Mese: novembre 2021

The Goldberg Variations / Schwanengesang

Anne Teresa de Keersmaeker, The Goldberg Variations

Moncalieri, Fonderie Limone, 28 ottobre 2021

Romeo Castellucci, Schwanengesang

Torino, Teatro Astra, 31 ottobre 2021

Due donne sole in scena

La musica di Bach e quella di Schubert sono lo spunto per due spettacoli a pochi giorni di distanza a Torino. In entrambi un pianista a lato del palcoscenico sul quale una donna sola si esprime col corpo oppure con la voce.

Sulle Variazioni Goldberg BWV 988 di Johann Sebastian Bach si fonda l’intervento danzato di Anne Teresa de Keersmaeker in prima nazionale e a conclusione della rassegna TorinoDanza di quest’anno al Teatro Fonderie Limone. La scena è vuota e nera: oltre al pianoforte è presente in un angolo una specie di masso dorato mentre a destra in alto uno schermo di carta argentata stropicciata diffrange le luci di Minna Tiikkainen. Il folto cast del suo precedente approccio bachiano, i Concerti brandeburghesi del 2015, qui è ridotto ad un assolo della coreografa/danzatrice, che contrappunta con i suoi movimenti le note dell’aria e trenta variazioni eseguite con tecnica inappuntabile e grande espressività dal giovane pianista russo Pavel Kolesnikov. Talora i suoi slanci e saltelli seguono le volate degli abbellimenti, talora la Keersmaeker sottolinea con il ripiegamento del corpo i momenti di dialogo interiore delle pagine musicali. È lo stesso gioco di ripetizioni e variazioni che sta alla base della musica di Bach: un’esplorazione su una sempre mutevole forma. Fedele al suo vocabolario espressivo, la non più giovane danzatrice sembra voler affermare che per fare danza non occorre avere un corpo giovane e atletico, né fare passi acrobatici per esprimersi, ma la sua performance è pervasa da una certa aria di mestizia e dopo un po’ la monotonia dei movimenti porta a indugiare lo sguardo sulle  mani del pianista. Non essendo un esperto di danza rimando a chi meglio di me ha scritto sullo spettacolo.

Al teatro Astra invece il Festival delle Colline Torinesi continua la sua ricca programmazione con un regista che da sempre ha fatto della sua presenza una costante della rassegna mentre per quanto riguarda il teatro musicale Romeo Castellucci non trova in patria quel riconoscimento che le sue regie di opere liriche ottengono all’estero. Questo lavoro, che aveva presentato alla Triennale di Milano nel 2019, si chiama Schwanengesang (Il canto del cigno), ma non si tratta dell’omonima raccolta di 14 lieder scritti da Franz Schubert nell’ultimo anno di vita e pubblicata postuma con il numero di opus D957 e il titolo scelto arbitrariamente dall’editore. Uno solo appartiene a quella raccolta, Ständschen (Serenata), mentre gli altri pezzi musicali utilizzati spaziano da Die Mainacht (D194, Notte di maggio) del 1815 a Wegenlied (D867, Ninnananna) del 1826 mentre il quarto è proprio Schwanengesang (D744) del 1823. In tutto 11 lieder che formano una progressione drammatica di forte intensità. Inizialmente la cantante, Kerstin Avemo, si comporta come la classica interprete di Lieder: al centro della scena, illuminata da uno spot e nel suo tailleur anni ’40 come lo stile della sua acconciatura, accenna con un sorriso l’attacco al pianista, Alain Franco, e porge i suoi Lieder quasi come “canzoni”, l’aria un po’ svagata, i gesti di maniera. Ma poi gli intervalli di silenzio tra un pezzo e l’altro si allungano, l’esecuzione si carica di tensione e l’espressione emotiva della donna diventa sempre più drammatica. I mutamenti sono inizialmente minimi e impercettibili, ma il loro effetto successivamente si traduce in un totale cambiamento della disposizione della cantante: da esecutrice asettica a persona intimamente scossa dal racconto di solitudine e abbandono a cui dà corpo. La donna esce dal cono di luce, scoppia a piangere, va verso il fondo della scena, si volta e l’ultimo Lied che canta è quasi inudibile, la voce rotta dall’emozione e la figura scompare nel fondale nero. Alla fine anche la musica tace, il pianista se ne va, la donna farfuglia qualche frase sconnessa in tedesco, invece della traduzione dei testi sul fondo vengono proiettate frasi quali «Via, assassini…» e ancora «Cosa volete? Andate a farvi fottere con la vostra voglia di guardare!». Ma esiste la possibilità di sottrarsi allo sguardo dell’altro uscendo di scena? Come fare ad abbandonare il palco dopo aver proclamato la propria crisi? Fragorosi lampi di luce rompono l’oscurità mentre la donna si rannicchia per terra nascondendosi nel telo nero che copriva il palcoscenico per sfuggire allo sguardo di noi spettatori. Lo sguardo non è mai innocente, già ce l’aveva insegnato il mito di Orfeo e Euridice. Castellucci ne sottolinea il potere e ci fa in un certo senso sentire in colpa.

