Mese: marzo 2024

Maria Egiziaca

foto © Roberto Moro

Ottorino Respighi, Maria Egiziaca

Venezia, Teatro Malibran, 8 marzo 2024

 ★★☆☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

No, non è proprio la Thaïs

Dopo 92 anni ritorna a Venezia Maria Egiziaca, l’atto unico di Ottorino Respighi che aveva visto qui la prima italiana cinque mesi dopo essere stato eseguito in versione di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932 diretto dallo stesso autore. Sarà poi riproposto nella città lagunare nuovamente nel 1956 in un trittico assieme al Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi e a Mavra di Stravinskij.

Con due sole incisioni discografiche – Bongiovanni (registrato dal vivo ad Assisi nel 1980 ma pubblicato nel 1999) e Hungaroton (1989) – non si può dire che Maria Egiziaca sia un’opera popolare, ma la sua ripresa segnala un certo interesse per la musica e i musicisti di un periodo storico in cui i compositori vollero o dovettero scendere a patti col regime fascista. Nel primo caso si può parlare di un volontario rito del consenso, nel secondo di un’inevitabile scelta per poter vedere eseguiti i propri lavori. 

È indubbio il fatto che il Ventennio sia stato un periodo in cui fu manifestato un grande interesse per la musica da parte delle istituzioni politiche, sia in termini di sostegno alle manifestazioni culturali, sia come appoggio alla musica allora affermata (il melodramma verista) o a quella d’avanguardia (il Futurismo). Si trattava ovviamente di un astuto calcolo politico: elargizioni e appoggi a musicisti ed istituzioni musicali furono presto trasformate in garanzie di controllo da parte del regime.

Se Mascagni, Giordano, Cilea, Zandonai, appartenenti alla “Giovine Scuola” del melodramma, furono musicisti in diversa misura affascinati dalla figura di Mussolini, Ottorino Respighi (1879-1936) si era ritagliato uno spazio personale. Dopo aver iniziato una carriera come pianista e direttore d’orchestra si rivolse presto alla composizione di musica orchestrale e con il poema sinfonico Le fontane di Roma (1917), ad oggi il suo brano più conosciuto, rivelò quel raffinato colore armonico e orchestrale in cui si ravvisano le influenze di una cultura straniera (soprattutto francese, tedesca e russa) se non apertamente osteggiata certamente non favorita dal clima autarchico dell’epoca. Respighi fu comunque  il compositore preferito dal Duce e da lui nominato Accademico d’Italia, il riconoscimento più prestigioso a cui si poteva aspirare sotto il Fascismo.

Respighi è stato autore di una decina di melodrammi tra cui appunto Maria Egiziaca, mistero in un atto formato da tre episodi tratto da Le vite dei santi di Domenico Cavalca e da una narrazione di Sofronio di Gerusalemme sulla figura di una prostituta egiziana di nome Maria che si redime e termina i suoi giorni nel deserto vivendo di preghiera. La storia è di dubbio valore storiografico, ma effettivamente nell’entroterra palestinese sembra sia presente fin dal V secolo la tomba di una santa eremita di nome Maria.

