Nikolaj Leskov

Lady Macbeth del distretto di Mcensk

foto © Brescia e Amisano

Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Šostakovič e il coraggio di un’apertura fuori dal coro

Lady Macbeth del distretto di Mcensk inaugura la Scala con un trionfo: Chailly dirige con lucidità e passione la partitura scandalosa di Šostakovič, sostenuto da una Jakubiak intensa e drammatica. La regia di Barkhatov, ambientata in un ristorante staliniano anni ’50, evita lo scandalo ma non la forza tragica. Un’apertura coraggiosa e simbolica, tra arte e provocazione.

Era una prima attesa con un misto di curiosità e apprensione, quella della Scala: niente Verdi, niente Puccini — ma un russo. E che russo! Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, il genio ribelle del Novecento, torna al Piermarini con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, la stessa che nel 1934 infiammò pubblico e critica quale espressione di una rivolta antiborghese: una donna agiata prende coscien­za della società zarista e con un servo uccide i suoi padroni.

Ma alla ripresa due anni dopo aveva suscitato l’ira di Stalin che abbandonò la sala durante una sua rappresentazione e in seguito proibì l’opera in quanto «inadatta al popolo sovietico […] caotica, apolitica […] atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La scabrosità del soggetto turbava i principi su cui si fondava la società sovietica ipotizzata dal suo dittatore e da allora iniziò l’ostracismo della musica del compositore. Solo nel 1962 Šostakovič ne presentò un’edizione revisionata col titolo Katerina Izmailova – un titolo più indicato poiché la protagonista non ha l’iniziativa criminale del personaggio di Shakespeare – ma dopo la sua morte la versione più eseguita è quella originale. Cosa che avviene anche per l’apertura della stagione del tempio milanese della lirica.

E scandalosa, ancora oggi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk lo è. Una donna di provincia, Ekaterina, soffocata dall’ozio e dalla noia, scopre nella passione l’unica via di fuga: ama, uccide, si ribella a una società patriarcale e bigotta. Šostakovič la dipinge con furia e compassione, trasformando il delitto in un urlo d’amore disperato. E pensare che Šostakovič aveva attenuato la brutalità della novella di Nikolaj Leskov, scritta nel 1865, che denunciava l’arretratezza e la barbarie di una Russia arcaica e contadina impregnata di religiosità superstiziosa. In musica la vicenda diventa invece un atto di rivolta individuale. Ekaterina è una protofemminista che paga con la rovina la propria libertà: il suo “peccato” è amare troppo.

Ma se la vicenda scandalizza, la musica non è da meno. I tromboni, con spudorata evidenza, sottolineano gli amplessi dei due amanti; valzerini deformati accompagnano momenti di sarcasmo crudele; colpi rabbiosi marcano le frustate inflitte all’amante. L’ironia è feroce, la sensualità mai compiacente. È un linguaggio orchestrale che aggredisce, disturba, ma anche commuove per la sua sincerità tragica.

E se non bastasse l’audacia della partitura, anche la regia prometteva scintille. A firmarla è un altro russo, Vasilij Barkhatov, già noto a Napoli per una Turandot turbolenta. Eppure lo scandalo non è arrivato: la serata si è conclusa tra ovazioni fragorose, trionfali per musica e regia.

Alla sua tredicesima inaugurazione di Sant’Ambrogio, Riccardo Chailly, direttore musicale dal 2015, aggiunge un altro tassello alla sua galleria di inaugurazioni — sette Verdi, tre Puccini, un Giordano e due russi, dopo il Boris Godunov di Musorgskij. Con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Chailly compie una scelta di coraggio e di coerenza: dirige un’opera provocatoria ma piena di dolente umanità, la sua bacchetta lima le asperità senza smussarne la potenza. Gli interludi orchestrali diventano momenti di puro lirismo, con archi luminosi che spalancano abissi di doloroso fatalismo. L’orchestra della Scala risponde con una lucidità tagliente: gli ottoni travolgono, le percussioni esplodono, gli archi gridano, ma nei rari momenti di quiete il suono si fa trasparente, sospeso, come se la violenza stessa generasse la nostalgia di un’altra vita.

