Francesco Buti

L’Ercole amante

foto © Lorenzo Gorini

Francesco Cavalli, L’Ercole amante

★★★★

Cremona, Teatro Ponchielli, 27 giugno 2025

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Se Cremona ha Monteverdi, Crema ha Cavalli

Con L’Ercole amante di Cavalli, Andrea Bernard firma per il Festival di Cremona uno spettacolo ironico e raffinatissimo, ambientato in un matrimonio contemporaneo. La regia gioca tra barocco e modernità, sostenuta dalla direzione brillante di Antonio Greco. Cast giovane e vivace, spiccano Dolcini, Bar e Raftis. Opera sontuosa, attuale nei temi e accolta con entusiasmo.

Tre secoli erano trascorsi tra il 7 febbraio 1662 e il 17 febbraio 1961: la prima data essendo quella della prima rappresentazione a Parigi e la seconda quella della prima ripresa al Teatro La Fenice di Venezia de L’Ercole amante, l’opera voluta da Mazzarino per festeggiare le nozze del ventiquattrenne re di Francia Luigi XIV con l’infanta di Spagna Maria Teresa d’Asburgo nel giugno 1660. A causa dei ritardi nella ricostruzione del teatro in cui era previsto il debutto, distrutto da un incendio l’anno prima, l’opera di Cavalli poté andare in scena solo nel 1662 inaugurando la nuova grandiosa Salle des Machines innalzata alle Tuileries. Il cardinale aveva scelto il più popolare operista dell’epoca, e ora era Cavalli stesso a dirigere la sua creazione con il re in scena come danzatore. Nata per un’occasione così particolare, l’opera non fu mai più ripresa se non appunto in tempi moderni.

Tratta dalla mitologia e dalle Trachinie di Sofocle, la vicenda narra della non eroica fatica di Ercole di sedurre la bella Iole – figlia di Eutyro che l’Alcide ha ucciso perché gliela aveva rifiutata come sposa – scatenando nell’ordine: la gelosia della legittima consorte Deianira; l’angoscia del figlio Hyllo amante corrisposto di Iole; la vendetta dello spirito di Eutyro (Eurito in Sofocle); l’intervento di Venere a difesa degli amori purchessiano; quello di Giunone protettrice invece delle unioni coniugali. E poi di Nettuno, Mercurio, popolani e confidenti per complicare vieppiù la vicenda. Con gli intermezzi danzati composti da Isaac de Benserade e Jean-Baptiste Lully lo spettacolo allora durò quasi una giornata e a questo proposito chiederei a chi pensa che l’opera debba essere rifatta con le scenografie e i costumi originali come vorrebbero fosse messa in scena oggi l’opera di Cavalli, davanti a un pubblico che non è quello della corte reale di Francia del XVII secolo… Cambiati i gusti, la tecnologia e l’ambiente sociale, la vicenda, in equilibrio tra sublime e ridicolo, continua a funzionare anche oggi: amori tossici, l’eterna prevaricazione dell’uomo sulla donna, la complessità dei rapporti coniugali. Temi sempre di attualità.

Strano soggetto, comunque, per festeggiare un matrimonio! Il libretto di Francesco Buti a più riprese si fa beffe dei vincoli coniugali, ma il tema di fondo era l’invincibilità erculea del monarca francese e tanto bastò a renderla adatta alla bisogna. Ecco quindi fin dal Prologo espresso il chiaro l’intento celebrativo del lavoro con il coro di fiumi che inneggia al periodo di pace e ai «beati imenei | di Maria e di Luigi», mentre nel finale Bellezza ed Ercole cantano in duetto: «Così un giorno avverrà con più diletto, | che della Senna in su la riva altera | altro gallico Alcide arso d’affetto | giunga in pace a goder bellezza ibera». Infatti, dopo varie peripezie, Ercole viene assunto in cielo come sposo di Bellezza lasciando libero il figlio Hyllo di convolare alle desiate nozze con Iole e non-inconsolata la “vedova” Deianira.

