Powder Her Face

foto © Andrea Macchia

Thomas Adès, Powder Her Face

Torino, Piccolo Regio, 10 marzo 2023

La recensione di Orlando Perera dello spettacolo al Piccolo Regio

La vita è ades

Tutto ruota attorno alla scena quarta, nella quale la focosa Duchessa di Argyll in un grande albergo londinese intrattiene l’elettricista/cameriere nella postura erotica che, per capirci, fece irruzione sulla scena mondiale nel 1998 con il caso Clinton-Lewinski alla Casa Bianca. Il bello è che questa attività oralmente impegnativa deve essere cantata, «Be good, be discret, be brutal», geme la duchessa mentre «goes off into humming» che si può tradurre come “mormorare” o anche “cantare a bocca chiusa”: appunto. Come non ricordare l’epica scena della tabaccaia nel felliniano Amarcord: «Ma cosa fai soffi? Succhia!». Ma tant’è, la fama si costruisce sull’anomalo, se no sai che noia.

Grasse risate hanno accompagnato fin dagli esordi Powder her Face (Incipriale il viso) titolo di scostumato doppio senso (1), la deliziosa operina di Thomas Adès, tecnicamente una conversation piece, che giunge al Piccolo Regio come la luce di una stella morta, nel senso che era presente nel primo cartellone concepito nel 2019 dall’allora sovrintendente del Regio Sebastian Schwarz e annullato poi causa Covid. Ritorna quindi in quest’ultima stagione firmata dallo stesso Schwarz, stavolta come direttore artistico, nel frattempo dimissionato. Insomma il dono di qualcuno che non c’è più, o meglio, che ha solo – grazie al cielo – imboccato altre strade.

Powder Her Face (1995) è la prima opera del londinese Adès, classe 1971, nome di origine siro-ebraica, astro ben vivo nel firmamento dei compositori contemporanei. Nel 2004 è seguita una shakespeariana The Tempest in scena nel novembre scorso alla Scala di Milano con notevole successo. Infine The Exterminating Angel, ovvero L’Angelo Sterminatore dall’omonimo film di Luis Buñuel, opera che ha esordito nel 2016 al Festival di Salisburgo, ma che da noi non si è ancora vista. Affascinante anche la sua produzione strumentale. 

Qui Adès e il librettista Philip Hensher (un capolavoro di humor il suo articolo pubblicato dal Guardian nel 2008, e riportato nel programma di sala, dove spiega perché non abbia mai scritto altri libretti) non hanno scomodato nessun grande autore, solo i titoli di uno scandalo sessuale che alla metà degli anni Cinquanta scosse l’establishment aristocratico della capitale inglese e aumentò a dismisura le tirature dei tabloid. E’ la storia vera di una signora assatanata, Ethel Margaret Whigham, divenuta in secondo matrimonio duchessa d’Argyll perché moglie del nobile scozzese Ian Douglas Campbell, undicesimo duca omonimo. Una delle donne più belle ed eleganti di Londra, si diceva, e altrettanto sessualmente sfrenata, il suo bagno rivestito di specchi era una sorta di set erotico-pornografico. Ma tanto lei era libera e vitale, quanto lui brutto, squattrinato e mascalzone, ancorché charmant. E qui irrompe il tema iniziale della fellatio sotto forma di quattro scatti polaroid (tecnica oggi dimenticata, ma allora d’avanguardia) databili alla metà degli anni ‘50. Vestita con tre giri di perle e nient’altro, la bella signora vi appare inginocchiata ad appagare oralmente un uomo, di cui non si vede il volto. Poi verrà fuori che si trattava probabilmente di Edwin Duncan Sandys, uomo politico, ex-genero di Winston Churchill, nientemeno. Le quattro immagini saranno allegate all’elenco di ottantotto amanti, tra cui due ministri e tre membri della casa reale, tratto dall’agenda della Duchessa, e formeranno la prova regina per la causa di divorzio con addebito, che lo squallido Duca intenta alla ex-moglie per spremerle un bel po’ di soldi. Qualcuno dice che tra i moventi di tanto astio ci fosse anche la gelosia per un amante (Campbell era in odore di gaytudine) che la moglie gli avrebbe soffiato.

L’inevitabile sentenza di condanna porterà Margaret alla rovina economica, ma anche alla gogna sociale. Mai e poi mai la società ipocrita e maschilista del tempo avrebbe permesso a una donna di rivendicare pubblicamente la propria libertà di azione e di pensiero. Le foto oscene e l’elenco di amanti degno del catalogo di Leporello sulle conquiste di Don Giovanni sono la melma in cui gli spietati tabloid inglesi inzupperanno il pane per mesi facendo a pezzi la povera duchessa. Che tuttavia mai rinnegò le proprie scelte, mai cessò di rivendicare il suo stile di vita mondano e gaudente. Finiti i denari, fu cacciata dall’hotel dove viveva, e morì pochi anni dopo in una miserabile casa di cura. Dunque sotto la chiave lieve della farsa e dell’humor, Powder Her Face va letto anche come un atto di accusa contro la cosiddetta alta società inglese. Oggi che tutto sembra lecito pur di apparire, si fa persino fatica a comprendere il senso del moralismo di allora. Non dimentichiamo però che negli stessi anni, l’Inghilterra era scossa dallo scandalo Profumo, il ministro della difesa che frequentava la modella Christine Keeler, già amante di un diplomatico sovietico. Insomma un vero calderone, e infatti la partitura adesiana ribolle di vita, come scrisse il Sunday Times. Del resto quando andò in scena Adès aveva solo 24 anni, il librettista Hensher 30. 