Primo episodio. Al porto di Alessandria, Maria, desiderosa di intraprendere un viaggio e cambio fare la sua vita, chiacchiera con un marinaio in procinto di partire con una nave. Nei pressi della nave incontra un pellegrino al quale domanda dove sia diretto. L’uomo dichiara la sua fede: si sta recando in Terra Santa. Colpita, la ragazza gli chiede se i marinai saranno disposti a darle un passaggio e si dice disposta a offrire loro il suo corpo. Il pellegrino, sconvolto, si allontana salendo sulla nave. Di fronte alla proposta di Maria, i marinai invece accettano entusiasti. Al momento della partenza, la donna sente una misteriosa voce che la richiama alla terra d’oltremare.
Secondo episodio. Nel giorno dell’Esaltazione della Croce, fuori dal tempio di Gerusalemme, un povero e un lebbroso attendono di entrare per poter baciare la croce ed essere benedetti. Poco dopo il loro ingresso, anche Maria arriva al tempio, accompagnata da una cieca. Prima che ella possa seguire i fedeli, le si para davanti il pellegrino che di nuovo la maledice. Dopo aver mosso pochi passi verso la porta, Maria sente una misteriosa forza che la trattiene. La ragazza, in preda a un rapimento estatico, vede comparire per un istante l’Angelo di Dio e si abbatte supplicante sulla soglia, confessando i suoi peccati e chiedendo perdono, per poi entrare nel tempio.
Terzo episodio. Diversi anni dopo, l’abate Zosimo si trova in ritiro quaresimale in una caverna nel mezzo del deserto, fuori dalla quale trova una fossa scavata da un leone. Si avvicina una figura indistinta: è Maria, ormai anziana dopo aver trascorso la sua vita errando per il deserto in penitenza. L’abate è convinto che la fossa sia stata scavata dal leone per lui, ma Maria gli racconta la propria storia e gli rivela che l’Angelo di Dio l’ha guidata lì, in fin di vita, perché l’abate potesse assolverla infine dai suoi peccati: la fossa è per lei. I due si riuniscono in preghiera e mentre Maria si china sulla fossa, gli Angeli intonano una lode al Signore.

Il libretto, che alterna settenari e ottonari di gusto datatissimo e infuso di un dannunzianesimo di bassa lega, è di Claudio Guastalla, che per Respighi scriverà i libretti di altre sette opere. L’ingenuità del testo si affianca a lemmi desueti e a una lingua ricercata che tocca il sublime del ridicolo in versi in rima baciata quali «Schiuma il tuo furore e guizza, | uomo, su la bocca vizza, | e la mia voglia più attizza», mentre poco prima ‘struzzo’ rimava con ‘aguzzo’ e ‘puzzo’ e ‘occhi’ con ‘ginocchi’ e ‘accocchi’… Già la critica del tempo aveva definito i versi «non accettabili, [tali] da togliere qualsiasi voglia al musicista di adattarvi le sue note. Il fatto è che il linguaggio è così artefatto, che l’umanità di Maria e delle umili persone che ella avvicina non si sente mai viva e profonda».

Ad accompagnare questa vicenda ingenuamente agiografica, con risvolti addirittura risibili, povera di senso drammatico e con personaggi bidimensionali, c’è una musica ben costruita ma che si limita ad accompagnare e amplificare il canto delle cinque voci – un soprano (Maria); un baritono (Il pellegrino e L’abate Zosimo), un tenore (Il marinaio e Il lebbroso), un altro soprano (La cieca, La voce dell’angelo) e un mezzosoprano (L’altro compagno e il Povero). La vocalità è quella distesa e declamata dello stile gregoriano con pochi abbellimenti che prendono la forma di semplici vocalizzi. O del canto popolare arcaizzante, dove la parola è sempre chiaramente espressa, tanto da rendere inutili i sopratitoli in questo caso. Le armonie non sono particolarmente ricercate e la timbrica orchestrale è ben lontana dalle prodezze coloristiche di certe pagine sinfoniche di Respighi. Quello che prevale è il gusto per l’“antico” – c’è anche un momento in cui il clavicembalo accompagna un recitativo secco – con forme e stilemi del passato. Un diverso colore strumentale distingue i personaggi soprattutto nella prima parte e l’opera termina in modo trionfale su un accecante accordo in mi bemolle maggiore eseguito in fortissimo dall’orchestra, dal coro a tre voci e da Zosimo ma a questo proposito c’è da chiedersi se si tratti dell’estrinsecazione di un sincero senso religioso oppure di una finzione puramente estetizzante quella espressa dal compositore. La risposta sembra propendere per la seconda ipotesi. 

