Eugène Cormon

Les pêcheurs de perles

Sketch for the scenery

Georges Bizet, Les pêcheurs de perles (The Pearl Fishers)

★★☆☆☆

Turin, Teatro Regio, 3 October 2019

   Qui la versione italiana

Turin opens its operatic season with naivety and glitter

In France the taste for exoticism was all the rage when in 1863, after his stay in Italy with the scholarship awarded to him by the Prix de Rome, a new opera was proposed to Georges Bizet.

People were hooked on travel and exotic places because they were regarded as a form of getaway from the moralistic constraints of the bourgeois society of the nineteenth century: nude odalisques in paintings, in literature the tale of depraved oriental satraps were admired with a frisson

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Les pêcheurs de perles

Bozzetto dell’impianto scenografico

Georges Bizet, Les pêcheurs de perles

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 3 ottobre 2019

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Torino apre la sua stagione operistica con le illustrazioni glitterate

Quando dopo il soggiorno in Italia con la borsa di studio assegnatagli dal Prix de Rome a Georges Bizet venne proposta una nuova opera, in Francia, di pari passo con l’espansione del colonialismo, dominava il gusto per l’esotismo. Il pubblico si appassionava ai viaggi e ai luoghi esotici anche perché rappresentavano una forma di evasione dai vincoli moralistici della società borghese dell’Ottocento: in pittura il nudo delle odalische e in letteratura le vicende di depravati satrapi orientali venivano fruiti con un frisson peccaminoso… In musica i librettisti di Bizet raccontavano di questo strano triangolo amoroso in cui il tenore e il baritono, innamorati della stessa donna, invece di essere rivali sono legati da una tenera amicizia.

Prima ancora di diventare una maniera dello stile Secondo Impero, il linguaggio musicale de Les pêcheurs de perles si affiancava al melodismo dell’opera italiana in uno strano connubio che costituiva il fascino di questo lavoro giovanile di Bizet che piacque al pubblico ma non alla critica e le 18 repliche che seguirono alla prima del 1863 non furono sufficienti a decretare il successo dell’opera che scomparve dalle scene per poi riapparire solo decenni più tardi. Nuova vita il lavoro di Bizet la dovette al paese che lo aveva ospitato in gioventù: nel 1886 al Teatro alla Scala I pescatori di perle furono rappresentati in una traduzione italiana con la quale da Milano passò poi non solo agli altri teatri italiani, ma anche all’estero, compresa la città che non aveva apprezzato il lavoro, la Parigi dell’Esposizione Universale del 1889 durante la quale l’opera fu rappresentata proprio nella versione italiana!

In quell’occasione il finale era stato modificato per rendere più tragica la conclusione della vicenda con la morte di Zurga e questa è la versione che viene comunemente messa in scena. Non qui a Torino: per l’inaugurazione della stagione, che comprende ben due titoli di Bizet, è stata scelta la versione originale di trent’anni prima in cui Léïla e Nadir si salvano fuggendo con l’aiuto di Zurga, che rimane solo e sconsolato. Il titolo sui manifesti è in italiano, forse per ribadire il debito pagato da Bizet all’opera italiana di cui aveva assimilato le caratteristiche, una linea di canto quasi belliniano e un accompagnamento orchestrale leggero spesso affidato a uno strumento solista, qui realizzati dall’orchestra del teatro alla cui guida Ryan McAdams ha offerto una lettura fluida che mette in evidenza la matura scrittura strumentale raggiunta dal giovane compositore. È l’uso del fascinoso tema del duetto maschile alle parole «Oui, c’est elle! | C’est la déesse plus charmante et plus belle!» – una idée fixe che ritornerà innumerevoli altre volte nel corso dell’opera a stregare i protagonisti come un frammento del passato – a rendere struggente quest’operina dall’incongruo libretto e dalla tenue vicenda.

In scena c’è un cast non omogeneo che ha l’apice nella Léïla di Hasmik Torosyan, soprano belcantista dal timbro argentino e dalle infallibili agilità che ben si adattano ad un personaggio che sembrerebbe Norma, la sacerdotessa che rompe i suoi voti di castità, se non fosse per il tono qui molto meno tragico. Incolore la prestazione del tenore francese Kévin Amiel che dell’aria di Nadir «Je crois entendre encore» – portata alla notorietà da voci come quelle di Enrico Caruso, Alain Vanzo, Beniamino Gigli, Alfredo Kraus o Nicolai Gedda – ha offerto una versione modesta e ridotta, seppure espressa con le mezze voci richieste dall’autore. Migliore si è dimostrato Pierre Doyen che ha sostituito all’ultimo momento l’interprete titolare indisposto. Uno Zurga dal timbro chiaro di cui ha reso con eleganza la nobiltà d’animo dell’uomo che salva l’amico dalla morte e lo lascia fuggire con la donna che ha sempre amato. Con questi due interpreti perlomeno si è ascoltato un francese impeccabile e non quello piuttosto approssimativo del coro. Ha completato il quartetto di interpreti il vocalmente sgradevole Nourabad di Ugo Guagliardo.

