Mese: novembre 2021

Medea in Corinto

foto © Gianfranco Rota

Simone Mayr, Medea in Corinto

Bergamo, Teatro Sociale, 20 novembre 2021

★★★★☆

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La Medea di Mayr torna a Bergamo duecento anni dopo

Non solo Donizetti: anche un bavarese ha fatto di Bergamo la sua città d’adozione diventando più bergamasco degli stessi bergamaschi. Si tratta di Johann Simon Mayr, che a 26 anni scende dalla natia Mendorf, un paese vicino a Ingolstadt, per studiare con Carlo Lenzi e passare in seguito a Venezia dove debutta con la sua Saffo (1794) alla Fenice, seguita due anni dopo dalla Lodoiska. Dopo una lunga serie di successi in molti teatri italiani, Mayr accetta il posto di maestro di cappella presso la Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo dopo aver rifiutato l’invito presso la corte imperiale di Napoleone Bonaparte. Nella città lombarda contribuisce alla fondazione di diverse istituzioni culturali e diventa maestro di Gaetano Donizetti. Negli ultimi anni abbandona il teatro dopo una sessantina di lavori che avevano fatto di lui uno dei più apprezzati operisti dell’epoca e si concentra sulla composizione di opere sacre prima di diventare cieco e spegnersi all’età di 82 anni nella città che lo aveva accolto. Come Giovanni Simone (e non come Johann Simon) riposa nella basilica della città alta, di fianco al suo allievo.

Mayr era nato nel 1763, sette anni dopo Mozart, ed è vissuto fino al 1845, sedici anni dopo il ritiro dalle scene di Rossini. Il suo stile operistico si colloca immancabilmente tra quello dei due compositori maggiori, ma si ritaglia una sua individualità ben evidente nella Medea in Corinto che il Festival Donizetti mette quest’anno in cartellone come secondo titolo del suo programma. Era stata presentata a Napoli nel 1813 su libretto di Felice Romani con discreto successo di pubblico e considerata opera esemplare nel suo voler introdurre nella tradizione operistica italiana modelli e stili d’oltralpe, non solo tedeschi, ma anche francesi. La committenza partenopea aveva richiesto a Mayr un’opera “alla francese” che incontrasse i gusti della corte, a quel tempo ancora nelle mani del Murat. Dopo La vestale di Spontini nel 1811, l’Ecuba di Manfroce e l’Iphigénie en Aulide di Gluck nel 1812, la Medea di Mayr si inseriva in quel filone neoclassico tanto frequentato in Francia.

La musica della sua Medea, anche se scritta dopo quella di Cherubini, oscilla tra Mozart – ma «un Mozart che non è morto e che ha potuto sviluppare quelle intuizioni preromantiche che si avvertono nelle pagine dei suoi ultimi anni» dice il maestro concertatore Jonathan Brandani nell’intervista rilasciata ad Alberto Mattioli riportata sul programma di sala – e Rossini, di quest’ultimo soprattutto per il ruolo di Egeo. Ma diventa del tutto originale nelle pagine solistiche in cui è presente uno strumento obbligato (il violino per Medea, l’arpa per Creusa) e negli interventi di furia della temibile maga dalla follia freddamente premeditata. Si ha quindi una varietà di pagine che portano un lavoro che dovrebbe essere “neoclassico” a un esito pieno di pathos. Del 1821 è la prima ripresa italiana dell’opera, proprio al Sociale di Bergamo. Ottima occasione per mantenere la consuetudine del Festival Donizetti anche quest’anno, quella di mettere in scena un’opera nel suo bicentenario presentando il lavoro di Mayr in questa versione. Di Jonathan Brandani sapevo ben poco, se non della sua carriera sviluppata soprattutto all’estero (tra cui un Bravo di Mercadante a Wexford) e del fatto che avesse già diretto la Medea in Corinto a New York tre anni fa, ma la sua concertazione è stata la rivelazione della serata: a capo dell’Orchestra Donizetti Opera ha saputo evidenziare le peculiarità della partitura i cui diversi momenti sono magnificamente realizzati dalla sua direzione, trascinante da un lato e olimpicamente composta dall’altro, con raffinatezze strumentali molto ben rese dall’orchestra.

La realizzazione vocale ha trovato negli interpreti una coerente risposta. Carmela Remigio questa volta è  risultata persuasiva con la sua particolare vocalità: la sua Medea coltiva il rancore e la terribile vendetta con una gamma espressiva sempre attentamente studiata e il suo temperamento rende il personaggio più vero. La sua è una parte che era stata scritta per una personalità come quella di Isabella Colbran. Ben resi dalla cantante abruzzese sono i recitativi, riccamente orchestrati (dalla critica dell’epoca fu considerata «eccessiva la strumentazione»!), come quello con cui apprende il suo bando dalla città: «Cessate… intesi… (oh mio furor!) tremate… | partite, o vili; di mirare indegni | siete l’affanno di Medea». Gli interventi della maga, tre arie con coro, sono sempre caratterizzati dai violini con una sonorità spettrale ed è questa inedita diversificazione di colori orchestrali uno dei pregi della partitura di Mayr.

L’impervia tessitura di Giasone era stata scritta su misura per il tenore Andrea Nozzari e trova in Juan Francisco Gatell l’interprete adatto: note insolitamente basse si alternano a vette acute affrontate con agio dal belcantista argentino che riesce a dare carattere a un personaggio di certo non empatetico in questa vicenda. La voce cristallina di Marta Torbidoni si adatta alla perfezione a Creusa: le belle agilità, il delizioso vibrato, l’accurato fraseggio, tutto concorda nel delineare felicemente la sfortunata vittima dell’ira di Medea e che a Napoli nel 1813 aveva avuto la voce di Teresa Luigia Pontiggia. La sensibilità della Torbidoni ha reso magici i suoi interventi solistici, specie quello del secondo atto accompagnato in maniera ineffabile dalla arpista Marta Pettoni.

Il quarto personaggio che completa questa vicenda di coppie è Egeo e qui si ascolta ancora una volta con piacere il timbro chiaro e naturale di Michele Angelini che dà corpo all’amante deluso, parte originariamente affidata al mitico Manuel García. Le sue due arie con coro sono irte di difficoltà vocali, tutte brillantemente risolte però dal tenore italo-americano che ha dipanato agilità e salti di registro con sicurezza ed eleganza. Caterina di Tonno (Ismene) si è dimostrata come sempre convincente mentre Roberto Lorenzi ha efficacemente risolto il personaggio di Creonte e Marcello Nardis quello di Tideo. Qualche problema l’ha dato l’onnipresente coro, tutto maschile in questa versione del 1821: la collocazione nei quattro palchi di proscenio non ha favorito la precisione degli attacchi e le mascherine non hanno reso più agevole l’articolazione delle parole.