C’è anche un gusto di humour nero, à la Šostakovič, che Chailly esalta con eleganza perfida: quando la bara di Boris viene salutata, i fiati — disposti sul mezzanino del ristorante — sembrano formare una banda dell’Esercito della Salvezza che invece di inni religiosi scatenano una furia sonora quasi blasfema. È un crescendo di disperazione che non concede tregua: la musica diventa ossessione, l’angoscia si fa claustrofobica, fino al finale glaciale, quando il coro intona il lamento dei deportati sulle cupe note degli archi gravi: «Eh, voi, steppe sconfinate… giorni e notti senza fine… i nostri pensieri sono tristi e i gendarmi senza cuore!».

Sul palcoscenico, Ekaterina trova in Sara Jakubiak una protagonista memorabile. Il soprano americano di origini polacche domina una parte vocalmente improba — salti d’ottava, puntature al si bemolle, presenza scenica ininterrotta — e disegna un personaggio lacerato tra desiderio e colpa, forza e fragilità. La sua Ekaterina non è una vittima né un mostro, ma una donna che arde d’amore e si consuma nella ricerca di libertà, consapevole che la sua emancipazione non può che finire in distruzione. Il pubblico la premia con applausi convinti, conquistato da un carisma che unisce sensualità e tragedia.

Accanto a lei, Alexander Roslavets dà a Boris Izmajlov — il suocero bigotto e lussurioso — un misto di brutalità e rotondità vocale; Najmiddin Maylyanov (Sergej) convince meno per proiezione, ma compensa con presenza fisica; Evgenij Akimov è l’inetto marito Zinovij, mentre Ekaterina Sannikova è una dolente Aksin’ja, vittima della violenza maschile. Elena Maximova (Sonetka) brilla per sensualità velenosa, e Oleg Budaratskij delinea un capo della polizia annoiato e grottesco. Spiccano le figure di contorno: Valerij Gilmanov, pope caricaturale e alcolico, che benedice il cadavere di Boris con un sermone da cabaret grottesco; Alexander Kravets, contadino ubriaco che canta all’ebrezza della vodka; e Goderedzi Janelidze, il vecchio forzato dell’ultimo atto, che intona con tono dolente la condizione senza scampo dei deportati. Eccellente come sempre il Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, capace di precisione, forza e intensità teatrale e a suo agio nella lingua russa.

La regia di Vasilij Barkhatov sposta l’azione dal villaggio ottocentesco di Mcensk (a circa 280 chilometri a sud-ovest di Mosca) a un ristorante negli anni ’50 della capitale, nell’ultima fase dello stalinismo. Il suo dispositivo scenico — firmato da Zinovij Margolin — alterna la grande sala da pranzo a un retro di cucina al piano superiore e una cantina in basso. L’azione si svolge come un film noir: i protagonisti, interrogati dalla polizia, rivivono in playback i propri crimini. Un espediente cinematografico che smorza la carnalità della celebre scena d’amore: Katerina e Sergei, completamente vestiti, ricostruiscono la scena mimando i movimenti mentre gli agenti scattano foto. Lo scoglio del pornografico e del voyerismo è evitato rendendo la scena ancora più inquietante, quasi clinica.

Barkhatov dosa abilità tecnica e senso dello spettacolo. L’irruzione di un camion che sfonda la vetrata del ristorante segna il passaggio all’ultimo atto: la deportazione in Siberia. E qui il regista si prende una libertà rispetto al libretto: invece di annegare, le due donne si trasformano in torce umane perché Ekaterina appicca il fuoco a sé stessa e alla rivale. Una soluzione d’effetto, accolta con entusiasmo dal pubblico.

Dopo le provocazioni napoletane, il regista russo al suo debutto alla Scala sembra abbia scelto una via più misurata che non ha turbato neppure il loggione – vabbè, non era Verdi… Niente scandalo gratuito, ma un sottile discorso sul protofemminismo di Katerina, letta come vittima di un mondo chiuso e corrotto. Tuttavia, la regia non è priva di difetti: troppi personaggi in scena, troppe controscene che intasano lo spazio e attenuano il senso di isolamento e noia esistenziale della protagonista. Il ristorante déco, elegante e affollato, riduce l’asfissia che dovrebbe dominare la storia. È una regia intelligente, astuta, visivamente accattivante, ma più “furba” che rivelatrice: non aggiunge molto alla nostra comprensione di Šostakovič, ma accompagna con mestiere l’evento mondano per eccellenza.