Il maestro concertatore Manlio Benzi fa del suo meglio per dare un senso a un lavoro che si salva soprattutto per la brevità, poco più di un’ora, così da evitare lo spettro incombente della noia. Encomiabili si rivelano anche i cantanti che si sono prodigati in quello che sarà verosimilmente un unicum nella programmazione lirica mondiale. Nella parte del titolo Francesca Dotto delinea con efficacia le tre fasi dell’“evoluzione” del personaggio di Maria: nella prima parte frivola prostituta, nella seconda anima tormentata verso una redenzione che comunque si rivela piuttosto repentina – qui non c’è nessuna “méditation”… – e infine prosciugata anacoreta che aspetta la morte nella terza. Anche il timbro e l’approccio vocale si adeguano alle diverse esigenze espressive così da rendere un po’ più credibile un personaggio che richiama alla lontana quello della Thaïs. Se l’Athanaël di Massenet alla fine si dannava affascinato della cortigiana alessandrina in una traiettoria opposta a quella della donna, qui l’abate Zosimo è un personaggio monodimensionale e unidirezionale a cui Simone Alberghini cerca di dare qualche sprazzo di verità con una tenuta vocale sicura e ben dosata e un fraseggio espressivo. Non si risparmia vocalmente il marinaio di Vincenzo Costanzo che apre l’opera con il suo intervento generoso per affrontare dopo con sobrietà quello del lebbroso. In questa produzione veneziana i ruoli vocali sono un po’ diversi da quelli previsti dal libretto originale: a un altro tenore, Michele Galbiati, tocca il personaggio del Compagno, mentre manca il mezzosoprano per L’altro compagno e Il povero, affidati qui al tenore Luigi Morassi. Con Ilaria Vanacore (La cieca, La voce dell’angelo) e William Corrò (Una voce dal mare) si completa il meritevole cast vocale.

«Un grande trittico chiuso, con la bella cornice scolpita e dorata, poggia su tre gradini alla parete di tessuto violaceo. Due angeli biancovestiti, esili e apteri, escono dalla parete, dall’uno e dall’altro lato del quadro: lievi e silenziosi aprono i portelli del trittico, e dileguano». Così inizia il libretto stampato da Ricordi per la prima al Teatro Goldoni il 10 agosto 1932 e con uno certo guilty pleasure si aspettava quello che avrebbe saputo fare un maestro della scena quale Pier Luigi Pizzi, magari con un tocco irriverente. E invece… Grande delusione: il regista/scenografo/costumista ha preso del tutto sul serio la vicenda e se la pantomima dei due angeli, prevista nel preludio introduttivo, faceva sperare bene, qui invece la chiave di lettura è al grado zero dell’illustrazione. Il decano del teatro italiano si è convertito questa volta alla video grafica e invece delle sue eleganti architetture abbiamo un led wall su cui si proiettano immagini marine, edifici antichi che sembrano costruiti dall’intelligenza artificiale in stile un po’ surreale, simboli cristologici, tra cui una selva di croci simile a quella della Thaïs che il Maestro aveva presentato alla Fenice nel 2007. L’unico elemento tridimensionale in scena è costituito da una stilizzata imbarcazione in legno su cui sale, assieme a tre baldi marinaretti, felice – e invidiata da buona parte del pubblico – la nostra intraprendente peccatrice. Negli intermezzi orchestrali una danzatrice/controfigura (Maria Novella Della Martira) si sostituisce a Maria in prevedibili movimenti coreografici.

Il regista ha modificato in alcuni punti il testo del Guastalla perché oscuro, ma così si sono perse alcune rime senza riuscire comunque a renderlo maggiormente accessibile al pubblico di oggi. Che poi l’originale ‘puzzo’ diventi ‘lezzo’ mi sembra un’aggiunta di dannunzianesimo di cui non si sentiva proprio il bisogno.

Se ieri a Roma la messa in scena di quell’altro atto unico del Novecento che è la Salome di Richard Strauss è stata accolta da qualche dissenso da parte di un pubblico urtato dalla disturbante lettura di Barrie Kosky, questa sera quello veneziano ha digerito e applaudito senza riserve la proposta del Teatro la Fenice. La brevità, gran pregio.

Salome


 
foto © Fabrizio Sansoni

Richard Strauss, Salome

Roma, Teatro dell’Opera, 7 marzo 2024

 ★ ★ ★ ★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Salome, un incubo nero

Che cosa hanno in comune Sarah Bernhardt, Theda Bara, Patrick Dupond e Montserrat Caballé? Che hanno interpretato l’inquietante personaggio di Salome rispettivamente a teatro, al cinema, in un balletto, all’opera.