Il giovane regista Andrea Bernard si trasforma in attento wedding planner nella sua lettura del lavoro di Cavalli. Ambienta infatti la vicenda in una location (per rimanere nel lessico…) dove è previsto il matrimonio di Ercole e Deianira. Sono presenti gli invitati con le coppe di spumante, i camerieri che si affannano, ma lo sposo è latitante, invaghito com’è di un’altra, e a Deianira non resta che affidarsi alla dea Giunone, in evidente stato di gravidanza, per difendere i suoi diritti coniugali.

Nella parete di fondo di questa scena unica si apre il boccascena di un teatrino da cui fanno il loro ingresso dèi e dèe per piegare a loro volontà i destini umani. Nella scenografia di Alberto Beltrame la boiserie è punteggiata di finestrine per l’apparizione di teste od oggetti, mentre tavoli e sedie costituiscono gli unici elementi mobili in scena. L’ambientazione ricorda il film Melancholia di Lars von Trier e simile è anche il bianco abito da sposa che Deianira indosserà fin quasi alla fine. Con gli splendidi costumi di Elena Beccaro, moderni per gli umani e barocchi per gli dèi, e l’attento gioco luci di Marco Alba, Bernard costruisce uno spettacolo tecnicamente perfetto, ironico e visivamente delizioso che ricrea lo spirito dell’opera barocca in termini intelligentemente moderni, con un gioco recitativo fluido ed efficace affidato a interpreti giovani e spigliati. Per una volta sono godibili e mai invadenti anche le moderne coreografie di Giulia Tornarolli ironicamente eseguite dai mimi/danzatori Andrea Carlotta Pelaia, Teodora Fornari e Vincenzo Giordano. Dopo tanti interessanti allestimenti, con questa sua produzione Andrea Bernard entra nel ristretto numero dei registi più stimolanti del momento.

Con opportuni tagli il Maestro cremonese Antonio Greco porta a circa tre ore uno spettacolo che nella registrazione in DVD della produzione della Nederlandse Opera del 2010 (direttore Ivor Bolton, regista David Alden) superava le quattro ore e venti minuti di sola musica. La sontuosità della strumentazione – efficacissime le percussioni nel corteo funebre, le fanfare di ottoni dislocati in fondo alla platea, l’organo per accompagnare le ombre d’oltretomba – è il punto di forza della direzione di Greco al clavicembalo e alla testa dell’orchestra del festival Cremona Antiqua con i suoi 23 strumentisti. Precisa e attenta negli attacchi e dal suono brillante, questa rende con sapienza la sensualità della musica dell’allievo di Monteverdi, il suo duttile recitar cantando, le ariose linee vocali, la varietà di affetti in musica, la dinamica cangiante e la straordinaria immediatezza teatrale. Indimenticabili sono gli ensemble – duetti, tri, quartetti… – di cui è inusitatamente ricca quest’opera e che qui regia ed esecutore musicale mettono magnificamente in evidenza.

Buona vocalità e prestanza scenica contraddistinguono i giovani interpreti. Renato Dolcini è un solido Ercole dalla sicura linea vocale. La fragilità di fondo dell’invincibile eroe è messa in evidenza dall’espressivo ed elegante fraseggio del baritono milanese a suo agio in questo repertorio. La Deianira di Shakèd Bar ha nel lamento dell’atto II, «Misera, ohimè, ch’ascolto […] Ahi ch’amarezza» il punto più drammatico dell’opera che viene vissuto con grande intensità dalla cantante. Iole trova nella vivace personalità di Hilary Aeschliman adeguata definizione in coppia con l’amante Hyllo interpretato con qualche timidezza da Jorge Navarro Colorado. Molto ben caratterizzata è la Giunone di Theodora Raftis, così come il Nettuno/Ombra di Eutyro di Federico Domenico Eraldo Sacchi. Tre personaggi per Paola Valentini Molinari: Venere/Bellezza/Cinzia, tutti e tre efficamente delineati. Pasithea è Chiara Nicastro, Mercurio è Matteo Straffi e il Tevere Arrigo Liverani Minzoni.