Ma la scelta di Lady Macbeth del distretto di Mcensk come titolo d’apertura ha un valore che va oltre la cronaca. In un momento in cui l’opera tende a rassicurare più che a provocare, la Scala rivendica con forza il proprio ruolo di teatro d’arte e di pensiero. Portare in scena Šostakovič significa sfidare le convenzioni, ricordare che l’opera non nasce per decorare, ma per turbare, per scuotere la coscienza, per porre domande scomode. È un atto politico e culturale, un gesto di libertà. E in tempi in cui si parla — con toni inquietanti — di un possibile “codice degli spettacoli” con cui si vorrebbe limitare la rappresentazione di opere straniere, la serata assume un valore simbolico: se mai quella norma dovesse vedere la luce, questa Lady Macbeth potrebbe essere l’ultima inaugurazione scaligera affidata a un autore russo. Chissà che cosa avrebbe da dire a questo proposito l’attuale ministro della cultura presente nel palco reale.

Lady Macbeth of Mtsensk


Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth of Mtsensk

★★★★★

Birmingham, Tower Ballroom, 13 marzo 2019

(diretta streaming)

Potente lettura di Vick

«Chi avrebbe mai immaginato che la squallida tragedia di adulterio, doppio omicidio e tradimento della Lady Macbeth del distretto di Mcensk potesse essere messa in scena in modo così dilettevole? E chi avrebbe potuto immaginare di mettere in scena quest’opera sardonica e ringhiosa con le sue monumentali esigenze orchestrali in una sala da ballo in disuso e con un cast che comprende decine di dilettanti?» si chiedeva il corrispondente di “The Times” all’indomani della prima di questo spettacolo. La risposta ovviamente è: Graham Vick, che quasi ogni anno allestisce un’opera lirica nei posti più inusuali. Nel 2019 tocca al capolavoro di Šostakovič essere rappresentato in una discoteca di un quartiere periferico di Birmingham, la Tower Ballroom, ovviamente in inglese (nella traduzione di David Pountney), con un cast che mescola ottimi professionisti con parecchi dilettanti e la gloriosa Birmingham Symphony Orchestra rimpolpata dalla banda di ottoni degli studenti del locale Conservatorio, che vedremo in scena travestiti da spose sanguinarie o in marcia dietro un funerale. Il coro è reclutato tra i cittadini di Birmingham ma l’effetto ottenuto è eccellente, che siano topi, operai, poliziotti, ospiti ubriachi o prigionieri.

La scena è disegnata dal Block9, collaboratori di Bansky che ricostruiscono con pochi ironici elementi lo squallido ambiente: il frigorifero che troneggia nella cucina è pieno di confezioni di funghi e funghi sono stampati sulla vestaglia di Katerina; un congelatore sarà la tomba del secondo assassinato; la santa icona è una madonna col viso di Margaret Thatcher. I topi menzionati dal vecchio Boris danzano al ritmo indiavolato del secondo interludio mentre viene portato trionfalmente al centro della “scena” il letto su cui Katerina canta il suo lascivo e accorato lamento («Nessuno mi stordirà con le sue carezze appassionate. I miei giorni trascorrono senza gioia») prima che vi venga platealmente consumato l’adulterio che la musica di Šostakovič fa di tutto per sottolineare e che mai come qui è esplicita.

A parte una pedana principale, tutto si svolge su carrelli con ruote che si muovono tra gli spettatori in piedi mescolati con cantanti, coristi e figuranti. Ancor più che per gli altri allestimenti, questo si adatta al tono del lavoro di Šostakovič e il finale acquista una forza espressiva fortissima: Katerina e Sonetka “annegano” in un fiume di topi che lasciano la scena formando un corteo funebre seguito dalla banda. E poi è silenzio, solo interrotto dagli applausi e dall’entusiasmo dei partecipanti.

Dai video appesi il direttore Alpesh Chauhan concerta efficacemente i cantanti che hanno in Chrystal E. Williams (intensa Katerina), Brenden Gunnell (lo sfacciato Sergej) ed Eric Greene (Boris) gli autorevoli interpreti principali.

Lady Macbeth del distretto di Mcensk

Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk

Parigi, Opéra Bastille, 16 aprile 2019

★★★★★

(live streaming)

Realismo e cinismo nella messa in scena più convincente di Warlikowski

«Alcune scene possono urtare la sensibilità dei più giovani e di alcune persone» si premura di avvisare l’Opéra National per il nuovo spettacolo. Va infatti in scena Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovič, l’opera che aveva scandalizzato Stalin il quale l’aveva bandita dai teatri sovietici – assieme al suo autore.