La messa in scena di Julien Lubeck e Cécile Roussat oscilla pericolosamente tra il kitsch e il naïf. Trascurata un’idea registica che tratti la vicenda in modo da dare maggiore spessore e umanità ai personaggi, i due registi tuttofare hanno scelto un decorativismo di maniera che sembra preso da quelle cartoline natalizie con i lustrini incollati sui bordi delle figure. Cornici sinuose inquadrano una scena da diorama inondato di luce irreale, soprattutto blu, rossa e oro, in cui si muovono personaggi bidimensionali. L’idea di utilizzare poi dei mimi per ricreare le pantomime così alla moda ai tempi di Bizet sui boulevard di Parigi si scontra col gusto moderno e quando l’alias di Léïla volteggia attorno ai due cantanti durante uno dei più bei duetti d’opera mai scritti, vien voglia di chiudere gli occhi per non vedere. Altri momenti toccano ingenuità da recita scolastica di fine anno con gli uccelli, anche loro adeguatamente glitterati, mossi da figuranti durante l’aria di Léïla del primo atto. Per non dire degli onnipresenti ballerini acrobati. Applausi da minimo sindacale hanno salutato il termine dello spettacolo.

Les pêcheurs de perles

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Georges Bizet, Les pêcheurs de perles

Torino, 12 marzo 2015

(esecuzione in forma di concerto)

Giovani Pescatori all’Auditorium RAI

Per il 14° concerto della sua stagione, l’Orchestra Sinfonica Nazionale recupera una prassi da tempo lasciata decadere, quella cioè di eseguire opere in forma concertistica. L’operazione – fortemente voluta dal direttore artistico Cesare Mazzonis e preceduta nel pomeriggio da una tavola rotonda con lo stesso Mazzonis, Giorgio Pestelli, Ernesto Ferrero e Pompeo Vagliani sull’orientalismo nell’opera francese e sul fenomeno nostrano dei romanzi di Emilio Salgari e dei suoi illustratori – ha avuto come oggetto Les pêcheurs de perles, primo capolavoro operistico di un Bizet venticinquenne e vincitore del prestigioso Prix de Rome assegnatogli ex aequo con Charles Lecocq. Prima del 1863, anno di debutto dei Pêcheurs, Bizet aveva scritto operette e opere buffe di cui si ricordano quasi solo Le Docteur Miracle e Don Procopio.

Il raffazzonato libretto di Michel Carré e Eugène Cormon è la plausibile causa dello scarso successo iniziale dell’opera, che dopo le prime rappresentazioni venne tolta dai cartelloni e solo dopo la morte dell’autore tornerà a riavere quel favore che continua a tutt’oggi grazie alle sue suadenti melodie e alle suggestioni timbriche della partitura. Bizet qui rende ricorrenti alcune idee musicali, dettate forse da una necessità di economia e fretta, che così rendono irresistibilmente orecchiabile l’opera. In più punti risuona infatti il tema del duetto di Nadir e Zurga sulle parole «Oui, c’est elle, c’est la déesse plus charmante et plus belle!» riferite alla giovane Léïla, sacerdotessa di Brahma e votata, seppure poco convinta, alla castità. Ma per tutta l’opera si susseguono arie di grande fascino melodico affidate ai solo quattro personaggi.

In questa ripresa all’Auditorium “Arturo Toscanini” dell’edizione originale del 1863 la mancanza di scene e costumi è stata in parte compensata dalla proiezione sullo schermo dietro l’orchestra delle copertine dei testi salgariani e di altre illustrazioni di fine Ottocento – anche se le pagine del libretto con traduzione in italiano sarebbero state più gradite a molta parte del pubblico, tra l’altro decimato dalla concomitante prima al Regio.

A dirigere l’orchestra RAI e il coro del Regio di Parma c’è il giovane Ryan McAdams, americano dalla carriera prestigiosa e già ascoltato a Torino. La sua è una conduzione vigorosa che sa trarre dai nostri ottimi strumentisti il giusto colore in un controllo sapiente delle dinamiche. Vivaci i numerosi interventi del coro, che forse avremmo voluto più misurati in certi punti e con una dizione del francese più attenta.