Soggetto ambito dal cinema muto, prima ancora che Strauss presentasse la sua Salome, la “danza dei veli” aveva avuto innumerevoli versioni coreografiche, da Loïe Fuller a Ida Rubinstein a Mata Hari, mentre del dramma di Oscar Wilde da cui deriva si ricordano le discusse interpretazioni di Carmelo Bene e di Lindsay Kemp.

L’opera è stata spesso presente nei cartelloni del Costanzi – l’ultima volta fu nel 2007 – il teatro che ora ospita in coproduzione con l’Opera di Francoforte lo spettacolo in cui il regista Barrie Koski fornisce una prospettiva diversa dal solito: gli spettatori assistono allo svolgimento della nota vicenda come in un incubo notturno, dal fondo buio della cisterna di Jochanaan. «Wie schwarz es da drunten ist! Es muss schrecklich sein, in so einer schwarzen Höhle zu leben! Es ist wie eine Gruft…» (Come è scuro là in fondo! Deve essere orribile vivere in una grotta così nera… È come una tomba…), dice Salome nella seconda scena e infatti il palcoscenico è rigorosamente vuoto e buio. La scenografia di Katrin Lea Tag, che firma anche i costumi, è praticamente assente, le immagini sono bandite, solo Salome e quelli che interagiscono con lei sono illuminati da uno spot luminoso, un raggio di quella Luna onnipresente nel testo. Tutti gli altri personaggi sono solo voci. L’unico oggetto in scena è un gancio da macellaio che nel finale scende dall’alto nel buco del pavimento e risale con la testa del profeta. Un momento di tensione tremenda, quasi insopportabile con quel rullo dei timpani in fortissimo nell’orchestra.

Salome è frequentemente rappresentata ed è un lavoro su cui si è posata la polvere della tradizione. Il regista australiano-tedesco si impegna a eliminare anche il minimo granello di quella polvere sbarazzandosi primo di tutto del kitsch biblico nelle architetture scenografiche e nei costumi: le prime semplicemente non esistono, Kosky rinuncia a ogni forma di visualizzazione; i secondi sono contemporanei, doppio petto grigio su camicia nera per Erode, tailleur Chanel per la moglie, divisa militare per Narraboth e completo nero per il paggio.

Salome è in scena prima ancora che inizi la musica, quando nel buio si sentono rumori inquietanti provenire da ogni punto della sala del teatro. La donna appare con un enorme copricapo piumato che la trasforma in un’attinia/uccello del paradiso, fasciata in un abito lungo in luccicante lamé, abito che cambierà in continuazione rimanendo però nell’ambito dei tre colori simbolici, bianco (verginità), rosso (desiderio) e nero (morte), che sono anche i colori delle caratteristiche del profeta ammirate dalla donna: il bianco della pelle, il rosso delle labbra, il nero dei capelli. Nella sua messa in scena «testo e musica parlano da soli, sono così potenti da non poter essere illustrati», dice il regista. Qui non si viene distratti da seduzioni visive, tutto si concentra sui pochi personaggi illuminati dalla luce fredda ed essenziale di Joachim Klein. Vista e udito giocano con ambiguità in questo lavoro di Strauss in cui l’ingresso in scena dei due personaggi principali è teatralmente differito: di Salome sentiamo parlare dalle guardie che la descrivono e del profeta sentiamo la voce prima di vedere la sua figura. Ma Kosky sceglie invece di mostrarci subito la principessa che è quasi sempre in scena e ne fa il perno su cui ruota la vicenda, il motore attivo. Salome qui non è una figura passiva, vittima delle attenzioni del patrigno, come si è visto in altre produzioni. Per Kosky non si tratta di un dramma borghese, di una storia padre/patrigno-figlia. Il regista restituisce alla vicenda la sua carica intensa e scandalosa di storia d’amore, perverso sì, ma sempre amore. I duetti sono ad alta tensione erotica quando ai sempre più violenti insulti del profeta la principessa di Giudea risponde con crescente eccitazione. Anche Jochanaan viene in parte sedotto dalla ragazza che si avvinghia al suo corpo, ma è solo un momento e la repulsione per la «figlia di Babilonia» prevale nell’integerrimo profeta. 