A dieci anni dall’ultima produzione alla Bastille, allora affidata a Martin Kušej, questa di Krzysztof Warlikowski non fa nulla per mitigare l’impatto choccante dell’opera, anzi preme sul pedale della violenza e della sessualità più sfrenata, e quello che era sembrato eccessivo per il suo Don Giovanni, qui è accettabile, anzi addirittura prevedibile, come la stanza di Katerina L’vovna che sembra una gabbia con le sbarre e che nell’ultimo atto diventerà con efficacia il vagone che trasporta i deportati.

Lo spettacolo inizia con un video digitale (bruttino e neanche tanto necessario) di due donne che annegano, come avverrà nel finale della vicenda. La scenografia della fidata Maƚgorzata Szczęśniak – il reparto macelleria di un mattatoio con le pareti tappezzate di lucide piastrelle – ricorda quella utilizzata da Michieletto per il suo Il dissoluto punito, ma ancor di più, per la presenza delle carcasse di animali macellati, alla Lady Macbeth di dieci anni fa del regista cileno Marcelo Lombardero, spettacolo che arrivò anche in Polonia, la patria di Warlikowski, il quale ha però negato di essere a conoscenza di quella messa in scena e ha rivendicato la genuinità della sua. Sia come sia, la sua regia è perfettamente coerente con la musica di Šostakovič così imbarazzantemente evidente. Questa volta l’esplicita regia non aggiunge nulla a quanto già c’è nella musica. Stalin aveva ragione!

La lettura di Warlikowski è dominata dalla sessualità: la cuoca Aksin’ja qui è la giovane mantenuta del vecchio Boris e viene violentata da Sergej e dai contadini/macellai e la scena dell’amplesso di Katerina con Sergej non avviene al buio, come si è spesso visto. Mentre la regia video indugia sul gioco d’ombre che si stagliano sulla parete, in scena tutto avviene in maniera piuttosto esplicita. Anche il lamento di Boris all’inizio del secondo atto, «Ah, cosa vuol dire esser vecchi!», si riferisce all’impotenza sessuale più che alla perdita del sonno e Aksin’ja si consola con un churro ripieno di cioccolato. Warlikowski inserisce nella sua drammaturgia anche gli interludi tra i vari quadri e memorabile è la veglia funebre di Boris durante quello che precede il quadro quinto con la banda di ottoni nei palchi. La stessa banda aveva accompagnato grottescamente con una marcetta l’ingresso delle carcasse appese ai ganci. Magnifica anche la triviale festa di matrimonio con il suo grottesco cabaret, tutto sempre perfettamente in linea con la musica di Šostakovič. Il delitto e castigo dei due amanti termina in un’atmosfera di abbrutimento che richiama i gulag staliniani, forse l’unico momento di denuncia politica dello spettacolo di Warlikowski che comunque evita una lettura manichea: qui tutti dimostrano un lato sordido, nessuno è innocente.

L’implacabile corsa verso l’inferno ingaggiata dal compositore e dal regista trova in Ingo Metzmacher un interprete che non potrebbe essere più valido: la partitura lussureggiante riverbera di tutti i colori possibili sotto la sua bacchetta e sembra essere restituita per la prima volta. La tensione si allenta solo a momenti, quando l’orchestra assume toni lugubri e dolenti che contrastano con la triviale e bandistica presenza degli ottoni. Dopo Il naso londinese, Metzmacher si conferma un formidabile interprete della musica di Šostakovič.

Aušrinė Stundytė incarna perfettamente Katerina sia nell’impegno fisico che vocale. Non c’è difficoltà che il soprano lituano non affronti e risolva con efficacia. Il timbro omogeneo nei vari registri, i colori ora accesi ora lividi, gli acuti lancinanti, tutto determina a definire un personaggio ai limiti della follia e indimenticabile. Pavel Černoch, seducente cowboy dagli occhi azzurri, questa volta è del tutto convincente nonostante i noti limiti della sua prestazione vocale: il colore chiaro e il tono scanzonato sono adatti al personaggio di Sergej. Dmitrij Ul’ianov sorprende per l’inaspettata profondità e il lirismo, malgrado il grottesco della parte di Boris. Sorprendenti anche i ruoli minori: Sofija Petrović è una seducente ma intensa Aksin’ja, personaggio che da vittima diventa carnefice. Krzysztof Bączyk è uno spassoso Pope brillo e Wolfgang Ablinger Sperrhacke è il vecchio contadino, qui macellaio che accarezza voluttuosamente le carni dei quarti di maiale. Prende troppo sul serio la precaria tonalità con un’intonazione incerta lo Zinovij di John Daszak. Di lusso Alexander Tsymbalyuk, capo polizia e vecchio ergastolano. Smagliante il coro diretto da José Luis Basso.