La messa in scena è affidata al direttore artistico del festival Francesco Micheli, che ha realizzato uno spettacolo intelligentemente provocatore nella sua scelta di rappresentare la vicenda mitologica in un’ambientazione borghese degli anni ’70, con le sagome degli edifici popolari del quartiere Monterosso di Bergamo che si riflettono nelle pozzanghere nella scenografia di Edoardo Sanchi. Quattro pedane scendono dall’alto per fornire la cucina, il salotto e le camere da letto delle due coppie. L’arredamento è nello stile dell’epoca con i caratteristici tessuti stampati delle lenzuola e della tovaglia – quest’ultima, ritagliata e cucita, diventa la veste che ucciderà Creusa.

La versione di Felice Romani della Medea di Euripide, riletta tramite la tragédie di Corneille, punta alla psicologia dei personaggi, che qui non sono figure mitologiche, bensì uomini e donne reali. L’approccio di Francesco Micheli è conseguente e la sua lettura coerente: un gioco di coppie e due figli che sono testimoni e vittime della conflittualità degli adulti. Ecco dunque che il punto di vista del dramma diventa quello dei figli di Giasone e Medea e la vicenda una metafora della relazione edipica. I figli qui non muoiono davvero e la storia rappresentata diventa «un teatro della memoria dove essi rivivono la morte, metaforica, ma lo stesso dolorosa, che è per ogni figlio il dissidio fra i genitori» afferma il regista. L’opera inizia infatti con i figli che ritornano nella casa abbandonata dopo il divorzio. Siamo nell’oggi, 2021 è proiettato sul velino, e Giasone ha deciso di uccidersi – «Mi sveni il ferro stesso | che il sen de’ figli aprì» è l’ultima sua battuta nel libretto. Tutta la vicenda è rivissuta a ritroso negli anni ’70, qui riprodotti come nei film di Pasolini di cui sono le citazioni dalla poesia A mia madre: «in questa Medea in Corinto c’è la mia famiglia, la famiglia di mio padre e di mia madre, c’è il loro amore immenso, il loro matrimonio dopo appena sei mesi che si conoscevano, i loro dissensi e la mia infelicità adolescenziale» dice ancora Micheli. Lontano dalla marmorea mitologia, le vicende che vediamo sulla scena del Teatro Sociale abbandonano la dimensione epica per diventare quelle della nostra contemporaneità e l’emozione che proviamo è sincera. La regia è precisa in ogni dettaglio, i costumi di Giada Masi giustamente in stile, le luci di Alessandro Andreoli suggestive. Della presenza scenica dei cantanti s’è detto, parimenti efficaci sono i due bravissimi giovani attori che interpretano i figli, espressivi anche se non hanno voce.

Successo meritatissimo e grandi applausi. Lo spettacolo verrà trasmesso sulla Donizetti Opera Tube dal 27 novembre. Sarebbe imperdonabile perderselo.

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L’elisir d’amore

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Élixir d’amour

★★★☆☆

Bergame, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

 Qui la versione italiana

Le festival Donizetti de Bergame s’est ouvert dans une ambiance de fête, avec un Élixir d’amour très abouti musicalement, mais à la mise en scène bien terne.

Cette année, le festival Donizetti de Bergame, qui en est à sa septième édition, ne dénichera pas de joyaux cachés dans le catalogue infini de l’illustre citoyen. En effet, 2021 ne verra le bicentenaire d’aucun de ses opéras, le dernier ayant eu lieu en 2019 avec Pietro il Grande, créé à Venise en 1819. Le prochain anniversaire devrait avoir lieu l’année prochaine avec Zoraide di Granata, l’opera seria créé à Rome en janvier 1822.

C’est en tout cas une occasion de réfléchir que nous offre cette édition du festival de Bergame, en cette année de réouverture des théâtres – mais le Festival Donizetti ne s’est à vrai dire pas vraiment arrêté, même en 2020, avec trois productions jouées sans public et diffusées en direct en streaming…

la suite sur premiereloge-opera.com

L’elisir d’amore

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2021

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A Bergamo festosa riapertura del Teatro Donizetti, malgrado la regia

Quest’anno il Festival Donizetti di Bergamo, giunto alla sua settima edizione, non porta alla luce nessuna gemma nascosta dello sterminato catalogo dell’illustre concittadino. Il 2021 non prevede infatti alcun bicentenario di una sua opera, l’ultimo era stato il 2019 con Pietro il Grande che era stato presentato a Venezia nel 1819. Il futuro appuntamento dovrebbe quindi essere l’anno prossimo con Zoraide di Granata, l’opera seria andata in scena a Roma nel gennaio 1822.

È dunque un’occasione di riflessione quella offerta dalla rassegna di Bergamo nell’anno in cui si riaprono i teatri – anche se il Festival Donizetti in verità non si è fermato neanche nel 2020, con ben tre produzioni realizzate senza pubblico e trasmesse in diretta streaming: Marino Faliero, Belisario e Le nozze in villa. Ecco dunque due capolavori assoluti della maturità del compositore quali il melodramma giocoso L’elisir d’amore del 1832 e l’opéra-comique La fille du régiment del 1840. Viene parimenti messo in scena anche un lavoro del suo maestro Simone Mayr, Medea in Corinto, melodramma tragico del 1813.

Ma il festival quest’anno ha avuto un prologo con un inedito operashow intitolato C’erano una volta due bergamaschi presentato al Teatro Sociale giovedì 18 novembre. Con la drammaturgia di Alberto Mattioli, il piacevole spettacolo ha portato in scena il grande basso Alex Esposito e gli allievi della Bottega Donizetti, sei promettenti voci che hanno avuto la fortuna di essere istruiti sull’arte vocale e scenica da Esposito stesso, Francesco Micheli, Damiano Michieletto e altri illustri protagonisti del mondo teatrale italiano. Sul palcoscenico sono state ripercorse le vite di due grandi bergamaschi, Donizetti ed Esposito appunto, accomunati dalla passione della musica, dal registro di basso della voce, dalla necessità di cercare al di fuori della loro città il compimento delle loro aspettative, dal dramma del colera per il compositore ottoentesco e da quello del Covid per il cantante di oggi. I brani musicali scelti – Donizetti of course, ma anche Offenbach, Rossini, Mozart, Boito e Berlioz – hanno permesso di mettere in luce la riconosciuta eccellenza del basso bergamasco e le qualità dei giovani interpreti. Una bella occasione per «ripensare il mestiere, i suoi trucchi ma anche la sua etica. Per fare l’opera come la vogliamo, un teatro del presente per il presente, affacciato sul futuro», come dice Francesco Micheli, infaticabile e coinvolgente direttore artistico del Festival. E su questo stesso tema si svolge il convegno di Opera Europa, intitolato quest’anno Elixir of life, che riunisce in questi stessi giorni a Bergamo gli operatori internazionali di 215 fra teatri e festival provenienti da 43 paesi.

