Capriccio

714JOgzDhEL._SL1024_

★★★★★

Prima la musica o le parole?

La quindicesima e ultima opera di Strauss ebbe la prima esecuzione a Monaco il 28 ottobre 1942. In quello stesso giorno giungeva ad Auschwitz il primo trasporto di Ebrei. Nel loro ovattato teatro gli spettatori di Monaco potevano dimenticare per due ore le angosce che li attendevano fuori uscendo, quella fredda sera, nella tremenda realtà del loro terzo anno di guerra. Ne dovranno affrontare altri tre prima della disfatta.

“Conversazione in musica in un atto” è il sottotitolo di questa particolare opera in cui si discetta di chi sia la supremazia:  delle parole o della musica? Una disputa che aveva sempre stimolato il mondo artistico dell’opera in musica. Già Salieri con  Prima la musica poi le parole su libretto del Casti aveva affrontato l’argomento nel 1786.

Al castello della Contessa Madeleine, si sta svolgendo la prova di un sestetto per archi di Flamand, di nuova composizione. Olivier e Flamand discutono sui meriti della musica e dei versi. L’impresario La Roche, appisolato, si ridesta, e dice ai due che gli impresari sono necessari per portare in vita i loro lavori. Olivier ha scritto un nuovo dramma per celebrare, il giorno seguente, il compleanno della Contessa. Tutti si avviano alle prove. La Contessa e suo fratello, il Conte, discutono dei rispettivi corteggiatori. Il Conte prende in giro la sorella, paragonando l’amore di lei per la musica alle attenzioni rivoltele da Flamand, mentre la Contessa ribatte che la passione del fratello per la poesia non è estranea all’attrazione che lui prova per l’attrice Clairon. Il Conte è maggiormente incline agli amori brevi, mentre la Contessa è in cerca dell’amore eterno, e non sa scegliere tra Flamand e Olivier. Giunge Clairon, e insieme al Conte legge una scena dal dramma di Olivier, che culmina in un sonetto d’amore. Poi Clairon e il Conte partono per le prove in teatro. Olivier dice alla Contessa che il sonetto lo ha pensato per lei. Flamand, però, lo ha messo in musica e lo canta, facendo inorridire Olivier per come è stato “snaturato” il suo testo. Viene chiesto a Olivier di apportare tagli al suo dramma. Flamand dichiara il proprio amore per la Contessa. Ella gli chiede di incontrarsi, il mattino seguente alle undici, nella biblioteca, dove gli renderà nota la sua scelta. Viene servita della cioccolata, e gli ospiti sono intrattenuti da cantanti e ballerini. La Roche descrive il ricevimento di compleanno, diviso in due parti: “I natali di Pallade Atena” saranno seguiti da “La fine di Cartagine”. Gli invitati lo canzonano, ma La Roche ribadisce la sua fede nel teatro. Dopo che La Roche ha sfidato Flamand e Olivier a creare nuovi capolavori, la Contessa decide che tutti debbano collaborare alla realizzazione di un’opera. Il Conte propone il soggetto: gli stessi eventi appena vissuti. Tutti partono. Nella scena finale, al chiaro di luna, la Contessa apprende dal maggiordomo che l’indomani Olivier ha intenzione di venire in biblioteca, alla stessa ora in cui già è atteso Flamand, per salutarla e sapere quale decisione ha preso. Irrimediabilmente incerta, la Contessa celebra nel suo canto l’inseparabilità di parole e musica, e, con appassionata insistenza, chiede lumi per la decisione alla sua stessa immagine riflessa in uno specchio. Il maggiordomo annuncia che la cena è servita. La Contessa, sontuosamente vestita, esce per recarsi a cena da sola.

La vicenda fu suggerita da Stefan Zweig che non poté però essere il librettista in quanto ebreo e furono Clemens Krauss e lo stesso compositore a completare il testo ambientando la storia nel 1775 (si parla infatti di Gluck, di Rameau, di Voltaire, di Metastasio, di Corneille).

Robert Carsen decide di non ambientare Capriccio nell’ipotetico castello settecentesco previsto dal libretto, ma lo sposta al 1942, in un periodo di grande tensione storica. L’idea è che l’azione si svolga non già in una villa dell’aristocrazia rurale, bensì in un teatro parigino.  In questo modo, l’opera diventa un autentico “teatro dentro il teatro”: il pubblico assiste a una rappresentazione nella quale i personaggi discutono di musica e parole, e allo stesso tempo vediamo la preparazione, l’allestimento, l’assemblaggio del palco. È come se il sipario non si alzasse mai del tutto, ma lo spettatore fosse invitato a riflettere sul significato dell’opera stessa.

Come dice lo stesso Carsen, in questa versione lui non è né il compositore né il librettista, ma è “il regista” — dunque il terzo autore. Attraverso la sua visione, il confronto tra musica e parola (che è il cuore drammaturgico di Capriccio) si trasforma: non è più un semplice dibattito interno ai personaggi, ma una riflessione sul senso dell’opera lirica nella modernità.

La scenografia ricostruisce le sale e lo spirito del Palais Garnier di Parigi: le colonne dorate, l’eleganza decadente, gli arredi evocativi creano un’atmosfera raffinata e nostalgica. All’inizio dell’opera, il sipario si apre su un palco “vuoto”: musicisti in abiti d’epoca anni ’40 che sistemano sedie e leggii, come per una prova o una recita; la contessa siede in platea a studiare la partitura. Un effetto quasi documentaristico, che introduce lo spettatore al “dietro le quinte”. Durante l’azione, gli interni “salotto aristocratico” si alternano a quello che sembra essere un foyer o una sala prove del teatro stesso: grandi specchi, lampadari, boiserie ricche, ma sempre filtrati da uno sguardo contemporaneo. Nel finale, appena dopo l’ultimo monologo della Contessa, la scenografia si dissolve: le quinte si ritirano e resta sul palco solo lo scheletro nudo del palcoscenico — un gesto potentissimo, che rivela tutta l’artificialità dello spettacolo, lasciando lo spettatore sospeso fra finzione e realtà.