 ⸪

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La Calisto

Francesco Cavalli, La Calisto

★★★★★

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 30 October 2021

Cavalli’s baroque opera at La Scala for the first time and it’s a triumph

La Calisto is the best known of Francesco Cavalli’s operas. Whether it be the slightly lustful tone of the plot or the irresistible liveliness of the characters, there have been many modern revivals of the work. From Raymond Leppard in 1970 to the legendary production under René Jacobs in 1985, Cavalli’s opera marked the birth of the Early Opera renaissance. It has been seen in a licentious vein, but what can you expect from a plot where Jupiter falls in love with the nymph Calisto who, being a follower of Diana, is devoted to chastity, except that she takes pleasure in the Diana into which the god of the gods has transformed himself in order to seduce her…

continues on bachtrack.com

La Calisto

Francesco Cavalli, La Calisto

★★★★★

BandieraInglese  Click here for the English version

Milano, Teatro alla Scala, 30 ottobre 2021

L’opera barocca di Cavalli arriva per la prima volta alla Scala ed è un trionfo

Dei 28 titoli di opere di Francesco Cavalli che ci sono giunte – del suo maestro Claudio Monteverdi ne abbiamo solo tre – quello de La Calisto è il più conosciuto. Saranno il tono un po’ lussurioso della vicenda o la vivacità irresistibile dei personaggi, fatto sta che sono numerose le riprese moderne di questo lavoro: da Raymond Leppard nel 1970 al mitico spettacolo sotto la direzione di René Jacobs del 1985, l’opera di Cavalli ha segnato per di più la nascita della Early Opera Revival e della Barocco Renaissance. Molte sono state le produzioni di questo lavoro letto in chiave licenziosa, ma che dire di una vicenda in cui Giove si innamora della ninfa Calisto, che essendo seguace di Diana è votata alla castità salvo provare piacere per la Diana in cui si è trasformato il dio degli dèi, su suggerimento di Mercurio, per concupirla. Ma la stessa Diana si lascia trascinare nell’attrazione, reciproca, col giovane Endimione: agli amori saffici succedono ora quelli quasi pedofili da parte della dea della verginità! Ma non sono da meno gli altri personaggi: se Giunone come è suo solito s’infuria per le scappatelle del marito, c’è la gelosia di Pane (ossia Pan, il dio silvano) nei confronti di Diana, ancora lei, che gli preferisce il tenero virgulto Endimione. Ci sono poi le fregole dei satiri – e che altro dovrebbero fare? – e le smanie adolescenziali (o senili a seconda delle letture registiche) della ninfa Linfea che anela anche lei ad avere un uomo: «Mi sento intenerire | quand’ho per oggetto | qualche bel giovanetto […] Voglio, voglio il marito». Insomma, nessuno dei personaggi de La Calisto sembra sfuggire ad attrazioni erotiche, in una mescolanza di generi che dà la vertigine. Nel testo del Faustini poi le parole bacio, baciare ecc. ricorrono ben 46 volte e spesso intendono qualcosa di più sostanzioso, proprio  come il verbo francese baiser