C’erano una volta due bergamaschi, Teatro Sociale, Bergamo, 18 novembre 2018

Ma è con il vero L’elisir d’amore che inizia il festival e viene contemporaneamente inaugurato il Teatro Donizetti dopo rilevanti lavori di ristrutturazione. Prima dello spettacolo una banda che intona le musiche dell’opera attira i passanti davanti all’edificio per una rappresentazione del teatro di burattini di Daniele Cortesi, che rivedremo poi sul palcoscenico, per presentare “a grandi e piccini” le vicende di Nemorino & Co. Ed è questo coinvolgimento della città un altro dei non pochi pregi di questo festival che trasforma Bergamo in una Salzburg pedemontana pullulante di stranieri che anche quest’anno, malgrado la pandemia, costituiscono lo zoccolo duro del pubblico della manifestazione. L’aria di festa all’esterno si respira anche dentro il teatro nei nuovi locali e nella sala tirata a lucido: ai presenti vengono distribuite delle bandierine con il testo del ritornello del coro con cui l’opera riprende dopo l’intervallo e tutto il pubblico viene così coinvolto nella vicenda intonando allegramente «Cantiamo, facciam brindisi a sposi così amabili». E non se la cava neanche male, il pubblico, perché invece il coro del Donizetti Opera qualche sbandamento durante la serata lo avrà.

E una vera festa è soprattutto la musica di questo Elisir, che presenta anche pagine mai ascoltate prima, come la cabaletta di Adina che conclude la scena ottava del secondo atto dopo «Prendi; per me sei libero»: passando dal Fa al La bem la musica ma anche le parole cambiano («Ah fu con te verace, | se presti fede al cor» diventa «Ah l’eccesso del contento | non si dice con l’accento») per terminare con un’esibizione di agilità e raffica di acuti che originariamente dovevano mettere in evidenza le qualità vocali della primadonna in una delle riprese del lavoro, forse la Fanny Tacchinardi Persiani per quella parigina del 1839. Il direttore musicale Riccardo Frizza concerta l’orchestra Gli Originali su strumenti antichi senza apportare tagli alla partitura – una pratica virtuosa che non dovrebbe essere riservata soltanto ai festival quella di ripulire le esecuzioni dagli interventi spuri di una malintesa tradizione – e con un sound particolare, più “rustico”, dato anche dal diapason più basso adottato, circa un semitono sotto. Se ne avvantaggia il colore della strumentazione e la vivezza delle linee melodiche, anche se su strumenti originali l’intonazione diventa più precaria, soprattutto per quelli a fiato. Nessun problema invece per i due preziosissimi cimeli della collezione di Villa Medici Giulini utilizzati per questa esecuzione e posizionati nei due palchi di proscenio: in quello di destra un fortepiano costruito da Gaetano Scappa nel 1796, in quello di sinistra un’arpa Érard costruita su un modello del 1839. Il ricupero di una prassi esecutiva storica «può riattivare, per mezzo di una interruzione delle abitudini d’ascolto, un’attenzione nuova nei confronto dell’opera […] interrompendo il rapporto passivo che si instaura nella ripetizione sempre uguale di una tradizione interpretativa» scrive Livio Aragona sul programma di sala ed è quello che riesce magistralemente a Riccardo Frizza, che di questo repertorio è affermato interprete. La scelta dei tempi e l’equilibrio sonoro tra buca dell’orchestra e palcoscenico sono perfetti e se ne avvantaggiano i cantanti, tutti di grande livello. Javier Camarena fornisce un’interpretazione senza pecche dove fraseggio e mezze voci sono espressi per ben delineare il personaggio di Nemorino, malgrado il ruolo da scemo del villaggio che gli viene imposto dal regista, il quale carica di inutili gag – goliardiche quelle del duetto con Adina nel primo atto – la sua recitazione. Elegantemente stilizzato è il Belcore di Florian Sempey dove si ammirano la sicura vocalità e la felice presenza scenica del baritono francese. Roberto Frontali forse può deludere chi si aspettava un Dulcamara fortemente declinato sul comico: il baritono romano non è certo un buffo, ma la sua interpretazione, senza spingere sul pedale del farsesco, è ben caratterizzata ed evidenzia le particolarità vocali di un ruolo liberato dalle caccole di tradizione. E infine la Adina di Caterina Sala, giovane soprano comasco dalla voce di grande proiezione, precisa tecnica vocale e sicurezza interpretativa, anche se gli acuti hanno un timbro un po’ perforante. Impavida nei virtuosismi della sua “nuova” cabaletta ha scatenato l’entusiasmo del pubblico che ha tributato agli interpreti della parte musicale massicce ovazioni.

La scenografia di Federica Parolini fa di questo Elisir una produzione site specific: la sempre presente sagoma della facciata del Teatro Donizetti e la ricostruzione – a dire il vero misera con quei teli dipinti – del quadriportico piacentinano di fronte al teatro ambientano la vicenda in un contesto urbano alieno al tono rurale della storia – «Faresti meglio a recarti in città presso tuo zio» dice a un certo punto Adina a Nemorino – e al carattere naïf dei personaggi. Per lo meno questa volta la regia di Frederic Wake-Walker non ha fatto peggio di quanto aveva fatto alla Scala con Le nozze di Figaro e l’Ariadne auf Naxos, ma un giorno o l’altro il regista scozzese dovrà imparare a far muovere i personaggi e il coro. E magari avere anche qualche idea registica valida.

Lucrezia Borgia

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 22 novembre 2019

(diretta streaming)

La maternità infranta di Lucrezia

La Lucrezia Borgia che viene ora presentata a Bergamo è l’edizione critica curata da Roger Parker e Rosie Ward e non coincide con nessuna delle tante versioni realizzate da Donizetti. È piuttosto un incrocio di due di esse: quella per la prima alla Scala del 1833 e quella realizzata per il Théâtre Italien a Parigi nel 1840. La versione realizzata per il Festival Donizetti Opera 2019 conserva tutti i cambiamenti adottati a Parigi nel 1840 – il cantabile con cabaletta di Lucrezia («S’involi il primo a cogliere») nel Prologo, la cabaletta rifatta a Firenze per Lucrezia e Alfonso nel primo atto, la romanza di Gennaro («Anch’io provai le tenere») dopo il coro del secondo atto, l’arioso finale per Gennaro («Madre, se ognor lontano») con la cabaletta scorciata per Lucrezia – ma mantiene il duetto Orsini-Gennaro («Onde a lei ti mostri grato») che fu cantato a Milano e tagliato a Parigi.

Alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Riccardo Frizza tiene in perfetto equilibrio i diversi registri espressivi di questo lavoro, ossia il tragico e il comico, un grottesco scespiriano utilizzato da Hugo nella sua Lucrèce Borgia, ripreso con genialità da Donizetti ed efficacemente realizzato sulla scena da Andrea Bernard con la scenografia di Alberto Beltrame e i costumi di Elena Beccaro. L’elemento cardine della sua lettura registica è la maternità infranta di Lucrezia: prima dell’inizio vediamo una figura acconciata come il papa rapire dalla culla il neonato che la donna aveva dolorosamente allattato. Nel prosieguo  altre culle punteggeranno la scena formata da una piattaforma persa in un nulla nero e scabro e sormontata da un soffitto a cassettoni dorati che si trasforma nel muro del palazzo ducale con la scritta dorata BORGIA a cui Gennaro toglie la B dopo averci pisciato sopra. Bernard muove benissimo il coro diviso in bande di giovinastri violenti e sbronzi e i personaggi principali ed è l’aspetto recitativo quello che contraddistingue l’interpretazione di questa Lucrezia Borgia, non più usignolo canterino preoccupato di dipanare le agilità vocali richieste, ma un personaggio psicologicamente contorto cui dà corpo Carmela Remigio con un’espressività intensa, al limite del manierato. Certo, il timbro è quello che è, il registro medio è roco, la dizione innaturale (le e strette sostituiscono quelle larghe e viceversa), le smorfie impietosamente evidenziate dai primi piani, ma con tutte queste limitazioni la figura della protagonista esce fuori in maniera efficace. Il Don Alfonso di Marko Mimica è perfettamente a fuoco come personaggio dal punto di vista scenico, non sempre lo è la vocalità, con bassi poco proiettati. Non ha problemi di proiezione invece la voce il Gennaro di Xabier Anduaga, bellissimo timbro, acuti facilissimi e mezze voci incantevoli. Una performance difficile da dimenticare. Nella parte di Maffio Orsini Varduhi Abrahamyan si dimostra ancora una volta un’eccellente interprete. Più eterogeneo il gruppo di comprimari, in cui si stacca per bellezza di suono il Rustighello di Edoardo Milletti. Molto bene il coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito da Corrado Casati.

 

Donizetti and his Operas

William Ashbrook, Donizetti and his Operas

1983 Cambridge University Press, 756 pagine

È strano, ma il saggio più completo sul compositore bergamasco si deve a un americano, William Ashbrook, musicologo di Philadelphia dove era nato nel 1922 e nella cui università insegnò Performing Arts. Qualificato professore di inglese, ebbe però sempre interesse per l’opera italiana. Suoi sono anche The Operas of Puccini (1968) e i lemmi dei grandi compositori in The New Grove Masters of Italian Opera.

Non è solo per la mancanza di adeguati riscontri nella letteratura musicologica italiana che il testo ha la sua validità: in due parti dedicate agli aspetti biografici e alle opere – e che nella traduzione italiana della EDT vengono pubblicate in due tomi distinti – l’analisi di Ashbrook non tralascia i rapporti di Donizetti con il teatro d’opera del suo tempo, con il suo maestro Mayr, Rossini e i suoi contemporanei. Si deve in parte all’Ashbrook la “Donizetti renaissance”, con cui un autore di una manciata di opere intensamente sfruttate nei cartelloni dei teatri è diventato un compositore di grande versatilità e originalità creativa.

Pupo di zucchero

Pupo di zucchero. La festa dei morti

Testo, regia e costumi di Emma Dante

Torino, Teatro Carignano, 9 novembre 2021

«Il 2 novembre è l’unico iuorno ca ce sta nu poco de vita dinta a sta casa»

Così dice «’o viecchio ’nzenziglio e spetacchiato» che prepara il pupo di zucchero, una pietanza tradizionale: con acqua, farina e zucchero impasta «l’esca pe li pesci de lo cielo», una statuetta antropomorfa dipinta con colori vivaci. Secondo la tradizione siciliana “u pupo di zuccaru” raffigura le anime dei defunti e viene consumato in un momento di simbolica patrofagia.

In attesa che l’impasto lieviti, l’uomo richiama alla memoria i defunti della sua famiglia e la casa si riempie di ricordi e di vita: la vecchia mamma francese, il giovane padre disperso in mare, le sorelle Rosa, Primula e Viola («tre ciuri c’addorano ‘e primmavera»), l’amico spagnolo Pedro, zio Antonio e zia Rita che «s’abboffavano ‘e mazzate», il figlio adottivo Pasqualino. La stanza diventa una sala da ballo dove i morti, ritrovando le loro abitudini, festeggiano la vita.

Il lavoro della Dante è ispirato ancora una volta alla struttura linguistica e narrativa de Lo cunto de li cunti del Basile, com’era stato per La scortecata, utilizzando un napoletano poetico e verace e immagini di enorme suggestione teatrale. Alla fine le ipercinetiche figure evocate nelle loro sembianze giovanili tornano nei loro corpi mummificati – come quelli delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo – qui realizzati dalle sculture di Cesare Inzerillo e compongono una specie di altare. La festa dei morti è finita. I morti ritornano morti.

Magnifici i dieci attori: Carmine Maringola (il vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (papà), Stephanie Taillandier (mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio).

Il naso

Dmitrij Šostakovič, Il naso

★★★★☆

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 30 ottobre 2021

(diretta streaming)

La polizia di Putin e lo strano caso di chi ha un solo naso

Il prestigioso teatro bavarese apre la sua stagione con un titolo coraggioso in una produzione di dirompente attualità. Il regista Kirill Serebrennikov deve curare la regia dello spettacolo da remoto, come era successo col suo Così fan tutte (Zurigo, 2018) e il recente Parsifal (Vienna, 2021). Non era potuto presenziare neppure alla proiezione del suo ultimo film (Petrovy v grippe) al Festival del cinema di Cannes poiché le autorità russe non gli permettono di uscire dal paese fino a giugno 2023, conseguenza di una condanna per supposta malversazione che molte associazioni per i diritti vedono come «un modo sottilmente velato per vendicarsi di Serebrennikov a causa la sua critica politica e per inviare un preciso messaggio agli artisti – che non hanno altra scelta che accettare finanziamenti statali per sopravvivere – di astenersi dalla critica politica», dichiara lo Human Rights Watch, facendo notare in particolare il sostegno pubblico del regista per le tematiche LGBTQ e le sue critiche alla Chiesa ortodossa russa e alla censura statale.