Personaggi che fanno di tutto per non essere considerati secondari, e ci riescono, sono il Licco del controtenore torinese Danilo Pastore, qui elegante dama anni ’30 en travesti, e il Paggio di Maximiliano Danta, il controtenore uruguayano che si è distinto all’ultimo Concorso Cesti. Sono due cantanti da tenere sott’occhio per la loro personalità. Le tre Grazie di Benedetta Zanotto, Giorgia Sorichetti e Isabella Di Pietro completano l’affollato cast tipico delle opere di Cavalli. Spesso presente e vivace, il coro del festival fornisce il suo valido contributo all’esito trionfale della serata. Solo due recite, ma chissà che qualche direttore artistico avveduto consenta a un pubblico più numeroso di godere di tanta bellezza. Rinnovando anche in tal modo gli stantii cartelloni dei teatri italiani. 

L’Ercole amante

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Francesco Cavalli, L’Ercole amante

★★★★★

Parigi, Opéra Comique, 6 novembre 2019

(registrazione video)

L’ultima ingloriosa fatica di Ercole

«Così un giorno avverrà con più diletto, | che della Senna in su la riva altera | altro gallico Alcide arso d’affetto | giunga in pace a goder bellezza ibera». È in queste parole cantate da Bellezza ed Ercole nel finale dell’opera che si esplicita l’occasione di questo lavoro, ossia il matrimonio di Luigi XIV con l’infanta di Spagna Maria Teresa. Nel prologo il coro di fiumi aveva inneggiato al periodo di pace e ai «beati imenei | di Maria e di Luigi».

Sono note le vicissitudini della rappresentazione e il fatto che dopo la prima L’Ercole amante non vedesse più la scena fino a tempi moderni. “Tragedia” definisce il librettista Francesco Buti questa che per noi è una tragicommedia dell’ultima e fallita fatica di Ercole, quella cioè di conquistare Iole, la figlia del re Eutyro, che egli ha assassinato, e per di più è innamorata, ricambiata, del figlio di Ercole. Come già aveva già fatto David Alden alla Nederlandse Opera, qui all’Opéra Comique i registi Valerie Lesort e Christian Hecq allestiscono uno spettacolo barocco nel vero senso del termine, ricostruendo un lussureggiante apparato scenico con ingegnose macchine teatrali, costumi allegri e fantasiosi di Vanessa Sannino e discreti movimenti coreografici. La meraviglia e la sorpresa si susseguono in continuazione nella loro messa in scena improntata all’ironia, dove il “mostro” addomesticato da Ercole segue l’eroe con la sua clava in bocca come un cagnolino, lo strascico di Dejanira è un chilometrico fiume di lacrime, la mongolfiera di Giunone è fatta col pavone con cui prima era arrivata e il Sonno è un Bibendum che addormenta Ercole con i suoi effluvi corporei…

La scenografia di Laurent Peduzzi è costituita da una gradinata semicircolare che ricorda la cavea del Teatro all’Antica di Sabbioneta. Il colore bianco e la rigidità delle forme potrebbero richiamare un certo Pier Luigi Pizzi, qui sono invece luogo di mille sorprese con buchi e botole per ogni dove da cui spuntano dèi, cadaveri zombie, piante animate, le facce dorate dei coristi, colonne danzanti e quant’altro. Veri fuochi d’artificio e una pioggia di coriandoli dorati sullo sfondo dei pianeti e degli dèi sospesi per aria costituiscono la logica conclusione di una serata che non ha risparmiato sulle continue trovate sceniche.