La produzione di Carsen è “praticamente perfetta”: elegante, raffinata, intellettualmente stimolante, capace di dare nuova vita a un’opera che alcuni considerano fragile. La quintessenza di ciò che un regista contemporaneo può fare: dialogare con la partitura e con il testo senza tradirli, inserendoli nel proprio tempo e rendendoli vivi oggi. La sua messa in scena è entrata stabilmente nel repertorio dell’Opéra National de Paris: nonostante sia nata nel 2004, viene ancora ripresa e apprezzata: un segno di quanto la lettura di Carsen sia considerata significativa e durevole.

Renée Fleming delinea una Contessa di raffinata luminosità, capace di far coincidere il fascino aristocratico del personaggio con una vulnerabilità tutta moderna. La voce, pur non più nella sua piena ampiezza giovanile, conserva una morbidezza sontuosa, quel velluto inconfondibile che le permette di dipingere frasi di una tenerezza quasi cameristica. Fleming non affronta la parte come un mero esercizio di stile: ne scandaglia invece il lato intimo, sospeso tra malinconia e civetteria, tra lucidità intellettuale e un sottile smarrimento affettivo. Il suo fraseggio, sempre controllato, talvolta indugia in un portamento ampio, quasi pensoso, che ben si accorda con la concezione registica di Robert Carsen, tutta improntata a un metateatro elegante e malinconico. Se qualche critica è stata rivolta alla sua dizione tedesca non sempre incisiva, Fleming compensa con una presenza scenica magnetica e una qualità di ascolto rara: sembra davvero reagire alla musica e alla parola con un pensiero vivo, istante per istante. Il monologo finale è il punto più alto: un flusso di canto pudico e intensissimo, dove l’interprete sospende il tempo più che risolvere il dilemma dell’opera. Ne emerge una Contessa profondamente umana, meno diva e più donna: ed è forse questa la sua forza maggiore.

Il cast che la affianca si distingue per omogeneità stilistica e per una cura del fraseggio che raramente si ascolta in quest’opera tanto elusiva. Roberth Dean Smith offre un Flamand lirico e partecipe: voce chiara, talvolta leggermente tesa negli acuti, ma sempre guidata da un gusto musicale impeccabile. Il suo poeta non ha il cliché dell’ispirato febbrile, bensì una nobiltà spontanea, fatta di calore e misura. In perfetto contrappunto, Gerald Finley dà vita a un Olivier di grande intelligenza teatrale: il timbro brunito, il controllo della parola e una presenza scenica autorevole rendono credibile ogni inflessione del suo personaggio, tanto nel gioco seduttivo quanto nel risentimento più segreto.

Magnifica la coppia dei “professionisti del teatro”: Franz Hawlata come La Roche è un trionfo di umanità burbera e autoironica, con un monologo splendidamente scolpito, mentre Anne Sofie von Otter (Clairon) porta eleganza, sfumature e un’irresistibile aura di attrice consumata. Completano il cast comprimari di lusso, tutti perfettamente inseriti nel tessuto vocale e scenico di Carsen.

Alla guida dell’orchestra del teatro Ulf Schirmer dirige Capriccio con una sensibilità che privilegia la trasparenza e l’eleganza del dettaglio più che l’opulenza straussiana. La sua lettura non cerca di far esplodere l’orchestra in masse sonore, ma la modella come un raffinato strumento da camera, perfettamente coerente con la dimensione conversativa dell’opera. Le dinamiche sono sorvegliatissime, spesso trattenute, così da non soffocare la scena: l’azione musicale respira, sostiene il canto e valorizza le mille sfumature psicologiche dei personaggi. Schirmer mostra un controllo granitico dell’equilibrio, mantenendo sempre in primo piano la parola senza sacrificare la ricchezza armonica. I delicati arabeschi degli archi, gli interventi quasi cameristici dei fiati e la seta degli impasti orchestrali emergono con una nitidezza esemplare. Forse a qualcuno potrà mancare una dose maggiore di opulenza, soprattutto nei momenti in cui Strauss sfiora la grandiosità sinfonica; ma la scelta di Schirmer è coerente con l’impianto registico di Carsen, anch’esso votato alla finezza più che al monumento. Il risultato è una direzione di classe, sobria ma profondamente musicale, in cui ogni gesto pare finalizzato a illuminare il testo e il gioco dialogico dell’opera. Una lettura che non lascia abbagli, ma una lunga, elegante risonanza interiore.

La registrazione è un mirabile montaggio tra scene riprese dal vivo con orchestra, pubblico e scene girate nel teatro vuoto usato come set televisivo dal regista François Roussillon. Lo spettacolo visto nel 2007 a Parigi, anche se con altri interpreti (1), è stato un avvenimento personalmente indimenticabile, ma questa registrazione ha un che di magico e fa di questo un DVD imperdibile. Due tracce audio, due dischi, nessun extra e sottotitoli anche in italiano, dove Corneille diventa Cornelio.

(1) Solveig Kringelborn (Contessa), Olaf Bär (Conte), Charles Workman (Flamand), Tassis Christoyannis (Olivier), Jan-Hendrik Rootering (La Roche), Doris Soffel (l’Attrice), Robert Tear (Taupe).

  • Capriccio, Thielemann/Herzog, Dresda, 22 maggio 2021