Nella sua messa in scena il rapporto fra normale ed eccezionale è capovolto: Kovalëv è l’unico ad avere un solo naso, mentre tutti gli altri ne quattro o cinque o più, pertanto è lui quello anormale! L’incubo kafkiano dell’Assessore Collegiale che vede il proprio naso passeggiare per San Pietroburgo come Consigliere di Stato, riceve nel trattamento orchestrale di Šostakovič una carica eversiva che scandalizzò i suoi contemporanei. E lo farebbe anche questa nuova produzione, se fosse vista in patria.

L’ex direttore artistico del Centro Gogol’, complesso multimediale d’avanguardia di Mosca, affronta l’amaro apologo di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ con la convinzione che «per comprendere la realtà della Russia contemporanea è importante immergersi nell’universo gogoliano, in questo cosmo assurdo e paradossale. Secondo me Il naso riguarda un grosso problema d’identità. Il naso e La metamorfosi di Kafka hanno fondamentalmente lo stesso inizio: “Quando Gregor Samsa si svegliò si trovò trasformato in un mostruoso parassita”, si legge in Kafka, e l’inizio di Gogol’ potrebbe essere parafrasato “Quando Kovalëv si svegliò una mattina si ritrovò senza naso”. Tutti hanno un naso, ma Kovalëv non ne ha uno. Il naso rappresenta una caratteristica principale, con cui la società identifica le persone. Una persona a cui manca tale caratteristica perde la sua identità, il suo carisma, la sua aura». Senza il passaporto (confiscatogli dalle autorità russe), anche Serebrennikov ha perso il suo naso, e quindi la sua identità.

Nella sua regia l’inverno è uno dei personaggi principali: i video che vengono proiettati si legano con continuità con quanto vediamo in scena e mostrano la Russia di oggi nella morsa del freddo, e della polizia. Minacciosi veicoli sgomberano mucchi di neve sporca mentre la polizia sistema con movenze coreografiche griglie di sbarramento e agita i manganelli. In mezzo barcollano Babbi Natale ubriachi e manifestanti sparsi. Se Il naso di Barrie Kosky era l’epitome del grottesco, qui il tema dominante è il gelo, metafora della democrazia congelata: nella stazione di polizia che entra in scena su ruote i poliziotti arrestano gli oppositori e tagliano loro il naso e dalla Neva ghiacciata vengono pescati pezzi di cadaveri. Anche molta parte della popolazione indossa le uniformi della polizia, è una massa disinformata, disillusa, incitata contro i dissidenti. Ma attenzione: il termine Polizei in tedesco sulle divise non è traslitterato in cirillico. Non è che anche qui “all’ovest” dobbiamo stare attenti a difendere la nostra democrazia, sembra suggerire il regista russo.

Nel confronto con questa cupa scenografia, la musica di Šostakovič brilla ancora di più. Vladimir Jurovskij, che ha voluto questo lavoro mai eseguito a Monaco per debuttare come Direttore Musicale Generale della Bayerische Staatsoper, coordina con precisione una partitura gioiosamente scatenata, sfacciata e piena di invenzioni sonore sorprendenti: assoli di controfagotto, ensemble di tamburi insidiosi, incastri deraglianti, musica da circo e corali ortodossi. Boris Pinkhasovič eccelle come Kovalëv, Sergej Leiferkus (Ivan), Doris Soffel (una vecchia signora), Laura Aikin (Osipovna), Bálint Szabó (un cocchiere) ed Eliza Boom (una commerciante) spiccano nello sterminato ensemble.

Olivo e Pasquale

Gaetano Donizetti, Olivo e Pasquale

★★☆☆☆

Bergamo, Teatro Sociale, 28 ottobre 2016

(video streaming)

«Una partitura solo a tratti ravvivata dal genio» (1)

Nell’autunno del 1826 Donizetti è a Roma per comporre un’opera nuova per il Teatro Valle e per stare accanto all’amata Virginia Vasselli, diciottenne figlia della famiglia romana molto amica del compositore, che sposerà due anni dopo. Anche il tema della nuova opera verteva su un matrimonio, ma qui ostacolato da un padre burbero.

Atto I. L’azione si svolge a Lisbona. Olivo e Pasquale sono due fratelli, tutti e due negozianti di Lisbona: il primo è sanguigno e brutale, il secondo dolce e timido. La figlia di Olivo, Isabella, ama un giovane apprendista, Camillo, ma suo padre vuole che ella sposi un ricco mercante di Cadice, Le Bross che sbarca da una nave in quel momento.
Atto II. Isabella confessa a Le Bross di amare un altro e quando egli le chiede di dirgli il nome di costui ella dapprima non osa dire la verità e finge che si tratti di Columella, un vecchio vanitoso e ridicolo, poi rivela che è Camillo. Olivo, saputo che la figlia si oppone alla sua volontà, si infuria e Le Bross, colpito dalla sua reazione spropositata, diventa allora l’alleato di Isabella e promette di aiutarla a sposare Camillo. Gli amanti minacciano di suicidarsi alle cinque in punto se Olivo non acconsentirà alle loro nozze, ma l’uomo non ci crede e non cede al ricatto. Alle cinque, però, risuonano dei colpi di arma da fuoco: Pasquale sviene e Olivo dichiara che preferirebbe Isabella sposa di Camillo piuttosto che morta. Per fortuna, la minaccia del suicidio non era vera e i due compaiono alla porta, Olivo li abbraccia e benedice la loro unione.

Il librettista era Jacopo Ferretti, lo stesso de L’ajo nell’imbarazzo. La prima del 7 gennaio 1827 fu accolta con freddezza, sembra per l’inadeguatezza della prima donna e per il debole libretto tratto da due commedie di Antonio Sografi il quale già aveva prestato le parole al primo lavoro di Donizetti, Pigmalione, e ritornerà come autore del testo su cui si baserà il libretto de Le convenienze ed inconvenienze teatrali. Lo scarso successo della rappresentazione spinse il compositore ad apportare delle modifiche per la produzione di Napoli del settembre 1827: dialoghi parlati invece dei recitativi secchi e la parte di Pasquale in napoletano. Ma soprattutto il ruolo di Camillo riscritto per tenore: a Roma infatti aveva dovuto assegnare la parte dell’innamorato a un mezzosoprano per le limitazioni della troupe ingaggiata dal teatro che non aveva sei parti maschili. Donizetti fu ben felice di ristabilire la giusta assegnazione, essendo inusuale a quell’epoca far cantare un personaggio en travesti in un’opera buffa qual è appunto Olivo e Pasquale con il suo carattere realistico e borghese.