Questa Lady Macbeth è di certo la messa in scena più convincente del regista polacco e uno degli spettacoli più coinvolgenti della pur ricchissima stagione lirica parigina.

Lady Macbeth del distretto di Mcensk

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★★★★☆

Orgasmo e omicidio…

Orgasmo e omicidio: due poli che, secondo Martin Kušej, definiscono l’orizzonte drammatico di Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Se a questi si aggiunge la noia esistenziale della protagonista, ecco delineato l’arco tragico di Katerina Izmailova, figura sospesa tra desiderio, violenza e disperazione.

Su libretto di Aleksandr Preis e del compositore stesso, (Леди Макбет Мценского уезда, Ledi Makbet Mcenskogo uezda), l’opera trae origine dall’omonimo racconto di Nikolaj Leskov del 1865. Alla sua prima rappresentazione, nel 1934, il lavoro di Dmitrij Šostakovič conobbe un successo clamoroso: il pubblico e la critica lo accolsero come un capolavoro di modernità, e nel giro di pochi mesi si contarono tre diverse produzioni nei teatri di Mosca. L’opera venne letta come un inno alla ribellione antiborghese: la protagonista, moglie annoiata di un mercante di provincia, si emancipa dall’oppressione domestica e sociale, fino a sovvertire le gerarchie patriarcali attraverso il delitto.

Atto I. Quadro I. Vengono sottolineate le umiliazioni alle quali Caterina è sottoposta da parte del suocero, che non solo la importuna e vorrebbe possederla, ma le rinfaccia di non riuscire ad avere figli. Come se non bastasse, poiché il marito di Caterina, Sinovio, dovrà allontanarsi per alcuni giorni, Boris fa giurare, davanti a tutta la servitù, che rimarrà fedele al consorte lontano. La cuoca Aksinia, allora, interviene e le fa notare un bel garzone assunto da poco. Quadro II. Alcuni lavoranti insidiano e maltrattano la deforme Aksinia, aizzati proprio da Sergej. Caterina interviene in difesa della donna, ma pur essendo provocata da Sergej, ne rimane attratta. Quadro III. Caterina si dispera per la sua atroce solitudine. Sergej si introduce nella sua camera da letto e seduce Caterina.
Atto II. Quadro I. Boris è eccitato e tormentato dalla presenza di Caterina, al punto da decidere di assolvere ai doveri coniugali in vece del figlio. Mentre sta progettando tali lascivie, gli cade addosso, dalla finestra della camera di Caterina, Sergej. Boris lo riduce in fin di vita a frustate di fronte agli occhi di tutti i servitori e di Caterina stessa: quindi Sergej viene rinchiuso in cantina. Caterina avvelena Boris mettendo del veleno per topi nel suo piatto; dopo avergli sottratto la chiave della cantina dove è rinchiuso l’amante, assiste alle funzioni del pope, chiamato per assistere il moribondo. Quadro II. Caterina è a letto con Sergej, tormentata dai rimorsi: arriva il marito, che viene ucciso dai due e nascosto in cantina.
Atto III. Quadro I. Caterina e Sergej si sposano, mentre il marito è dato per disperso. Caterina è ossessionata da ciò che ha fatto e guarda terrorizzata verso la cantina. Un servo ubriaco, mentre gli altri sono in chiesa per il matrimonio, credendo che le occhiate di Caterina nascondano la presenza di un buon vino, sfonda la porta della cantina, trova il cadavere di Sinovio e chiama la polizia. Quadro II. Nel distretto di polizia i gendarmi si annoiano e, per passare il tempo, si divertono a creare problemi a qualche intellettuale, ad esempio accusando di nichilismo un innocente insegnante. Quadro III. Caterina, alla fine della cerimonia, si accorge che la cantina è stata aperta ma è troppo tardi per fuggire.
Atto IV. Caterina e Sergej si trovano in un accampamento, di notte, mentre sono in viaggio verso la Siberia perché condannati a lavori forzati. Caterina corrompe una guardia perché le permetta di passare la notte con Sergej, ma lui la considera ormai solo una fonte di disgrazie ed è invece attratto da un’altra detenuta più giovane, Sonetka, alla quale regala le calze di lana che Caterina gli ha dato. Tutti si prendono gioco di lei: Caterina, disperata, si getta nel fiume trascinando con sé la rivale. Le due donne annegano, mentre i deportati riprendono la marcia.