La tensione culmina nella scena della “danza dei sette veli”, qui del tutto simbolica: la donna estrae dal suo sesso con crescente eccitazione una interminabile treccia di capelli, cresciuti dentro di lei da quella ciocca che lei aveva poco prima strappato al profeta. E mai come qui la sensualità quasi lasciva della musica è messa in evidenza, con quel crescendo nel ritmo e nel volume sonoro che allude a un orgasmo – trent’anni prima della Lady di Šostakovič! Molto efficace è anche la coppia Erode/Erodiade, una coppia quasi buffa in cui l’arroganza e la debolezza del primo si intrecciano con la cinica sicurezza della seconda che sa esattamente quello che vuole: la distruzione del profeta.

Le prime interpreti di Salome furono cantanti wagneriane – «Salome era vista come una continuazione del Tristan e la principessa giudaica la sorella isterica di Isolde», scrive sul programma di sala Antonio Rostagno – ma per la prima italiana al Regio di Torino il 22 dicembre 1906, il direttore, lo stesso Strauss, volle la bellissima Gemma Bellincioni, la Santuzza di Cavalleria Rusticana, che danzò di persona senza servirsi della controfigura, quella «pantomima dell’eros femminile, opposto alla moderazione della donna […] proposta nell’Italia giolittiana» (ancora Restagno). Vocalmente si passava così ad un’interprete del repertorio verista, dalla tecnica vocale imperfetta ma piena di temperamento. Curiosamente, il giorno prima, alla Scala di Milano, Toscanini dirigeva la stessa opera in una prova aperta a un ristretto pubblico. Come sarebbe interessante poter confrontare i due stili interpretativi, quello misurato e distaccato del tedesco e quello vigoroso e quasi aggressivo dell’italiano! 

Marc Albrecht, indiscussa autorità nel repertorio tardo-romantico, sceglie una terza via. Salome è un’opera che spalanca una finestra su un paesaggio musicale completamente nuovo e la sua lettura mette in luce, oltre un secolo dopo, la grande modernità della scrittura straussiana e approfitta dell’occasione offerta dall’Opera di Roma per ridare nuova vita a questa «musica da camera scritta per cento musicisti», tanti sono i particolari strumentali presenti nella partitura. Il suo è un approccio analitico che però tiene sempre conto delle esigenze espressive del testo e nella sua direzione si alternano con sapienza sia il dramma sia la sensualità, senza che una prevalga sull’altra. Molta attenzione è riservata all’equilibrio tra le voci in scena e l’orchestra, soprattutto nel caso della Salome di Lise Lindstrom, che sostituisce l’originalmente prevista Sara Jakubiak, che ha voce sicura negli acuti ma non nel registro medio-basso. Il suo particolare timbro un po’ acerbo esalta il carattere previsto dal regista: una bambina più che una donna, capricciosa ma che sa quel che vuole e lo ottiene, quasi una femminista in anticipo sui tempi. Con la duttilità della voce e una forte presenza scenica il soprano americano delinea alla perfezione la complessità del personaggio.

Non ha problemi di proiezione vocale invece lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, basso-baritono che accentua il tono umano del profeta con un fraseggio espressivo e una grande attenzione alla parola. Il sempre peculiare tenore John Daszak mette in scena un Erode non grottesco, come spesso viene raffigurato, ma tormentato non solo dalla paura ma anche dalla temibile moglie, una efficace Katarina Dalayman. Un magnifico Joel Prieto dà voce all’unico personaggio umano della vicenda, quel Narraboth giovane e appassionato che presto si suicida ed esce così di scena. Eccellente anche il Paggio di Karina Kherunts mentre nella folta schiera degli altri personaggi, in ombra visivamente ma ben presenti vocalmente, si distinguono Michael J. Scott, Christopher Lemmings, Marcello Nardis, Eduardo Niave, Edwin Kaye (i cinque litigiosi ebrei), Zachary Altman e Nicola Straniero (Soldato e Nazareno), Alessandro Guerzoni (Un uomo di Cappadocia) e Giuseppe Ruggiero (Uno schiavo). Ottima prova quella fornita dall’Orchestra del Teatro per bellezza di timbro strumentale, duttilità e precisione nei momenti più complessi.

