Guillaume Tell

   

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

Milano, Teatro alla Scala, 6 aprile 2024

(diretta streaming LaScalaTv)

Per la prima volta in francese e completo il Guillaume Tell alla Scala

Già solo l’esecuzione della sinfonia varrebbe il prezzo del biglietto: dalle prime note del violoncello, al crescendo della tempesta che ti fa sobbalzare sulla poltrona al trascinante galoppo finale, tutto nella direzione di Michele Mariotti è di una qualità talmente elevata da togliere il fiato. Il pubblico risponde con un’ovazione tale che Mariotti riprende visibilmente commosso l’inizio di questo meraviglioso, grandioso ultimo capolavoro con cui Rossini abbraccia in pieno il romanticismo.

Sembra incredibile, ma questo è il primo Guillaume Tell presentato alla Scala nella versione originale francese e pressoché integralmente. Questa volta si è ascoltato probabilmente per la prima volta il terzetto del quarto atto tra Mathilde, Hedwige e Jemmy, «Je rends à votre amour un fils digne de vous», un terzetto strategicamente essenziale nella vicenda praticamente sempre tagliato. Se non fosse per la messa in scena, questo spettacolo sarebbe da cinque meritatissime stelle: dell’esecuzione musicale di Mariotti non si sa se lodare maggiormente la tensione narrativa che fa passare in un amen le quattro ore di musica, la solennità dell’andamento musicale, la teatralità del fraseggio e i colori di una natura sempre evocata ma totalmente assente dalla messa in scena. E che meraviglia i cori dei pastori! Un’esecuzione non adatta ai deboli di cuore per l’intensità drammatica dei momenti chiave ottenuta senza eccedere nel volume sonoro o nella velocità, ma con la pienezza del suono strumentale a contrasto con gli ineffabili momenti lirici. Gloriosi sono i momenti solistici in cui gli strumenti dell’orchestra hanno modo di far rifulgere la loro arte, primo fra tutti il violoncello di Massimo Polidori. La concertazione delle voci è come sempre mirabile e con la bacchetta di Mariotti il finale del Tell si conferma come il più bel finale d’opera di tutti i tempi.

Se Michele Mariotti aveva diretto il Guillaume Tell a Pesaro undici anni fa – allora con esiti eccellenti, ma qui ha superato abbondantemente sé stesso grazie anche a un’orchestra di livello più elevato – un altro Michele, Pertusi, aveva debuttato nella parte del titolo ben ventinove anni fa, ma ora continua a cantare con la stessa facilità, esibendo proiezione e espressività come allora. La figura carismatica del capopolo è delineata con accenti appassionati e una resa vocale miracolosa. 

Nella temibile parte di Arnold con i suoi impervi sopracuti ha stupito per la baldanza Dmitrij Korčak, timbro luminoso e ampia emissione ma anche ripiegamento in mezze voci malinconiche e bei legati in «Asile héréditaire». Ben connotata è la psicologia del personaggio combattuto fra amor di patria e la passione per la “nemica” Mathilde, una sensibile Salome Jicia dall’emissione non sempre omogenea che dopo la bella prova di «Sombre forêt» nel prosieguo denuncia qualche stanchezza e le agilità in «Pour notre amour plus d’espérance» non risultano sempre efficacemente realizzate, ma il temperamento e la presenza scenica rendono comunque convincente il personaggio aristocratico ma attento alle sofferenze di un popolo oppresso. Catherine Trottmann e Géraldine Chauvet prestano la loro voce per Jemmy e Hedwige con buoni risultati, soprattuto la seconda. Luca Tittoto è un vocalmente valido Gesler, parte da lui frequentata spesso, così come lo è il solenne Melchtal di Evgenij Stavinskij. Dave Monaco rende in maniera accettabile la sua impegnativa aria del pescatore mentre Nahuel di Pierro e Paul Grant completano il cast con i personaggi Fürst e Leuthold. Sugli scudi la performance del coro egregiamente istruito da Alberto Malazzi.

L’idea di fondo della lettura registica di Chiara Muti è certamente condivisibile: il Guillaume Tell è lo scontro fra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, concetti che qui però vengono realizzati in modo molto semplicistico e manicheo, dove gli oppressori sono figure talmente maligne da sfiorare e spesso superare il grottesco se non il kitsch. Gesner è metà Belfagor e metà Mago Otelma in mantello rosso e accompagnato da sette fanciulle crudeli e lascive uscite da un film fantasy di serie B, ammesso che ne esistano di serie A, che nelle intenzioni della regista rappresenterebbero i sette peccati capitali. E tutti lì a cercare di capire chi è l’ira e chi l’avarizia, chi l’invidia e chi la gola, chi l’accidia e la lussuria e la superbia. Chiara Muti dichiara di essersi ispirata al film Metropolis per la sua umanità schiavizzata e abbrutita con un tablet luminoso sempre acceso la collo. Un simbolismo e una cupezza di visione difficili da sopportare per tutti i quattro atti.

Sempre presenti sono gli sgherri di Gesner con stampato in volto per tutte e cinque le ore un ghigno satanico mentre violentano, torturano e uccidono senza pietà – e senza senso del ridicolo. Nei costumi di Ursula Patzak medioevo, Ottocento e contemporaneità si mescolano allegramente – armature e mitragliatrici, cappottoni e balestre – mentre le scene di Alessandro Camera definiscono un mondo carcerario e oppresso immerso nel buio che potrebbe andare bene per il Fidelio o il Wozzeck: tutto è nero e grigio, la natura, tanto evocata nel libretto e nella musica, è del tutto assente e appare solo nel finale in forma di brutte cascate dipinte. Unico momento di apertura, ma ahimè un filino patetico, il cielo stellato durante l’aria di Mathilde. I ballabili sono resi coerentemente con le apprezzabili coreografie di Silvia Giordano che ricordano quelle della produzione di Vick del 2013 e poi di Michieletto nel 2015, quindi niente abiti tirolesi piroettanti o, peggio, pas de deux sulle punte, ma movimenti convulsi e violenti. 

Se non fosse stato alla Scala e se non fosse stata la figlia di tanto padre ma un qualche regista tedesco a mettere su questo spettacolo, ci sarebbe stata un’interrogazione parlamentare e la convocazione dell’ambasciatore di Germania. Sarebbero poi partiti dissensi ben maggiori di quelli che alla prima, dopo le ovazioni verso i cantanti ma soprattutto Mariotti, hanno accolto la regista e gli altri responsabili della parte visiva. Qualcuno dal loggione ha gridato che sarebbe stato meglio fare un’esecuzione in forma di concerto. Come dargli torto.