A tanta meraviglia visiva corrisponde l’energica direzione musicale di Raphaël Pichon alla guida del suo ensemble Pygmalion, coro e orchestra di livelli eccellenti. I mezzi strumentali, inusitati per l’epoca, ricreano qui un universo sonoro cangiante, molto “francese”, con vividi contrasti di colore, come quando alla gaia danza degli zefiri seguono i funebri accordi della scena del sepolcro di Eutyro (IV, 6). Ma innumerevoli sono i momenti felici della lettura di Pichon: il trattamento madrigalistico del coro «Pronuba e casta dea» (V, 2), la infinita dolcezza del bellissimo duetto di Dejanira con Hyllo (III, 9), il terzetto con cui termina l’atto quarto «Una stille di speme | oh che mar di dolcezza!» (IV, 7), il quintetto finale, le tante pagine strumentali. Vari tagli portano a poco più di tre ore la durata della musica.

Sugli interpreti c’è la sicurezza di specialisti in questo repertorio: la Anna Bonitatibus della produzione di Bolton ritorna nel ruolo di Giunone con ironia e forte caratterizzazione; tra Giuseppina Bridelli, Dejanira «misera madre al largo pianto», e Francesca Aspromonte, divisa tra l’amore per il padre e il figlio di chi l’ha ucciso, non si sa chi più lodare per bellezza di timbro, proprietà stilistica, soavità della linea di canto; non è da meno Giulia Semenzato nelle tre parti di Venere, Bellezza, Cinzia seppure con una dizione poco comprensibile. Il controtenore Ray Chenez presta la sua voce un po’ esile al Paggio e timbro luminoso e squillo potente sono quelli di Krystian Adam, Hyllo. Gloriosamente baritonale, Nahuel di Pierro (Ercole) delinea il personaggio vanaglorioso e antipatico in cui si doveva rispecchiare la regalità di Luigi XIV. Nettuno ed Eutyro si avvalgono del registro basso di Luca Tittoto, come sempre stilisticamente esemplare. La parte comica di Licco è affidata a Dominique Visse sulle cui particolarità vocali c’è poco da aggiungere rispetto a quanto rilevato altre volte.

Orfeo

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Luigi Rossi, Orfeo

★★★★★

Nancy, Opéra National de Lorraine, 9 febbraio 2016

(video streaming)

L’altro Orfeo

Orfeo, la seconda delle due uniche opere di Luigi Rossi (l’altra è Il palazzo incantato dall’Orlando Furioso dell’Ariosto), si colloca tra L’Orfeo monteverdiano e quello gluckiano ed è la prima opera a essere messa in scena in Francia il 2 marzo 1647 nel nuovo Palais Royal per iniziativa del Mazzarino e alla presenza della reggente Anna d’Austria e del giovanissimo futuro re Luigi XIV. Il pubblico parigino assiste a uno spettacolo di un genere tutto nuovo arrivato dall’Italia in cui i personaggi si esprimono solo con il canto. Malgrado l’ostacolo della lingua, il libretto complesso e le sei ore di durata, sono tutti sedotti dai prodigi delle macchine, dalla grandiosità degli apparati «vari et magnifici», dalla rapidità dei cambiamenti di scena, dalle coreografie e dal virtuosismo dei cantanti.

41 anni dopo quello monteverdiano, il librettista Francesco Buti stravolge i canoni poetici del mito introducendo elementi farseschi e personaggi secondari, sovrannaturali o caricaturali, sviluppando le nozze dei due giovani in due atti e relegando al terzo le peripezie oltretombali seguite alla morte di Euridice.

Ridotto dalle originali sei a tre ore, il lavoro di Luigi Rossi viene ora presentato all’Opéra di Nancy. Sulle note di una passacaglia suonata da un’arpa barocca, Orfeo in abiti moderni è solo su un palcoscenico nudo e capiremo alla fine trattarsi di un flashback, così infatti terminerà l’opera. Subito dopo attacca la solenne sinfonia e la scena si affolla di altri personaggi: la mamma della sposa indaffarata con i preparativi della festa, la sposa stessa che si deve ancora finire di vestire e il padre che ripassa il discorso che farà alla cerimonia mentre arrivano altri eleganti invitati. Seguirà la festa di nozze con la vecchia zia ubriaca e gli interventi scherzosi del solito buontempone. Il serpente, qui portato dal rivale, farà il suo dovere e dopo aver tutti pianto la povera Euridice nella cassa ci si trasferisce nell’Ade.