Il pubblico ha salutato con molta soddisfazione la parte musicale e i suoi interpreti ma ha espresso qualche sparuto dissenso per la parte visiva. Togliere la polvere va bene, ma lasciateci i sette veli, sembrava voler intendere qualcuno senza rendersi conto di aver invece assistito a uno spettacolo quasi memorabile per forza teatrale e carico di una tensione che non ha un momento di stanchezza.

Der singende Teufel

Franz Schreker, Der singende Teufel

Bonn, Stadttheater, 19 maggio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Un Parsifal infelice

L’arcano e magico potere della musica sembra il tema ricorrente delle opere di Franz Schreker: Der ferne Klang (1912), Das Spielwerk und die Prinzessin (1913) poi Der singende Teufel, lavoro iniziato nel 1924, ispirato al testo di Heinrich von Kleist Die heilige Cäcilie oder die Gewalt der Musik (Santa Cecilia e il potere della musica) e originariamente intitolato Die Orgel (L’organo) su libretto del compositore stesso.

Fino agli anni ’20 Franz Schreker è stato l’unico compositore d’opera nel mondo di lingua tedesca le cui esecuzione fossero in grado di tenere il passo con quelle di Richard Strauss. Schreker era uno dei preferiti dalla critica, ma questo status iniziò a sgretolarsi con la prima di Irrelohe a Colonia nel 1924 quando la critica cambiò opinione senza che Schreker avesse deviato dalla strada che aveva percorso e per la quale era sempre stato acclamato. In quell’anno i nazionalsocialisti, sempre più potenti, gli si rivoltarono contro. Le condizioni non potevano essere peggiori quando il 10 dicembre 1928 Der singende Teufel fu rappresentato all’Opera di Stato di Berlino sotto la direzione musicale di Erich Kleiber. Disturbatori di chiara matrice nazista disturbarono la prima dell’opera, ma non riuscirono a impedirne il successo, almeno presso il pubblico. La critica gli fu invece contro e altri teatri, tra cui Breslau, Praga, Monaco di Baviera e Francoforte, abbandonarono i loro piani di mettere in scena l’opera. Solo due ulteriori produzioni ebbero luogo durante la vita del compositore: a Wiesbaden (1929) e a Stettin (1930). Dal 1933 in poi, le sue opere non poterono più essere eseguite in Germania e scomparvero anche dal repertorio internazionale. Solo molto lentamente, a partire da alcune produzioni radiofoniche tra gli anni ’40 e ’60, Franz Schreker tornò alla coscienza pubblica e sul palcoscenico dell’opera. Nonostante questa rinascita, tuttavia, Der singende Teufel nella sua forma originale è rimasto nell’ombra fino ad oggi.

