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Nicola Porpora, Carlo il Calvo
Milano, Teatro alla Scala, 14 giugno 2023
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(esecuzione in forma di concerto)
Porpora in concerto alla Scala
Coraggio a metà per il Teatro alla Scala che propone sì un titolo barocco mai frequentato, ma in forma di concerto, per una sola sera e drasticamente accorciato – delle tre ore e quaranta minuti di musica eseguite a Bayreuth tre anni fa, un’ora viene eliminata tagliando cinque delle arie originali, alcune scene e molte battute di recitativo. Bastava anticipare alle 19 l’inizio per poter ascoltare nella sua interezza un’opera di rara esecuzione e grande interesse.
Queste le circostanze in cui nacque il lavoro. Nel 1737, dopo il suo soggiorno londinese, Nicola Porpora aveva ripreso il suo incarico all’Ospedale degli Incurabili veneziano sostituendo Johann Hasse, ma già l’anno successivo ritornava nella sua Napoli. Nel passaggio per Roma veniva scritturato per un’opera su un libretto basato su L’innocenza vendicata di Francesco Silvani, vicenda già messa in musica nel 1699. Ulteriori versioni erano seguite nel tempo e quella che arriva in mano a Porpora ha un testo piuttosto differente – mancano due personaggi comici e ne è aggiunto uno serio, Edvige – ed è di mano anonima. Col titolo Carlo il Calvo debutta nella primavera del 1738 al romano Teatro delle Dame, dove però le “dame” in palcoscenico erano bandite da decreto papale e solo cantori maschi, evirati e non, potevano calcare le scene. Per il personaggio femminile di Gildippe, ad esempio, Porpora aveva scelto il suo allievo Antonio Huber (o Uberti), detto per questo il Porporino. Gli altri due personaggi femminili, Giuditta ed Edvige, furono affidati a Geremia del Sette e Giuseppe Lidotti. Giuseppe Galletti, Lorenzo Ghirardi, giovane e avvenente cantante scoperto da Vivaldi, e Francesco Signorili furono rispettivamente Lottario, Adalgiso e Berardo. Per la parte del subdolo Asprando si ricorse a un debuttante Francesco Boschi.
Molto liberi sono i riferimenti alla storia della vicenda. Figlio di Ludovico II il Pio e di Giulietta dei Guelfi di Baviera, nipote quindi di Carlo Magno, pronipote di Pipino il Breve e trisnipote di Carlo Martello, Carlo il Calvo (823-877) sarà Re dei Franchi, poi Imperatore dei Romani e Re d’Italia, ma nell’opera è ancora un bambino di 9 anni immerso in una spietata disputa famigliare in lotta per il potere. Il personaggio del titolo è dunque muto nell’opera mentre gli altri hanno un numero di arie gerarchicamente consono alla loro importanza: Lottario, pretendente al trono e fratellastro del piccolo Carlo, ne ha cinque; il figlio Adalgiso e l’amata Gildippe oltre a un duetto anche loro avrebbero cinque arie, ma in questa esecuzione sono privati ognuno di una; due delle sue tre arie le mantiene il malevolo e subdolo consigliere Asprando; perdono anche loro un’aria su tre il principe spagnolo Berardo e Giuditta, madre di Carlo e vedova di Ludovico il Pio; conserva le sue due arie la figlia Edvige.
La zoppicante coerenza della vicenda e la repentina conversione di Lottario non sono aiutati dalla mancanza di una messa in scena e l’opera diventa una sequenza di stupende arie connesse da recitativi secchi. I numeri musicali solistici dimostrano la particolarità della scrittura di Porpora che nelle sue opere si rivela esperto compositore ma soprattutto maestro di canto: nella sua eleganza ed efficacia il ruolo dell’orchestra è principalmente quello di accompagnamento della voce dove le arie seguono una rigida struttura: la prima sezione è formata da una breve introduzione orchestrale, segue un primo episodio vocale terminante nella dominante, un breve ritornello orchestrale, un secondo episodio vocale variato e modulante alla tonica, un ritornello finale; la seconda sezione è molto più breve e con un tempo e un carattere diversi mentre nel da capo si riprende la prima parte con lussureggianti variazioni e una cadenza finale. Questa struttura tripartita o meglio pentapartita (A, A’, B, A”, A”’) è esemplata nell’aria che conclude il primo atto con Adalgiso che esprime i suoi timori ricorrendo a una metafora marinara frequentissima nell’opera barocca: «Saggio nocchier che vede […] la speme naufragar», un pezzo che vede brillare l’astro della serata, Franco Fagioli, in una girandola di agilità e virtuosismi vocali: trilli lunghissimi, salti di registro vertiginosi, acuti stratosferici e note cavernose, passaggi in legato e in staccato, un intero campionario di prodezze vocali che il controtenore argentino affronta e risolve con una souplesse disarmante e un gusto dello spettacolo che richiamano le mitiche figure degli evirati cantori settecenteschi di cui Fagioli oggi è l’indiscusso e insuperato rappresentante. Quest’aria richiama alla mente un’altra sua mitica esecuzione, quella di «Vo solcando un mar crudele» (un’altra metafora marinara…) dall’Artaserse di Vinci, opera presentata otto anni prima nello stesso Teatro delle Dame e di cui Porpora cita un passaggio orchestrale. Allo stesso Adalgiso/Fagioli è affidato il compito di terminare anche il secondo atto con l’aria «Spesso di nubi cinto […] s’asconde il sole in mar» conclusa da una cadenza strepitosa. Purtroppo la divisione scelta alla Scala di un solo intervallo in mezzo al secondo atto diminuisce in parte l’effetto che ha sulla scena come finale d’atto. Con «Taci, oh Dio! ch’è da tiranno | il rapir con frode un regno», Fagioli mette in mostra una messa di voce e fiati interminabili sorprendenti. Peccato che ad Adalgiso venga tagliata l’aria del terzo atto «Con placido contento», ma l’espressività di cui il vocalista Fagioli sa fare sfoggio la ritroviamo nel lirico duetto con Gildippe «Dimmi che m’ami, o cara», numero di inusitata bellezza dove le sospirose cadenze vedono in gioco anche l’altra star della serata, Julija Ležneva.