La regista Jetske Mijnssen fa rivivere sotto i nostri occhi un’opera di 370 anni con un allestimento che traduce l’evento mitico in una vicenda moderna e azzera del tutto il significato encomiastico del potere sovrano annunciato nel prologo – qui sostituito dalla passacaglia strumentale di cui s’è detto – e nell’epilogo, anch’esso omesso, che sarebbe intonato da Mercurio che illustra la metafora per cui la lira di Orfeo è il giglio di Francia e Orfeo qui perde sì Euridice, ma la perdita è preludio alla sua immortalità, così come quella della sua lira, trasformata in costellazione.

Con decisi tagli, il direttore Raphaël Pichon e la regista concentrano l’azione sui personaggi principali e sulla loro vicenda. Si assiste dunque a un triangolo amoroso in cui grande importanza ha qui il ruolo di Aristeo, innamorato di Euridice, e la cui gelosia è il motore della catastrofe finale. È lui infatti che manda il serpente del cui veleno lui solo ha l’antidoto, ma che Euridice rifiuta perché fedele a Orfeo. Aristeo, che non lo aveva previsto, diventa pazzo e Orfeo scende agl’inferi. Il resto è noto.

Coprodotto con Versailles e Bordeaux lo spettacolo, di grande forza visiva ed eleganza, è suddiviso tra la festa per le nozze in color crema, la morte di Euridice in cui tutti vestono un luttuoso nero e la scena nell’Ade dai surrealistici costumi delle figure dell’oltretomba.

L’Ensemble Pygmalion utilizza strumenti antichi e sotto la sapiente mano di Pichon dipana le note che accompagnano questa vicenda cui danno voce ottimi interpreti. Orfeo qui ha meno spazio che in Monteverdi o in Gluck ma la voce dolente di Judith van Wanroij ne fa comunque un personaggio di grande intensità. Francesca Aspromonte è un’Euridice memorabile di grande bellezza sia scenica che vocale. Il mezzosoprano Giuseppina Bridelli completa efficacemente il trio come l’innamorato respinto Aristeo e nella selva degli altri ottimi comprimari segnaliamo la Venere/Proserpina di Giulia Semenzato, il Plutone di Luigi de Donato, la nutrice di Ray Chenez, uno dei tanti controtenori qui impegnati, il Satiro di Renato Dolcini e la vecchia di Dominique Visse.

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L’Ercole amante

Ercole amante

★★★★★

Venezia a Parigi

Mettiamoci il cuore in pace: per vedere un’opera barocca italiana occorre varcare le Alpi. Non c’è nemmeno un teatro italiano in questo elenco di rappresentazioni degli ultimi anni (fonte: operabase.com): Monteverdi è stato allestito a Barcellona, Berlino, Amsterdam, Bruxelles, Madrid, Aix-en-Provence, Glyndebourne; Vivaldi a Parigi, Zurigo, Valencia, Copenhagen; Vinci a Parigi e Vienna; Galuppi ad Atene e Würzburg; Cavalli ancora Parigi, New York, Monaco, Cincinnati e ancora Amsterdam, da cui proviene questa produzione del 2009 della Nederlandse Opera con la regia di David Alden e la direzione musicale di Ivor Bolton.

Opera voluta da Mazzarino per festeggiare le nozze del ventiquattrenne re con l’infanta di Spagna Maria Teresa e nello stesso tempo glorificare la casa di Francia, a causa dell’incendio del teatro in cui era previsto il debutto nel 1659, Ercole amante poté andare in scena solo nel 1662 nella nuova grandiosa Salle des Machines innalzata alle Tuileries con Cavalli stesso a dirigerla e il re in scena come danzatore. Nata per un’occasione così particolare, l’opera non fu mai più ripresa se non in tempi recenti.