Le prime note della sinfonia ricordano il tema di «Ah mes amis» della futura La fille du régiment, per poi proseguire con vivace colore strumentale per il resto della lunga composizione, quasi otto minuti. I numeri musicali si alternano tra pagine in puro stile rossiniano, come il concertato del finale primo «Una folla di pensieri» ad altre schiettamente donizettiane come il delizioso duetto «Tutta t’affida a me» tra Isabella e Le Bross. La direzione di Federico Maria Sardelli alla testa dell’orchestra Accademia Teatro alla Scala non sembra invece fare distinzioni: tutto è tirato via con vivacità ma forte e monocorde, e i momenti di donizettiana malinconia non ricevono la dovuta valorizzazione. Eterogeneo il cast vocale. Fresca e giovanile ma voce dal volume limitato è quella della Isabella di Laura Giordano che in mezzo allo sbraitare degli altri personaggi si riprende la scena nel rondò finale «Ah non regge l’alma in petto» infarcito di agilità ben realizzate ma acuti presi un po’ perigliosamente. Il padre Olivo è affidato a Bruno Taddia che interpreta senza sfumature e con vocalità poco controllata la parte dell’antipatico genitore. Il fratello Pasquale, napoletano per convenienza teatrale, trova in Filippo Morace un interprete al solito efficace e di grande simpatia. L’innamorato Camillo ha la voce del giovane tenore Pietro Adaini, che sfoggia un invidiabile registro acuto e un bellissimo timbro luminoso impiegati in un ruolo di grosse difficoltà vocali. Nella sua aria di sortita «Parea, che irato il vento» il Le Bross di Matteo Macchioni afferma una sicura personalità e buone doti, ma la figura è troppo giovanile per il personaggio. Silvia Bertrami e Giovanni Romeo interpretano con gusto i personaggi di Matilde e Diego, Edoardo Milletti calca un po’ troppo la mano la mano nel delineare la figura di Columella.

La messa in scena di operAlchemica (Ugo Giacomazzi, Luigi Di Gangi) riduce la commedia a una farsa zeppa di gag inutili e maldestre – interminabile quella dello specchio – con una recitazione spesso sopra le righe. Coloratissimi i costumi e la scena (di Sara Sarzi Sartori, Daniela Bertuzzi e Arianna Delgado): fantasiosi e pop i primi, una cornice formata da un collage di banconote di tutti i paesi la seconda.

(1) William Ashbrook, Donizetti and his Operas, 1982

Edmea

Alfredo Catalani, Edmea

★★★☆☆

Wexford, National Opera House, 19 ottobre 2021

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No, Edmea non è Medea

Quarta delle sei opere liriche di Alfredo Catalani, Edmea fu quella più popolare nella breve carriera del compositore lucchese. Un po’ Lucia di Lammermoor, un po’ Nina pazza per amore, la vicenda è estremamente schematica e le parole del libretto di Antonio Ghislanzoni talora riecheggiano quelle dell’Aida di quindici anni prima («A noi schiuso è il ciel»…). La fonte letteraria è il dramma in quattro atti Les Danicheff, collaborazione di penna di Alexandre Dumas figlio e Pierre Corvin con lo pseudonimo di Pierre Newski, andato in scena al Théâtre de l’Odéon di Parigi nel gennaio 1876.

L’azione ha luogo in Boemia nel XVII secolo in un castello feudale sulle rive dell’Elba e nelle sue vicinanze.
Atto I. Edmea è rattristata dalla imminente partenza dell’amato Oberto per un lungo viaggio. I due innmorati giurano sull’effigie della defunta madre di lui di amarsi eternamente. Ulmo, innamorato di Edmea pur sapendo del sentimento che la lega ad Oberto, spera che la partenza di quest’ultimo gli apra la possibilità di conquistare il cuore di Edmea. Il Conte, che conosce e disapprova l’amore tra il figlio ed Edmea, decide, in virtù della sua autorità, che Edmea andrà in sposa ad Ulmo. Ulmo chiede ad Edmea di unirsi a lui come sorella, se non lo può amare, ma Edmea si dispera. Edmea, forzata a firmare l’atto nuziale, si getta disperata nel fiume Elba che scorre nei pressi, nel quale, inseguendola, scompare anche Ulmo.
Atto II. Edmea e Ulmo sono riusciti a scampare alle acque del fiume, ma Edmea, smarrita la ragione, crede di essere la fata dell’Elba alla ricerca di un re che un tempo l’amò. I due giungono in una taverna, dove Ulmo si presenta come fratello di Edmea. Poiché l’oste rifiuta di alloggiarli, vengono invitati da Fritz e da altri giullari, in viaggio verso la dimora del barone Waldeck che festeggia la nascita del primo figlio, a mettersi in cammino con loro. Tra gli invitati di Waldeck figurano anche il Conte e Oberto, che però, ancora disperato per la perdita di Edmea, si aggira cupo nel palazzo senza partecipare all’allegria generale. Quando i giullari giungono al palazzo, subito Oberto riconosce tra le loro la voce di Edmea, che al rivederlo, tra lo stupore di tutti, ritrova la ragione. Oberto, lanciando un’occhiata di sfida al padre, fugge con Edmea, lasciando Ulmo nella disperazione di aver salvato la giovane solo per riconsegnarla al rivale.
Atto III. Oberto ha ricondotto Edmea nella sua dimora, ma è all’oscuro delle nozze celebrate con Ulmo, che Edmea gli rivela nei pressi della tomba della madre di Oberto, che un tempo, morente, aveva benedetto l’unione tra Edmea e il figlio. I due progettano di fuggire, quando giunge Ulmo, pallidissimo. Oberto lo minaccia con un pugnale, ma Ulmo rivela che ha deciso di uccidersi per eliminare ogni ostacolo all’unione tra lui ed Edmea. Rassicurando Oberto che Edmea è ancora pura, Ulmo chiede come unica ricompensa, quando sarà morto, di ricevere da Edmea un bacio in fronte: è certo che lo sentirà nel cuore. Oberto si placa e Ulmo muore. Giunge il Conte, portando a Oberto la notizia che ha ottenuto lo scioglimento delle nozze. Oberto mostra al padre il cadavere di Ulmo e mentre Edmea esaudisce l’ultimo desiderio del defunto chiede a tutti di prostrarsi come all’altare di un santo.