Quello della dizione è il solito punto debole delle esecuzioni da parte di interpreti non di lingua francese – che si conferma lingua tra le più difficili da cantare! Qui è stato più evidente nel caso del ruolo di Zurga, che non ha esibito quell’eleganza che ci aspettiamo in quest’opera, seppure il baritono Luca Grassi, già sentito nella stessa parte a Venezia, fosse vocalmente a posto. Meglio il Nourabad di Luca Tittoto, che si conferma tra le nostre migliori voci di basso. Voce minuta che svetta soprattutto nel registro acuto quella di Rosa Feola, elegante e sensibile Léïla, ma che non ha la personalità di una Annick Massis, per citare solo una delle ultime gloriose interpreti di questa parte.

Vera rivelazione della serata è stato il Nadir di Paolo Fanale, anche lui nato nel 1982 come il maestro McAdams. Timbro, stile, dizione perfetti per questo palermitano la cui intensa e precoce carriera si è sviluppata soprattutto in Francia, e si sente. Specializzatosi nel repertorio romantico d’oltralpe, si sta affermando come degno erede delle migliori voci del secolo scorso, da Léopold Simoneau ad Alain Vanzo, da Henri Legai a Nicolai Gedda, o di quelle più recenti di Roberto Alagna o Charles Castronovo. La sua resa dell’aria «Je crois entendre encore» non teme il confronto con quella del mitico Alfredo Kraus per eleganza, proprietà vocale e musicalità.

Applausi calorosi del pubblico con numerose chiamate alla fine dell’esecuzione ripresa in diretta da Radiotre che la replica venerdì 13. Sarà trasmessa in video il 23 aprile su Rai5.

Les pêcheurs de perles

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★★☆☆☆

Esotismo di maniera e televisivo per Pizzi e Iancu

La sola altra opera di Bizet comunemente in repertorio e frutto di un venticinquenne fresco della vittoria del Prix de Rome, Les pêcheurs de perles (1863) su libretto di Michel Carré ed Eugène Cormon, si inserisce nel filone di quell’esotismo nell’opera che continuerà con L’Africaine (1865) di Meyerbeer, Le Roi de Lahore (1877) di Massenet e la Lakmé (1883) di Delibes, un genere che era diventato una maniera dello stile Second Empire in terra di Francia.

In musica il genere era nato nel 1844 con Le désert, un’ode sinfonica del compositore Félicien David, lo stesso che avrebbe poi scritto La perle du Brésil, un’opera in cui non era il colore orientale a dominare bensì quello iberico, come succederà poi con la Carmen di Bizet. Comunque sempre di esotismo si trattava.

