un’amicizia lacerata, un paesaggio ai confini del mondo. Tuttavia, il passaggio dal set cinematografico al palcoscenico non si rivelò così naturale. Wenders aveva già sfiorato l’opera in passato: nel 2013 avrebbe dovuto firmare un Ring per Bayreuth, ma il progetto naufragò per ragioni finanziarie. Con Bizet, dunque, si trattava della sua prima e, al momento, unica esperienza. E i risultati non sono stati memorabili.
Il regista ha cercato di “modernizzare” il racconto, liberandolo dalle ingenuità del libretto. Ma, paradossalmente, è caduto in un altro tipo di ingenuità: quella di voler tradurre il linguaggio operistico in immagini cinematografiche. Lo spettacolo fiorentino si apre come un film, con i titoli di testa proiettati su un velino semitrasparente. Si vedono gigantesche onde digitali, lune tropicali dietro le chiome delle palme, primi piani dei protagonisti in un flash back. Tutto ciò che il libretto dice viene illustrato in video, con un didascalismo che impoverisce la suggestione. Dove l’opera evoca, il cinema mostra: e in questo cortocircuito l’incanto si spegne. Un certo tono amatoriale si ritrova poi nei gesti stereotipati dei protagonisti e nel trattamento della massa corale.
Il palcoscenico resta sempre vuoto, un piano inclinato a suggerire astrattamente una spiaggia. L’immaginario visivo di Wenders, fatto di inquadrature pittoriche e spazi sospesi, qui non trova traduzione. I colori strumentali luminosi qui non si ritrovano nella scena sempre buia, in quella della notte con il cielo stellato realizzato in maniera imbarazzante con fili di lucine, con lo scoglio su cui prega Leïla una specie di scala che appena si intravvede nel buio o nella scena del supplizio con i soliti fumi. Brutti e inverosimili i costumi di Montserrat Casanova che per non concedere nulla all’esotismo puntano sul monocromatismo di pesanti palandrane le meno adatte a un’isola tropicale. Anche le parrucche non giovano alla definizione dei personaggi, con Camarena che sposta in continuazione le chiome nere che gli ricadono sul viso.
Se la regia non convince, la parte musicale salva la serata. Sul podio Jérémie Rhorer offre una lettura equilibrata, attenta ai colori e alle dinamiche, capace di dare respiro tanto ai momenti lirici quanto a quelli drammatici. L’orchestra del Maggio risponde con precisione e brillantezza, confermando la sua versatilità. Tra i cantanti spicca Javier Camarena, Nadir dalla voce luminosa, capace di superare le impervie tessiture e di affrontare anche i passaggi in falsetto con eleganza e controllo. Il pubblico gli ha tributato applausi calorosi, conquistato dalla raffinatezza della sua emissione. Accanto a lui, Lucas Meachem disegna uno Zurga di rara intensità: potente, tormentato, attraversato da passioni contrastanti – amicizia, gelosia, amore, vendetta – che l’interprete rende con magnetica espressività e stupefacente proiezione vocale. Il soprano armeno Hasmik Torosyan dà vita a una Leïla delicata e sensibile, nonostante un timbro un po’ metallico che toglie morbidezza alla linea vocale. Solido anche il basso Huigang Liu come Nourabad. Il coro, pur preciso e ben preparato, non ha trovato in Bizet la scrittura più efficace. È forse questo il settore in cui il giovane compositore, pur figlio del Grand-Opéra, mostra la maggiore inesperienza: cori spesso statici, poco differenziati, che non hanno la forza teatrale di un Meyerbeer o di un Verdi.
Alla fine, la serata fiorentina ha confermato una verità: Les pêcheurs de perles non è un capolavoro perfetto, ma è un’opera che merita di essere riscoperta. Ha la grazia dell’inesperienza, la freschezza di un talento che ancora cerca la sua via, ma che già possiede un dono raro: la melodia che resta nella memoria, che commuove e accende l’immaginazione. Bizet morirà a soli 37 anni, e Carmen resterà la sua eredità definitiva, ma senza i Pêcheurs non ci sarebbe stata la stessa Carmen: è qui che il giovane Georges ha imparato a trasformare l’aria e il duetto in ritratti psicologici, a dare voce ai turbamenti dell’anima.
L’esperimento di Wenders, pur deludente, ha comunque avuto il merito di riportare quest’opera sotto i riflettori. Anche quando il teatro non trova una regia memorabile, la musica di Bizet ha la forza di superare le difficoltà. Il pubblico fiorentino, che ha riempito la sala del Maggio, lo ha dimostrato con applausi generosi e convinti.
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