Ma questa libertà di sguardo – e soprattutto la sua forma musicale – risultarono insopportabili al potere sovietico. Stalin, presente a una rappresentazione, lasciò la sala disgustato. Poco dopo la Pravda, organo del Partito, pubblicò l’ormai celebre articolo “Caos anziché musica”, in cui l’opera veniva condannata come «inadatta al popolo sovietico: caotica, apolitica, atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La sensualità esplicita, la brutalità dei gesti e la rappresentazione di una donna che si ribella alla morale dominante costituivano una minaccia per l’ideologia staliniana, fondata su un moralismo di Stato e su una visione monolitica dell’arte come strumento pedagogico.

Da quel momento iniziò per Šostakovič un lungo periodo di sospetto e censura: Lady Macbeth del distretto di Mcensk scomparve dai teatri per oltre venticinque anni. Solo nel 1962 il compositore poté ripresentarla in una versione profondamente rielaborata, con il nuovo titolo Katerina Izmailova. Questa seconda versione, più temperata nei toni erotici e più allineata alla prudenza dell’epoca poststaliniana, rifletteva un diverso equilibrio tra dramma individuale e struttura musicale. Il titolo stesso, più neutro, sottraeva la protagonista al paragone con la Lady Macbeth shakespeariana, segno di una volontà di umanizzare il personaggio e ridurne l’aura di colpevolezza “demoniaca”.

Tuttavia, dopo la morte del compositore, la versione del 1934 è tornata a imporsi come quella artisticamente più autentica: una partitura di feroce potenza espressiva, dove il linguaggio di Šostakovič fonde lirismo e sarcasmo, realismo e grottesco, eros e violenza, sino a delineare un dramma musicale di impressionante modernità.

Per una lettura più approfondita dell’opera, del suo complesso rapporto con la censura sovietica e delle affinità con la Káťa Kabanová di Janáček – altra eroina travolta dal conflitto tra passione e oppressione sociale – resta imprescindibile il saggio Šostakovič di Franco Pulcini, edito da EDT, che illumina con rara finezza i molteplici livelli di significato di questa tragedia femminile e musicale.

Questa produzione del 2006 al Nederlandse Opera di Amsterdam si basa dunque sulla versione del ’34 e si avvale della messa in scena del regista Martin Kušej che assieme alla scenografia di Martin Zehetgruber am­bienta la vicenda in epoca moderna e in due spazi distinti: una specie di gabbbia di vetro per l’annoiata Katerina e la sua collezione di scarpe e l’esterno sporco di terra in cui avvengono i misfatti e hanno luogo le scene corali. Per l’ultimo atto, nel carcere siberiano, l’ambiente è diverso, ma an­cora più angosciante.

La famosa scena dell’amplesso quasi animalesco è risolta con efficacia da un’illuminazione stroboscopica che giustamente non contraddice e non aggiunge nulla a quello che la musica qui (da alcuni definita “pornofonia”) suggerisce molto chiaramente.

L’impervia partitura trova nella direzione del lèttone Mariss Jansons un ottimo interprete soprattutto negli splendidi intermezzi orchestrali che, come gli interludi del Peter Grimes di Britten, hanno trovato un’autonoma vita concertistica per la bellezza e la forza con cui dipingono i mo­menti lirici o satirici della storia.

Interprete intensa del titolo è Eva-Maria Wetsbroek che ha voce e fisico adatti alla parte della sensuale e trascurata moglie che quando incon­tra il ceffo seduttore di Sergej (un Christopher Ventris dallo sguardo am­maliatore) gli si consegna anima e corpo – soprattutto il secondo. Ottimi i due interpreti principali, ma eccellenti anche gli altri, tra cui il bieco e volgare Boris, il suocero, che ha la potente voce di Vladimir Vaneev.

Due dischi bly-ray per un’immagine e un suono perfetti e tra gli extra un interessante documentario.