Atto primo. In una spiaggia dell’isola di Ceylon, sullo sfondo delle rovine di un’antica pagoda indù, il pescatore Zurga ricorda ai presenti che è giunto il momento di eleggere il nuovo capo. Tutti acclamano immediatamente lo stesso Zurga. Dopo aver girovagato nella foresta sopraggiunge Nadir, un giovane pescatore già amico di Zurga. Assieme i due rievocano i tempi trascorsi insieme e la giovane di cui erano entrambi innamorati perdutamente, ma alla quale avevano rinunciato, entrambi, nel nome della loro amicizia. Subito dopo approda una barca che trasporta una donna velata, accompagnata dal sacerdote bramino Nourabad: si tratta della sacerdotessa Léïla, prescelta per la cerimonia propiziatrice annualmente ripetuta al fine di favorire la pesca delle perle. Vuole il destino che Léïla sia precisamente la stessa donna appena magnificata dai due, i quali però, nonostante il vivido ricordo, non la riconoscono perché velata. I pescatori le offrono dei fiori e lei, sempre coperta dal velo, di fronte a Zurga assume un voto d’obbedienza che comporta, pena la morte e la maledizione eterna, la dedizione alla preghiera giorno e notte, la solitudine e la castità. Ora, a differenza di Zurga, Nadir la riconosce e ne è a sua volta riconosciuto. Alla richiesta di spiegazioni avanzata da Zurga, che, vedendola agitata, offre alla donna la possibilità di recedere dal voto appena assunto, ella oppone solennemente la propria decisione. Un inno a Brahma chiama tutti al tempio. Nadir confessa finalmente di non aver mai smesso di pensare a lei, di averla anzi seguita fin lì di proposito; quindi si addormenta. Léïla scioglie un canto in onore di Shiva (nel libretto dea femminile «à la chevelure blonde»!), ma viene bruscamente interrotta da Nadir e l’inno si trasforma in un’intensa dichiarazione d’amore.
Atto secondo. Tra le rovine d’un tempio indiano, Nourabad conduce Léïla a vegliare nella notte, ricordandole il voto di castità. Lei gli narra come, un tempo, abbia salvato la vita ad uno sconosciuto fuggiasco. Come segno di riconoscenza l’uomo le aveva donato una collana, pregandola di tenerla sempre con sé. Poco dopo giunge Nadir; nella notte profumata i due si abbracciano. Prima d’accomiatarsi Nadir le dà appuntamento per la notte successiva, ma poco dopo il suo allontanamento si ode un colpo: Nourabad chiama a sé le guardie e si lancia alla caccia dell’intruso. Catturato, Nadir viene introdotto a forza davanti a tutti e accusato insieme a Léïla; solo Zurga, intervenuto in extremis, riesce a fermare il sicuro linciaggio dei due, cui suggerisce di andarsene al più presto. Nourabad però esorta Zurga a sollevare il velo che copre il viso alla donna: finalmente riconosciutala, Zurga lascia esplodere la propria rabbia ed è egli stesso a condannarla a morte insieme a Nadir. Condotti via i due colpevoli, tutti invocano l’aiuto di Brahma.
Atto terzo. Solo nella sua tenda Zurga esprime il proprio grande rammarico per aver condannato l’amico Nadir, quando giunge Léïla, che ha implorato d’incontrarlo. Ambedue esprimono una profonda angoscia, ma nel momento in cui ella cerca d’intercedere per la vita di Nadir, sostenendone l’innocenza e addossandosi tutta la colpa, Zurga viene travolto di nuovo dalla gelosia. Giungono quindi Nourabad e i pescatori per condurre al rogo le vittime. Léïla si toglie la collana e fa per affidarla a un giovane pescatore affinché la consegni a sua madre. In preda ad un’intensa agitazione, Zurga s’impossessa a forza del monile, riconoscendo in Léïla la donna che lo aveva aiutato salvandolo da una morte sicura. Presso una statua di Brahma è pronta la pira sacrificale; i pescatori bevono, danzano e ballano, assetati di sangue. Insieme ad alcuni fachiri, Nourabad conduce Léïla. Si sta per appiccare il fuoco quando sopraggiunge Zurga, trafelato, a chiamare tutti alla salvezza del villaggio, devastato dalle fiamme. Tutti accorrono verso il villaggio; Zurga libera i due colpevoli e spiega di aver egli stesso dato fuoco al villaggio esibendo a Léïla la collana per motivare il proprio gesto di riconoscenza, quindi li accomiata e rimane, solo, ad osservarli mentre si allontanano.

Registrata al Malibran di Venezia nel 2004 la produzione porta i nomi di Pizzi alla regia e Viotti alla direzione d’orchestra. La mancanza di idee registiche (convenzionali i gesti degli interpreti e banale l’andirivieni del coro) è riempita dalle coreografie di Gheorghe Iancu con tutti i passi stereotipati cui ci hanno abituato i suoi balletti televisivi. Il sublime duetto del primo atto è fastidiosamente contrappuntato visivamente dalle acrobazie di una ballerina alla fune in stile Cirque du Soleil. Proprio in questa scena risulta evidente la visione superficiale e decorativa di questa produzione che rinuncia a uno scavo psicologico dei personaggi. Stilizzate ed eleganti invece le scenografie in rosso lacca e oro dello stesso Pizzi.

Quattro soli i protagonisti, ripartiti nell’usuale quartetto di voci: soprano, tenore, baritono e basso. Il giovane giapponese Yasu Nakajima, Nadir, è tenore dal timbro opaco e dizione tutt’altro che ineccepibile (ma è un problema anche degli altri due protagonisti maschili e del coro) e ha poi qualche leggero sbandamento nell’intonazione. Più sicuro lo Zurga di Luca Grassi, di nobile presenza, ma senza quella eleganza “francese” che ci si aspetta dal suo ruolo e come baritono ha un timbro quasi più scuro di Nourabad, il basso Luigi De Donato. Annick Massis ricorda anche fisicamente la storica Léïla di Mady Mesplé, la stessa sicurezza nelle agilità e negli acuti, ma con una vocalità più corposa. La sua è comunque un’interpretazione di tutto rispetto. Coro e orchestra non sono eccelsi nonostante la cura del maestro Viotti nel cercare i colori giusti per questa partitura.

Immagine di scarsa qualità, due tracce audio, sottotitoli in sette lingue, tra cui l’italiano, nessun extra.