Edmea fu presentata con discreto successo il 27 febbraio 1886 alla Scala sotto la bacchetta di Franco Faccio per poi non rientrare quasi più nei cartelloni dei teatri. Una registrazione dal vivo dal Teatro del Giglio di Lucca nel 1989 non è riuscita a ravvivarne l’interesse e ci voleva Francesco Cilluffo, nella sua instancabile e devota ricerca delle “gemme” di questo repertorio, per riportare alla luce questo frutto di un’epoca passata.

Il nome della protagonista è l’anagramma di quello di Medea, ma qui l’aspetto tragico è inficiato dalla sbrigatività dell’azione che tocca momenti di involontario umorismo: in meno di un minuto Edmea firma l’atto di nozze, lancia la sua sfuriata («Tentaste farmi spergiura… No, v’ingannaste»), corre al terrazzo, esce precipitosamente dal castello, si getta nell’Elba che scorre lì vicino e scompare nei flutti assieme ad Ulmo che si è lanciato al suo soccorso. Tutto avviene in maniera così repentina che quando il coro annuncia «Ulmo tra i vortici già s’è lanciato… | dalla corrente vien trascinato…[…] Sommersi entrambi! Orrore! Orrore!», il cantante è ancora lì sul palcoscenico…

Le convulse pagine si placano in turgidi ariosi e rapinose romanze in cui Catalani rivela la sua felice vena melodica richiedendo nello stesso tempo ai cantanti una vocalità generosamente dispiegata. Non si fa pregare a tal proposito il tenore Luciano Ganci, Oberto passionale e a suo agio nei marosi di un ruolo trascinante, ma talora lo si vorrebbe ascoltare anche non solo forte e fortissimo. Oberto ha la sua prima e unica pagina solistica soltanto nella scena quarta del secondo atto («Forse in quest’astro pallido»), ma da allora i suoi interventi nei duetti e nei concertati sono sempre più intensi. La parte del titolo trova nel soprano Anne Sophie Duprels un’interprete dal timbro a dir poco particolare, dalla dizione misteriosa e dagli acuti penetranti. L’espressione è temperamentale e la recitazione datata, in un certo senso adatta al personaggio tormentato e sospeso tra follia e realtà. Dalla melanconica ballata «Allor che il raggio de’ tuoi sorrisi» all’intensità del giuramento «Dinanzi a questa immagine» allo struggente «O bel sogno d’amor di speranza infinita» del terzo atto, la parte di Edmea offre a una prima donna la possibilità di esprimere una grande varietà di colori e di esibire una impegnativa linea vocale. Il baritono Leon Kim è convincente nella parte del rassegnato Ulmo, votato al sacrificio. Oberto alla fine lo riconoscerà («Prostratevi come all’ara di un santo») davanti al cadavere del suo rivale. È l’unico personaggio che non si esprima sopra le righe e il caldo timbro della voce è un piacevole contrasto alle intemperanze vocali dei due protagonisti principali. Anche a lui è destinata una pagina solistica di grande intensità, l’intera scena terza dell’atto primo con l’aria «Divora le lacrime insensate» di grande drammaticità. Meno interessanti sono i cantanti dei ruoli secondari.

Per rendere accettabile il drammone di Edmea occorre un direttore che creda nella sua musica e che ricrei con amore un lavoro che altrimenti suonerebbe solo magniloquente. Cilluffo riesce a ottenere dalla non esaltante orchestra del Wexford Festival una verità che rende plausibile la vicenda ed esalta le finezze strumentali di questa partitura. L’ouverture era stata drammatica e piena di quel pathos melodrammatico che pervade l’opera alternandosi ai momenti spensierati dell’arrivo dei giullari e della festa del secondo atto,  pagine che ricevono il giusto colore sotto la sua bacchetta.

La regista Julia Burbach trasporta la vicenda dal XVII secolo agli anni ’50 del secolo scorso leggendola con gli occhi della protagonista femminile. Si tratta di un lungo flashback in cui la scenografia di Cécile Trémolières gioca un ruolo essenziale: nel primo e nel terzo atto vediamo due stanze identiche, uno specchio dell’altra – come nella Rusalka di Carsen. In quella capolvolta in basso domina il subconscio tormentato della donna, in quella superiore la realtà. Non convincente del tutto, lo schema è comunque abbandonato nel secondo atto, quello più onirico, dove in un ambiente unico dominano i costumi fantasiosi, disegnati dalla stessa scenografa. Giustificati dal tema della festa, lo è un po’ meno quello dell’oste vestito come un ballerino di flamenco.

Grazie dunque al Festival di Wexford per averci fatto conoscere questa curiosità. Non ha portato alla luce un capolavoro nascosto, ma un interessante documento del gusto di un passato definitivamente superato.

Che originali! / Pigmalione


Giovanni Simone Mayr, Che originali!

Gaetano Donizetti, Pigmalione

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2017

(diretta streaming)

Maestro e allievo riuniti in un originale dittico

A Bergamo il Festival Donizetti prrsenta un dittico formato da due brevi opere di Giovanni Simone Mayr e Gaetano Donizetti, ossia il maestro e l’allievo. Il primo con un lavoro della maturità, il secondo con la sua prima opera.

Che originali! è una farsa musicata da Mayr per il Teatro San Benedetto di Venezia dove andò in scena il 18 ottobre 1798. Il libretto di Gaetano Rossi è basato su una pièce francese del 1779 che mette in burla un fanatico di musica. Qui ci sono anche le ossessioni metastasiane della figlia.

Biscroma e Celestina, servitori nella casa di Don Febeo, un nobile di strette vedute e fanatico per la musica (anche se dilettante), decidono di aiutare la figlia maggiore del padrone, Aristea, lei infatuata dalla poesia di Metastasio, a sposare il suo innamorato Don Carolino. Don Febeo non solo vuole che Aristea e l’altra figlia, l’ipocondriaca e depressa Rosina, diventino affermate musiciste, ma anche che trovino un marito con un notevole talento musicale. Don Carolino, nonostante sia di rango aristocratico è musicalmente incapace agli occhi di Febeo e a causa della sua ignoranza musicale viene cacciato da Febeo. Avendo questi bisogno di un nuovo staffiere, si presenta un certo Carluccio, ma Febeo vuole che anche i suoi servitori se ne intendano di musica, perciò lo rifiuta. Carluccio risponde per le rime mettendosi a cantare e Don Febeo si convince ad assumerlo. Intanto Don Carolino con l’aiuto di Biscroma ritorna mascherato per farsi assumere come segretario. Per metterlo alla prova, Don Febeo gli detta alcune note, ma per colpa della sua ignoranza in fatto di musica viene smascherato. Don Febeo ora si deve recare all’Accademia musicale di cui è presidente per presentare la nuova opera lirica Don Chisciotte che però non piace. Si presenta nuovamente Don Carolino nei panni di un famoso maestro di cappella, tale Signor Semiminima. Don Febeo, suo grande ammiratore, va in uno stato di totale confusione, e quando Semiminima/Don Carolino chiede la mano di Aristea, gliela concede.