C’è però chi legge la diffusa licenziosità del libretto come una metafora della libertà di pensiero (1) in un secolo in cui si va affermando il metodo scientifico. In Endimione si può allora vedere la figura di Galileo Galilei, l’astronomo che dovette abiurare le sue conoscenze davanti all’Inquisizione ed è per questo che nella messa in scena di David McVicar all’apertura del sipario la scena che ci si presenta davanti è quella dell’interno di un osservatorio astronomico a pianta ottagonale dalle pareti coperte di libri e con un torreggiante telescopio al centro. Mentre nel Prologo le figure di Natura, Eternità e Destino discutono del destino di Calisto, l’astronomo Endimione si affanna con mappe celesti. La bellissima scena fissa di Charles Edwards si apre con grandi finestre su esterni che di volta in volta simboleggiano con i quattro elementi gli ambienti in cui si svolge la vicenda che ha nella dea Diana il vero motore dell’azione: i campi aridi (fuoco) e la foresta del primo atto, il monte Liceo (terra) e il fiume Erimanto del secondo, le fonti del Ladone (acqua) e l’Empireo (aria) del terzo. I costumi di Doey Lüthi destano autentica meraviglia: il Giove imparruccato e aureolato di piume come un Re Sole; la Giunone regina Grimilde della Biancaneve di Walt Disney con borsetta a forma di teschio tempestato di diamante alla Damien Hirst; la Diana Valchiria dark.

Di concerto con il direttore Christophe Rousset, il regista David McVicar non ha voluto spingere troppo sul pedale del grottesco e quindi Giove trasformato in Diana è cantato dalla stessa interprete femminile di Diana – sembra sia quasi impossibile trovare oggi un basso che in falsetto raggiunga con agio le note acute richieste dal ruolo come era successo per l’interprete originale Giulio Cesare Donati. Meno convincente l’aver invece assegnato a Linfea un ruolo femminile sopranile invece di quello maschile di tenore come comunemente viene fatto per esaltare l’umorismo della parte. Del regista inglese non si sa comunque se ammirare di più il gioco di rimandi dotti della sua messa in scena o quello attoriale ottenuto con gli interpreti. Pochi esempi: la Diana/Giove dagli esilaranti atteggiamenti macho ironicamente interpretati dalla cantante Olga Bezsmertna; l’esuberante Mercurio di Markus Werba; i comportamenti ferini degli irrefrenabili satiri. Sono tutti eccellenti specialisti di questo repertorio anche quelli che hanno interpretato gli altri personaggi principali: Chen Reiss, deliziosa Calisto; Luca Tittoto, focoso e autorevole Giove; Christophe Dumaux, lirico Endimione; Chiara Amarù, sanguigna Linfea; Véronique Gens, regale Giunone.

L’opera veneziana del Seicento è opera di voci: alla prima del 28 novembre 1651 nel minuscolo Teatro di Sant’Apollinare di Venezia in “buca” c’erano solo sei strumentisti: due violini, una viola, una tiorba, una spinetta e un clavicembalo, quest’ultimo suonato dallo stesso Cavalli. Essendo impensabile proporre questo stesso organico in un teatro come quello alla Scala, le esigenze di prassi esecutiva hanno prevalso sulle ragioni puramente filologiche. Già René Jacobs nella sua produzione aveva portato a 19 gli strumentisti: qui Christophe Rousset affianca ai 14 membri dei suoi Talens Lyriques nove professori dell’orchestra del teatro. Con il cembalo suonato dallo stesso Rousset gli strumenti arrivano dunque a 24, il minimo per poter essere ascoltato in un teatro di 2200 posti. L’accurata ricostruzione della parte orchestrale del direttore francese comprende anche l’introduzione di due brani musicali non previsti dalla partitura originale: le musiche dell’ouverture dell’Orione dello stesso Cavalli per il balletto che conclude il secondo atto e una passacaglia di Frescobaldi che sottolinea il dramma della ninfa trasformata in orsa.

La prima volta di Cavalli alla Scala ha avuto un esito trionfale, con applausi che neanche una Bohème o una Traviata talora suscitano. Speriamo sia il segno di un ritorno dell’opera barocca italiana, che qui nel suo stesso paese stenta a conquistare il suo posto.

(1) Danilo Daolmi nel bellissimo saggio La castità trionfante: una chiave di lettura per La Calisto di Cavallo e Faustini, contenuto nel programma di sala che riporta gli altrettanto preziosi interventi di Dinko Fabris (La “Calisto Renaissance” alle origine dell’Early Opera Revival) e Lorenzo Bianconi (Pretesti mitologici nell’opera eroicomica).