Tratto dalla mitologia e dalle Trachinie di Sofocle, la vicenda narra della non eroica fatica di Ercole di sedurre la bella Iole scatenando nell’ordine: la gelosia della consorte Deianira; l’angoscia del figlio Hyllo amante corrisposto di Iole; la vendetta dello spirito di Eutyro (Eurito in Sofocle) che ha ucciso e infine l’ira della dea Giunone protettrice degli amori coniugali.

Prologo. Cinzia (Artemide), il Tevere e un Coro di fiumi celebrano la gloria di Luigi XIV, la sua unione con l’infinita di Spagna Maria Teresa, la regina Anna reggente di Francia e la Gallia fortunata.
Atto I. Ercole, sposo di Deianira, ama la giovane Iole, di cui egli aveva ucciso il padre, Eutyro, che gliela aveva negata. Iole ama invece, riamata, il figlio di Ercole, Hyllo. A lenire l’amoroso tormento di Ercole interviene Venere, che, promettendogli il suo favore, lo esorta a invitare nel suo giardino Iole. Appare Giunone che vuol favorire invece l’amore dei due giovani.
Atto II. Scena d’amore tra Iole e Hyllo. Un Paggio le porta il messaggio di Ercole; Hyllo già è turbato dalla gelosia. Deianira è sconvolta dalla notizia dell’amore del suo sposo per Iole. Per raggiungere i suoi fini, Giunone chiede l’intervento del Sonno.
Atto III. Nel giardino sorge dalla terra, alla presenza di Venere, una seggiola magica. Incontro di Ercole e Iole, che sente per lui «un improvviso e involontario affetto». Lo straziato stupore di Hyllo rivela i suoi sentimenti al padre, il quale, reso mite dal suo corrisposto amore per Iole, si limita a cacciarlo. Appare allora Giunone con il Sonno, che addormenta Ercole. La dea invita Iole ad allontanarsi dalla seggiola incantata e la spinge ad uccidere il suo spasimante. Hyllo, tornato sulla scena, impedisce alla sua amata il folle gesto togliendole l’arma proprio nel momento in cui Ercole è svegliato da Mercurio con un colpo d’ala. Hyllo è minacciato di morte dal padre, ma Iole gli svela la verità. Ercole decide di farli morire insieme, ma Iole gli fa capire che egli può sperare ancora nel suo amore se Hyllo verrà risparmiato. Ercole la invita allora a ritornare al «patrio nido» e relega il figlio nella torre del mare. Scene di disperazione di Deianira e Hyllo.
Atto IV. Prigioniero, Hyllo apprende dal Paggio che Iole è costretta a unirsi a Ercole. Perduta ogni speranza, si getta nel mare, ma è salvato da Nettuno per l’intervento di Giunone. Iole visita la tomba di Eutyro al quale chiede il permesso di unirsi ad Ercole, ma l’ombra paterna si ritira, pronta a far valere contro Ercole la sua invisibile potenza. Intanto Deianira porta l’inesatta notizia della morte del figlio e Iole decide di porre fine ai suoi giorni. A Deianira viene suggerito da Licco, un araldo della sua casa, di fare indossare a Ercole una tunica intrisa con il filtro che centauro Nesso le aveva regalato, e che, secondo lo stesso Nesso, avrebbe avuto, nel bisogno, il potere di restituirle l’amore del marito.
Atto V. Euryto è riuscito a coinvolgere, nel suo disegno di far morire Ercole, altre ombre infernali già vittime dell’Alcide. Nella scena successiva (il portico di un Tempio consacrato a Giunone Pronuba), Iole porge a Ercole la magica tunica, che gli provoca «una pungente arsura» e lo fa rapidamente morire. Iole, Deianira, Hyllo, Licco non si attendevano quel tragico epilogo, e tutti ne sono profondamente addolorati. Ma appare improvvisamente Giunone con l’annuncio che Ercole non è morto, perché Giove l’ha unito con la Bellezza. Tutti esultano ed Ercole appare con la sua sposa nell’alto dei cieli.