Il soprano russo ha raggiunto un livello di maturità espressiva sorprendente pur con un mezzo vocale se non esile comunque leggero, anche se dotato di grande proiezione. Fin dalla sua prima aria, «Sento che in sen turbato», ammalia il pubblico con trilli interminabili e un porgere della voce che evita il tono lezioso, anzi aggiunge un tocco di elegante ironia. Anche a lei viene tagliata un’aria, «Se veder potessi il core», ma la Ležneva si rifà nel terzo atto, prima dell’immancabile coro finale, con l’inserimento di «Come nave in mezzo all’onde» dal Siface dello stesso Porpora, un pezzo di acrobazie vocali magnificamente realizzate.
Max Emanuel Cenčić è arrivato a un momento della sua carriera in cui lo strumento vocale ha perso un po’ della abilità acrobatiche iniziali, ma ha acquistato in colore ed espressione. Il suo Lottario non è mero sfoggio virtuosistico, il caldo timbro da contralto ora è al meglio e il controtenore croato lo dimostra nelle sue cinque arie che comprendono anche un numero dall’Ezio, sempre di Porpora, «Se tu la reggia al volo», le cui fluide agilità vengono dipanate con suprema eleganza. In tutti i suoi interventi i da capo sono cesellati con variazioni e cadenze di grande raffinatezza.
Il tenore tedesco Stefan Sbonnik è un Asprando non eccessivamente caricato: se non si ascoltassero le sue parole non si direbbe che si tratta di un personaggio spregevole. La sua linea di canto è mantenuta sempre su un tono di grande eleganza e dopo un inizio un po’ incerto il cantante acquista in presenza vocale con agilità ben sostenute. Presente anche a Bayreuth, Suzanne Jérosme presta la sua bella voce sopranile per delineare un’intensa Giuditta e conferma qui il temperamento, già là ammirato, nelle sue due arie che le sono rimaste, in cui si scaglia contro il marito che intende «svenare il caro figlio».
Edvige è un personaggio, come s’è detto, inserito per equilibrare la parte femminile e fornire anche una seconda coppia amorosa – la donna ama riamata Berardo – a quella di Adalgiso e Gildippe. Ambroisine Bré, mezzosoprano apprezzato anche al di fuori del repertorio barocco (è stata Mallika nella recente Lakmé dell’Opéra-Comique di Parigi), ha solo due arie: una nel primo atto in cui dichiara che «fedele ognor sarò», una nel secondo atto in cui il testo si affida qui a una metafora agricola dove «Il provido cultore […] mira del suo sudore | la speme biondeggiar» ma teme che «la procella e il vento | del suo sudor la speme | gli possa dissipar». È infatti in questa alternanza di speranza e disperazione che vive il personaggio.
Che nel teatro musicale settecentesco le metafore verbali e le parole diventino un astratto gioco di immagini atte a stupire con la voce è dimostrato anche dall’ultimo personaggio, Berardo, interpretato dal sopranista Dennis Orellana, cantante già di solida tecnica vocale impiegata nelle fioriture delle sue due arie (quella del primo atto è tagliata) entrambe fieramente guerresche, «Per voi sul campo armato | sfidar l’avverso fato» e «Su la fatal arena | dal brando mio trafitto», risolte con giovanile baldanza e perfetto controllo del prodigioso mezzo vocale.
Il tutto è concertato con sapienza e gusto da George Petrou a capo dell’Armonia Atenea, orchestra la cui la bellezza del suono non è forse la qualità migliore, soprattutto per i fiati, ma si sa che gli strumenti originali sono di difficile intonazione. La compagine – formata da due oboi, un fagotto, due corni, due trombe e percussioni, oltre agli archi e al clavicembalo – si è comunque dimostrata un elemento molto duttile e attento alle indicazioni del suo direttore a cui ha risposto con precisione di attacchi e uno slancio ritmico trascinante. I contrasti sonori e i colori sono ricchi, ma mai esasperati, e curatissima è la realizzazione dei recitativi, di cui due accompagnati nei momenti più salienti della storia: il finale del primo atto dominato dalla figura di Adalgiso e la scena del terzo atto del monologo di Asprando, quando l’anima nera della vicenda combatte contro le visioni infernali che intende sfidare.
Un teatro gremito, a parte qualche sparuta defezione durante l’intervallo, ed entusiasta ha decretato un successo memorabile all’esecuzione con lunghi convinti applausi e autentiche ovazioni per Fagioli e Ležneva.
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