La vicenda si articola in otto scene, cinque nel primo atto, tre nel secondo, ognuna delle quali si svolge in un anno diverso tra il 1934 e il 1990, ma la drammaturgia non osserva l’ordine cronologico, gli eventi si sviluppano per giustapposizione, non in sequenza, e la partitura spazia, anch’essa con morbida disinvoltura, tra i generi e le epoche, dal fox-trot al tango, alla canzone You’re the Top che Cole Porter dedicò alla signora. Evidenti ispiratori del duo Adès/Hensher la viziosa Lulu di Alban Berg e The Rake’s Progress di Igor Stravinskij. Ma le ridotte dimensioni di organico rimandano a tutto un ricco ma poco rappresentato repertorio cameristico dell’opera, dal Giro di Vite di Britten, a Hin Und Zurück di Hindemith, alla stessa Scuola dei Gelosi di Salieri vista al Regio nel maggio 2022. Tutto sprigiona energia, a partire dall’indiavolata ouverture, dove il tempo indicato è un programmatico “Avanti!”. Quindici soli esecutori, ma una strumentazione lussureggiante: un quintetto d’archi, tre clarinetti, che alternano anche i sassofoni, corno, tromba e trombone, modulati da varie sordine, arpa, pianoforte (anche preparato), fisarmonica, e un vasto set di percussioni. Non bastasse, si aggiungono strumenti imprevedibili, come mulinelli da pesca e campanelli elettrici. Alla guida degli strumentisti del Regio in questo percorso impervio l’appena 23enne novarese Riccardo Bisatti, che ne esce benissimo, con un gesto tanto intenso, quanto preciso, e un fine ammiccamento qua e là allo stile del cinema muto, sempre ispirato a una sorvegliata ironia. Grandioso il tango finale alla Piazzolla, in cui la farsa stinge mirabilmente in tragedia senza quasi che ce ne accorgiamo, salvo riconoscere con una vaga inquietudine due fugaci citazioni dal quartetto schubertiano “La Morte e la Fanciulla”, e capire che siamo di fronte alla Nera Signora. Il bello di Bisatti è che non perde mai, in nessun passaggio, un profondo senso del teatro, che ci aspettiamo di apprezzare anche in prossime prove del giovanissimo direttore.

Il cast, sempre all’insegna della massima economia di mezzi, prevede quattro cantanti per diciassette personaggi. Un soprano drammatico (la Duchessa), un soprano leggero con registro molto acuto, quasi di coloratura, che interpreta la cameriera più altri cinque personaggi femminili, un tenore (il fatidico elettricista, più altri quattro), un basso (direttore dell’Hotel più altri quattro). Tutti apprezzabili i cantanti, soprattutto considerando la particolarità dei registri e dei colori richiesti. Il soprano Irina Bogdanova, appena apprezzata come Sacerdotessa nell’Aida, dal bel timbro caldo, conferisce piena dignità, e dunque un’inattesa moralità, al personaggio sfrenato della Duchessa, e per sua fortuna non deve occuparsi di altro. Amélie Hois soprano lirico leggero deve invece affrontare ben sei personaggi, La cameriera, L’amica, La cameriera che prepara il ricevimento, L’amante del Duca, La ficcanaso, La giornalista di cronaca rosa), ma soprattutto un’insidiosa tessitura sovracuta, in cui si disimpegna onorevolmente. Il tenore Thomas Cilluffo (L’elettricista, Il gigolò, Il cameriere, Il ficcanaso, Il fattorino) si destreggia a sua volta fra psicologie molto diverse, anche lui con frequenti escursioni nella voce di testa. Tutti e tre fanno parte degli Artisti del Regio Ensemble. Infine il basso Lorenzo Mazzucchelli (Il direttore dell’hotel, Il Duca, L’addetto alla lavanderia, Un ospite dell’hotel, Il giudice), emerge in particolare, grazie anche a una vigorosa presenza scenica, nel secondo atto, come Giudice che detta alla Duchessa la sentenza di condanna senza appello, e come Direttore dell’Albergo che la sfratta in maniera altrettanto ineluttabile, con un timbro profondo da divinità infernale: «It is time to vacate… Everything is spent, madam… and now you must go» (È tempo di liberare la stanza. Avete speso tutto, signora. Ora dovete andarvene).

All’altezza della complessa macchina narrativa e musicale è la regia di Paolo Vettori, che governa con lucidità i continui slittamenti dei piani narrativi e temporali per ricondurre tutto a una superiore dimensione simbolica e allontanare così ogni sospetto di feuilleton. Molto efficace l’apparizione finale del Direttore in minacciosa silhouette, citando il Commendatore del Don Giovanni. Gli danno una bella mano (ma si vede che hanno lavorato di concerto) le scene di Claudia Boasso, un grande letto matrimoniale luogo di piaceri sfrenati, che si disgrega pian piano e si muta alla fine in banco del tribunale, in desolato sfondo della disperazione. Infine vanno segnalate le pareti grigie che aprendosi svelano immagini di nudi, scatti fotografici di Carlo Mollino, l’Architetto del Teatro Regio cui si rende così omaggio a cinquant’anni dall’inaugurazione del nuovo teatro. 

Uno spettacolo vitalissimo, di impressionante attualità, minuziosamente eseguito e curato, di grande musica.

(1) Sul programma di sala il librettista Philip Hensher, intervistato da Benedetta Saglietti, afferma che l’ispirazione per il titolo era venuta dal quadro di Georges Seurat Jeune femme se poudrant (1890) ora alla Courtauld Gallery di Londra, ma ciò non toglie che il titolo abbia volutamente un doppio (se non triplo) significato nel contesto della vicenda. [N.d.R.]