Strano testo per celebrare un matrimonio! Nei divertenti documentari allegati come extra nei due dischi lo stesso regista si chiede se il cardinale Mazzarino avesse mai letto il libretto che non solo mette in burla gli amori di corte

… per questa corte ogn’or volare
si vede un sì gran numero d’amori,
che non abbiamo a fare,
che ne vengan di fuori.
Ama Hyllo Iole riamato, e l’ama
Ercole assai malvisto, ama Nicandro
Licori, e questa Oreste, e Oreste Olinda,
e Olinda, e Celia scaltre
aman le gemme, e l’oro,
e Niso, ed Alidoro aman cent’altre.

ma a più riprese si fa beffe dei vincoli matrimoniali. Ma il tema di fondo era l’invincibilità erculea del monarca francese e tanto bastò a renderla adatta alla bisogna.

La regia di Alden qui è meno irriverente di altre volte e si adatta con naturalezza allo spettacolo barocco fatto di sorpresa e meraviglia fino all’eccesso. Superlativi i costumi: nel prologo l’infanta Maria Teresa sembra uscita dal famoso quadro di Velázquez e Luigi XIV da quello di Rigaud, per poi assumere le fattezze di un Rambo ipertrofico quando veste le attillate brache di pelle, il giubbotto leopardato, la cintura da campione di wrestling e la catenona d’oro sui pettorali gonfi di un Ercole dal testosterone facile.

Non meno strepitosi sono i costumi (di Constance Hoffman) degli altri personaggi e colorate le scenografie di Paul Steinberg con gustosi particolari quali la statua d’oro di Giunone incombente sui personaggi, i pesci e l’attinia radiocomandati del quadro marino, le bare della scena agli inferi. Come nella prima rappresentazione sono state inserite le danze scritte da Lully, qui con le ironiche coreografie di Jonathan Lunn. Quest’opera sembra quindi celebrare il passaggio dal glorioso recitar cantando dell’opera italiana alla tragédie lyrique francese con il testimone che passa da Venezia a Parigi.

Nel ruolo del titolo Luca Pisaroni, aitante e autoironico, si conferma come l’eccelso basso-baritono che conoscevamo e tratteggia un Ercole ora eroico ora regalmente elegante, ora brutalmente arrogante ora lirico amante, sfoderando tutte le tinte della sua prodigiosa vocalità e dizione perfetta. La moglie Deianira è un’ottima Anna Maria Panzarella, dal timbro magnifico e dall’intensità interpretativa che ricorda la compianta Cathy Berberian – e non le si potrebbe fare complimento maggiore. La nobiltà della sua regalità offesa emerge con abbagliante evidenza nel suo lamento del quarto atto, scena altrettanto ammirabile del lamento della perduta Arianna monteverdiana. Anche il quartetto «Dall’occaso agl’Eoi» ha un profumo madrigalistico che sembra arrivare direttamente dai libri del maestro cremonese. Giunone glamour, nobilmente sdegnata, ma anche dea perfida è quella di Anna Bonitatibus, perfetta nei furori come nei lamenti lirici. Come Iole Veronica Cangemi conferma l’impressione avuta da altre sue interpretazioni: voce eterogenea nei vari registri, non perfetta dizione (diamine, non è argentina e quindi mezza italiana?) e una dose di affettazione, qui forse più tollerabile. Tra le voci maschili si confermano eccellenti interpreti Tim Mead e Umberto Chiummo, mentre riserve si possono avanzare per Jeremy Ovenden e Mark Tucker. Una sorpresa invece gli acuti e la presenza scenica di Marlin Miller, un Licco impertinente e libidinoso.

Sul podio un ispirato e instancabile Ivor Bolton magnificamente assecondato dagli strumentisti dello scintillante e duttile Concerto Köln ci fa dimenticare che sono oltre quattro ore di musica.