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Richard Strauss, Die Frau ohne Schatten
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Monaco, Nationaltheater, 1 dicembre 2013
(video streaming)
La donna senz’ombra a Monaco, 50 anni dopo
Per celebrare il mezzo secolo di vita del Nationaltheater, la Bayerische Staatsoper mette in scena il titolo con cui era stato inaugurato l’edificio risorto nel dopoguerra. E sceglie di affidare l’incarico a un discusso ma geniale regista, Krzysztof Warlikowski.
Un regista che con l’opera sembra avere un conto aperto, come dice egli stesso: «L’opera è una prigione. Il problema fondamentale e più importante sta nella misura in cui possiamo creare un’enclave di libertà al suo interno. Il compito del regista è quindi quello di iniettare nuova vita nelle strutture/costrizioni imposte dalla partitura e dalle convenzioni ossificate». E questo programma Warlikowski l’ha attuato in molte sue produzioni, ma non in questa che, pur nella modernità di visione, offre una lettura quasi didascalica della fiaba de Die Frau ohne Schatten. Certo non alla lettera: se in quest’opera Richard Strauss dimostra un certo sadismo nei confronti nei cantanti, richiedendo loro difficoltà vocali mostruose, non meno sadico sembra Hofmannsthal con scenografi e registi, visto quanto propongono le didascalie del suo libretto: «I pesciolini volano per l’aria, entrano nella stanza e atterrano nella padella, il fuoco avvampa nel focolare, una metà del letto matrimoniale si è staccata, e proprio al proscenio è comparso un giaciglio più stretto per una persona sola, mentre dietro, il letto della Donna appare velato da una cortina – e mentre avveniva tutto questo, la Nutrice e l’Imperatrice sono sparite. Il bagliore del fuoco scintilla nella stanza in penombra. La Donna sta sola e rigida per lo stupore. All’improvviso, dall’aria risuonano, come fossero i pesciolini nella padella, con angoscia cinque voci infantili. [atto I, scena seconda]». Oppure: «Il sotterraneo sprofonda. Nubi avanzano, si schiudono, scoprono una terrazza rocciosa, simile a quella vista durante il sonno dell’imperatrice. Gradini di pietra portano dall’acqua verso un imponente ingresso, come d’un tempio, fino nell’interno del monte. Un’acqua cupa, intagliata nel fondo roccioso, scorre lì dirimpetto. La porta dell’ingresso centrale è aperta. Sul gradino più alto il Messo in attesa. Spiriti serventi a destra e a sinistra. Giunge una barca navigando sull’acqua, senza nocchiero. Vi giace l’Imperatrice assopita; la Nutrice, in ginocchio accanto a lei, la tiene abbracciata, osservando intorno a sé agitata [atto III, scena seconda]».

Non è chiaro perché il regista faccia precedere a mo’ di prologo alcune scene di L’année derrière à Marienbad, il film di Alain Resnais del 1961, che con il lavoro di Strauss non sembra avere nulla in comune, se non il fatto di essere stati entrambi influenzati dalle teorie freudiane. (L’opera di Strauss era stata composta nel periodo 1911-1915, gli anni in cui la psicoanalisi diffondeva maggiormente le sue idee nel mondo, e l’Elettra di Hofmannsthal era stata chiaramente il frutto degli studi di Freud sui disturbi isterici.) Nella lettura di Warlikowski i riferimenti fiabeschi sono concentrati nelle maschere d’uccello e nella presenza di molti bambini in scena, ma i drammi delle due coppie – quella imperiale e quelle del tintore e della moglie – si svolgono negli ambienti lucidi e contemporanei disegnati come al solito impeccabilmente dalla fidata Małgorzata Szczęśniak, che si occupa anche dei costumi – ed ecco gli eleganti abiti dell’imperatrice e della nutrice, quelli più volgari della donna, quelli sciatti del marito e dei suoi fratelli tra cui il gobbo ha le fattezze di un brufoloso Rick Moranis e il monco quelle di un trucido Fonzie. L’ossessione per le icone del secolo passato sembra poi pervadere la lettura del regista: nel finale sulle pareti appaiono le immagini giganti di Marilyn, Superman, Gandhi, Cristo, Godzilla, Freud…
Per realizzare questa «ambizione senza limiti» di Richard Strauss, scende nella buca orchestrale Kirill Petrenko e fin dalle prime battute si capisce che si tratterà di una serata musicalmente memorabile. La precisione abbinata all’eloquenza drammatica, i dettagli improvvisamente rivelati, la trasparenza ottenuta nonostante l’abbondante materiale fonico, tutto è magistrale nella direzione di Petrenko. E i finali del primo e terzo atto, con quegli assoli di violino e violoncello, sono così struggenti da far male. Il maestro per di più rispetta il ruolo delle voci impegnate in una scrittura che si direbbe al limite del sadismo se Strauss non sapesse come far procurare con quelle voci sensazioni uniche. Tutti gli interpreti principali hanno la potenza di fuoco e la resistenza necessarie per arrivare indenni all’estasi del quartetto finale, soprattutto le voci femminili di Elena Pankratova, tintora di mezzi vocali sovrumani, Adrianne Pieczonka, imperatrice dai vertiginosi salti di registro e Deborah Polaski, nutrice dal timbro particolare e dalla magnetica presenza. Wolfgang Koch lascia i panni di Wotan per vestire quelli umanissimi del tintore, e Johan Botha come presenza scenica si adegua al ruolo di statua di pietra cui sarebbe destinato il personaggio dell’imperatore nella vicenda. Efficaci gli altri interpreti e i cori che lo smisurato palcoscenico del Nationaltheater fatica a contenere assieme ai tanti figuranti per gli applausi finali.

⸪