L’opera fu ripresa con diversi titoli: Gli originali, Il pazzo per la musica, La melomane, Il trionfo della musica, Il fanatico per la musica e La musicomania. Come Oh! che originali fu rappresentata ad esempio nel 1829 al Carcano di Milano senza il personaggio di Rosina. Appartenente ai lavori metateatrali cari al Settecento in cui si prendono in giro manie e smanie musicali e/o operistiche, il lavoro di Mayr ha un suo interesse per l’arguto libretto e la fine orchestrazione, la vivacità dei concertati e la virtuosità degli strumenti a fiato mentre le arie solistiche caratterizzano efficacemente i diversi caratteri, ovviamente in modo farsesco.

Nella versione originale, alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala Gianluca Capuano fa del suo meglio con un’orchestra volenterosa, ma non sembra lo stesso di quando dirige Les musiciens du Prince-Monaco… Affidabile il cast di questa produzione del Festival Donizetti. Bruno de Simone è stato uno dei grandi buffi per molti anni e se ora la sua voce suona un po’ appannata non è uno svantaggio per la parte del “musicomaniaco” Don Febeo che comunque si fa valere nel duetto con Aristea e nella scena solista del suo Don Chisciotte. Leonardo Cortellazzi è perfettamente all’altezza delle esigenze vocali di Don Carolino. Angela Nisi (Donna Rosina) sfoggia una precisa coloratura e Gioia Crepaldi è una vivace e pimpante Celestina. Omar Montanari (Biscroma) non esagera nel macchiettismo ed è al suo massimo effetto nell’aria «Finché mie belle». Quantitativamente minore la parte di Carluccio in cui vediamo Pietro di Bianco parodiare l’aria mozartiana «Se vuol ballare signor contino» per farsi assumere. E poi abbiamo la prima donna, il mezzosoprano Chiara Amarù, la “metastasiasta” Aristea, che sfoggia buona voce, lettura sfumata ed espressiva nei recitativi e brillante nella cavatina «Chi dice mal d’amore», un pezzo che ha avuto una vita propria al di fuori dell’opera.

Roberto Catalano ambienta la lepida vicenda in un Novecento dai costumi pop di Ilaria Ariemme, dove fiori e glitter hanno il predominio. La scena unica di Emanuele Sinisi prevede una stanza con la parete di fondo occupata da una enorme tela di Lucio Fontna con i tagli che il servo Biscroma rattoppa con ago e filo e che quando viene rimossa mostra una parete semispecchiante in cui a tratti appare la scena della seconda parte, quella di Donizetti, con un effetto inquietante. La recitazione rimane sempre al di qua del farsesco ma il regista non sembra aver voluto cercare una particolare chiave di lettura.

Se nella farsa di Mayr il protagonista ostenta un’arte che non padroneggia e con cui ossessiona la sua vita e quella degli altri, nella “scena drammatica” di Donizetti l’artista è invece deluso dall’umanità e alla ricerca di un’ispirazione per arrivare all’autencità. Pigmalione fu scritto in sole due settimane nel settembre dal 15 settembre al 1° ottobre 1816 – com’è scritto sulla pagina autografa – da un diciannovenne Donizetti, studente di composizione a Bologna, probabilmente per la visita del maestro Mayr. Mai messa in scena, la prima rappresentazione avvenne il 13 ottobre 1960 a Bergamo. Il libretto di Simeone Antonio Sografi riprende l’episodio narrato nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Lo stesso Sografi aveva scritto il testo della Saffo (Venezia, 1794) di Mayr.

Lo scultore Pigmalione è in crisi creativa, il lavoro gli appare vuoto e senza senso. Per di più ha cominciato a provare una nuova e sconosciuta passione amorosa per una sua statua femminile le cui membra sembrano muoversi quando vi si accosta con gli strumenti del mestiere. Dilaniato da sentimenti contrastanti, si rivolge agli dèi, chiedendo pace e pietà. Ogni speranza però è vana e l’unica soluzione pare essere la morte: Pigmalione si rivolge a Venere, dea dell’amore, dicendo di voler consacrare la sua vita e la sua morte alla statua che chiama per nome: «Galatea dove sei?». Quando un fulmine la colpisce, la statua si anima e l’artista le dice di esserne stato il creatore, Galatea – scoprendo i palpiti del proprio cuore – comprende di essere viva e lo abbraccia.

«Il Pigmalione è un lavoro modesto in tutti i significati del termine» sentenzia l’Ashbrook, «La scrittura vocale ha un’estensione limitata ed è parca di abbellimenti; l’orchestra comprende un flauto, un oboe, due clarinetti, due corni, due fagotti e gli archi. È l’unica opera di Donizetti il cui autografo non prevede la divisione in numeri separati e ciò indica chiaramente che fu composta come esercitazione e non ai fini dell’esecuzione della pubblicazione. […] L’azione manca di tensione drammatica. I momenti migliori sono un grazioso ritornello in forma ternaria per flauto e archi, che accompagna la contemplazione della statua da parte dell’autore, Il recitativo in cui questi, nel sollevare lo scalpello, si accorge con spavento che un potere misterioso gli trattiene la mano; larghi intervalli nella linea vocale e dissonanze senza preparazione nell’accompagnamento illustrano qui la sua agitazione. Le arie sono brevi e simmetriche; tutti i recitativi sono accompagnati e, purtroppo, il duetto finale è il punto debole della partitura. L’influsso di Mayr è evidente in varie parti, quello di Rossini invece quasi non si nota».

Nella lunga scena solistica di Pigmalione Antonino Siragusa si conferma come sempre refrattario a qualunque ipotesi di recitazione ed è talora troppo squillante. Aya Wakizono ha poco da dimostrare nella parte di Galatea, che occupa i pochi minuti del duetto finale.

La scultura Uovo di Fontana collega iconograficamente questa seconda parte alla prima, ma la messa in scena è meno convincente e la regia non risolve il passaggio da statua a vivente del personaggio femminile. In questa ambientazione contemporanea, un’asettica camera d’albergo, le invocazioni agli dèi e a Venere suonano piuttosto incongrue.