Die Frau ohne Schatten

Richard Strauss, Die Frau ohne Schatten

Baden-Baden, Festspielhaus, 9 aprile 2023

★★★★☆

(video streaming)

Trionfo per l’esecuzione, perplessità per la regia

Una donna senz’ombra è una donna che non lascia traccia dietro di sé, ossia non lascia dei figli. Questo tema dell’assenza della maternità è il tema centrale della sesta opera di Richard Strauss, l’ultima della sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal. Chiaro è il libretto a questo proposito quando nel primo atto la Nutrice dice alla Imperatrice: «Ein Ungebornes | trägst du nicht im Schoß, | Schatten wirfst du keinen» (un bambino ancora non nato non porti in grembo. Non hai ombra) e poco dopo, nella seconda scena, quando è la Donna ad accusare il marito Tintore: «Dritthalb Jahr | bin ich dein Weib – | und du hast keine Frucht | gewonnen aus mir | und mich nicht gemacht | zu einer Mutter» (da due anni e mezzo sono tua sposa e non hai tratto alcun frutto da me e non m’hai resa madre). Ed è con le voci dei non nati («angeli […] abbandonati senza àncora, senza meta») che termina l’opera. Questo trionfo della vita sulla morte veniva scritto mentre si consumava la immane carneficina della Grande Guerra, iniziata nel 1911, la composizione di Die Frau ohne Schatten veniva completata nel 1919.

Lydia Steier è una regista americana i cui nonni erano fuggiti da Vienna all’arrivo dei Nazisti. Dopo aver studiato direzione al conservatorio dell’Ohio, si è trasferita a Berlino come regista assistente alla Komische Oper. Ha messo in scena Donnerstag aus Licht di Karlheinz Stockhausen a Basilea, votato dalla critica il “Miglior spettacolo del 2016”, ed è suo il Flauto magico di Salisburgo del 2018, prima donna regista al festival. Una Emma Dante tedesca per il forte carattere visionario, la simbologia religiosa e il punto di vista femminile che sta alla base della sua lettura, la Steier ambienta la vicenda nel dormitorio di un collegio femminile le cui suore con i loro copricapi inamidati sembrano uscite da un film di Fellini. Sulla parete domina l’immagine di una maternità rinascimentale mentre su uno dei lettini allineati si agita una giovane molto nervosa, si direbbe una ragazza madre che ha perso il bambino e ricorda una storia molto dolorosa con personaggi surreali: una statua di San Giorgio e il drago che si anima e diventa il messaggero Keikobad, la vergine allattante che prende una forma horror con capezzolo insanguinato. È infelice e mentre l’Imperatore e l’Imperatrice cantano la loro gloriosa canzone d’amore, nel finale la ragazza fruga inutilmente nel terreno – la terra dove è sepolto il suo piccolo? – in uno stato di triste follia. O si tratta invece delle fantasie di una ragazza orfana per i genitori che non ha conosciuto? La regista non fa molto per rendere più chiara la sua visione che tramuta la scura fiaba simbolica in un mondo irreale che strizza l’occhio al musical con l’Imperatore e l’Imperatrice che si muovono a passi di danza vestiti come Fred Astaire e Ginger Rogers – ed ecco allora che il Falco diventa una Blue Bell con le piume. Nel passaggio al mondo umano, il triste dormitorio diventa una rosea fabbrica di bambolotti, sostituti artificiali venduti per soddisfare genitori senza prole. Con le scenografie di Paul Zoller, i costumi di Katharina Schlipf, il suggestivo gioco luci di Elana Siberski, le coreografie di Tabatha McFadyen e gli interventi video di Momme Hinrichs, la Steier mette su uno spettacolo di grande complessità che talora incanta, talaltra lascia perplessi e non risolve comunque le oscurità della fiaba né riesce a dare profondità psicologica ai personaggi umani della vicenda.

Però c’è la musica, una delle più ispirate di Richard Strauss, qui affidata alla bacchetta di Kirill Petrenko. Che cosa dire della sua direzione oltre a quello già detto per la produzione di Monaco di Baviera di dieci anni fa, se non ribadire il suono virtuosistico, gli scoppi fragorosi e i momenti impalpabili, gli interludi che diventano incantati ponti sinfonici, un magico inizio del terzo atto con quel clarinetto basso, il fagotto e i contrabbassi a dare quel tono sinistro, l’estatico finale. E la leggerezza e la trasparenza di un’orchestra sterminata che conta 32 violini, 12 viole, 12 violoncelli, otto contrabbassi, due arpe, due celeste, glockenspiel, glasharmonika, otto corni (di cui 4 tube wagneriane), sei trombe, 4 tromboni, basso tuba, 4 flauti, tre oboi, 7 fra clarinetti vari, 4 fagotti e una nutrita percussione. Per di più qui ci sono i Berliner Philharmoniker e la standing ovation del pubblico alla fine è il giusto risultato di una performance superlativa «senza limiti nella sua forza, brunita nella sua perfezione, infusa di tenerezza ed empatia, da far tremare le budella», come ha scritto la stampa tedesca.

Lodata la bravura della ragazzina sempre in scena interpretata dalla giovanissima Vivien Harter, resta un cast di interpreti eccellenti: la facilità vocale dell’Imperatore Clay Hilley; la fatua Imperatrice di Elza van den Heever che solo alla fine, danzando con la sua ombra, acquista empatia; la carismatica nutrice Michaela Schuster; il magnifico Tintore di Wolfgang Koch; la convincente Donna di Miina-Liisa Värelä. Bene gli altri innumerevoli interpreti e soprattutto i cori, quello del Forum musicale nazionale di Breslavia e quello di voci bianche del Cantus Juvenum di Karlsruhe.