Atto I. La stanza di Amandus. Amandus ha costruito con successo un piccolo organo. Padre Kaleidos pensa che questo sia il momento giusto per convincere Amandus a completare la costruzione dell’organo gigante che suo padre aveva iniziato. Sconvolto dalla proposta, Amandus chiede tempo per riflettere, poiché ha scoperto che suo padre non è riuscito a completare l’organo a causa del progredire della follia e della successiva morte per incendio. Grotta della sacerdotessa Alardis. I pagani cercano la fanciulla più bella per il rito di primavera: Lilian viene scelta per consacrarsi a colui che guiderà i pagani contro i chierici cristiani. Notte. Lilian cerca invano di conquistare Amandus come capo dei pagani.
Atto II. L’ex laboratorio del padre di Amandus. Tormentato dal fatto di non essere riuscito a terminare il lavoro sull’organo gigante, Amandus rifiuta tuttavia di accettare il sostegno di Kaleidos. Quando Amandus sente i primi rumori dei riti pagani, si precipita fuori per seguire la processione pagana. Notte di luna ai margini della foresta: Alla festa del solstizio, Alardis proclama una religione della natura e deride i sacerdoti cristiani. Mentre la gente si scatena, Amandus cerca di portare via Lilian da questo luogo, ma la folla inizia a prendersi gioco di lui. Un cavaliere di nome Sinbrand lo sopraffà in duello, lo fa legare e rapisce Lilian. Padre Kaleidos trova Amandus e lo riporta al monastero dove diventa monaco.
Atto III, Chiostro del monastero. Amandus ha finalmente completato l’organo. Tuttavia, Kaleidos non gli concede la pace: ora deve usare l’organo per sopraffare i pagani saccheggiatori con l’aiuto della parola di Dio. Giardino del monastero. Lilian, segnata dalla terribile esperienza di essere prigioniera di Sinbrand, avverte Amandus dell’imminente attacco pagano. In preda al panico, Amandus chiama a raccolta i monaci per difendere il monastero. Amando ha la visione che il suono dell’organo terrà lontana la folla impazzita. All’inizio la visione di Amandus si avvera, ma poi le nuove “dolci” canne del suo organo si guastano. La sua musica si interrompe in accordi dissonanti e la folla prende d’assalto il monastero in preda a una rabbia distruttiva.
Atto IV. Radura della foresta fuori dalla grotta di Alardis, quattro settimane dopo. Lilian aiuta Amandus a riprendersi. Un pellegrino moresco gli fa visita per chiedere aiuto per il suo organetto rotto. Lilian non vuole che il pellegrino veda Amandus. Infatti, non appena Amandus vede l’organetto, i ricordi del lavoro fallito di una vita si risvegliano con terribile forza. Per liberare il suo amante da questo peso, Lilian vede solo una via d’uscita: distruggere l’oggetto che lo riempie di orrore tormentoso. Si allontana in fretta. Ben presto Amandus apprende la notizia sconvolgente che Lilian ha dato fuoco al monastero e che tra le fiamme l’organo incandescente ha iniziato a produrre delicati suoni celestiali. Piazza davanti al monastero incendiato. Amandus incontra Lilian, che ora è trasfigurata e sbocciata in bellezza. Sapendo di essere riuscita a rompere l’incantesimo su Amandus, crolla a terra morta.

Nella vicenda non si sviluppa tanto una trama quanto una serie di situazioni (la costruzione dell’organo, i preparativi del sabba pagano, la guerra tra i pagani e i monaci, la lotta interiore di Amandus) che si incentrano sui tre personaggi principali Amandus, Kaleidos e Lilian, che potrebbero essere messi in parallelo con i wagneriani Parsifal, Klingsor e Kundry. Decisamente antiwagneriana è però la musica, con uno stile brutalistico che nel corso dell’opera lascia il passo a qualche tentativo melodico. Oltre alla politica, c’era lo Zeitgeist musicale che si allontanava dal tardo romanticismo di cui Schreker si era fatto portavoce fin dal clamoroso successo di Der ferne Klang. La musica del nuovo lavoro appariva ostica ai fan di Schreker; l’eros e la dolcezza qui avevano ceduto il passo a un contrappunto rigoroso e a uno stato d’animo parsifaliano di rinuncia. Nella partitura sorprendente è la forza dirompente dell’organo quando il suo suono sfugge di mano e scatena la folla.

La prima produzione in tempi moderni di Der singende Teufel è stata quella dell’Opera di Bielefeld nel 1989. Ora l’Opera di Bonn lo affida alla regista Julia Burbach che così ha dichiarato: «A prima vista, il libretto contiene un conflitto tra due religioni e ci troviamo in un contesto medievale. Tuttavia, un conflitto tra due gruppi religiosi è sempre presente in qualsiasi periodo storico. Ho voluto trovare un’astrazione per portare la storia fuori dal Medioevo e creare una cornice in cui due forze antagoniste semplicemente si scontrano. Inoltre, associo il protagonista Amandus in modo molto specifico a Franz Schreker, artista e uomo di origini ebraiche che si è trovato all’interno di un conflitto politico del suo tempo vivendo in un mondo in cui alla fine ha perso tutto, passando dall’essere un celebre compositore a un artista espulso, perseguitato e dimenticato. Franz Schreker ha “fallito” come artista ebreo a causa delle circostanze politiche. Der singende Teufel ha molto a che fare con la vita del compositore stesso, che si è trovato tra contraddizioni e forze esterne. Così come l’organo è strumentalizzato nel brano come un’arma, lo stesso vale per un’opera d’arte in generale, in questo caso per le opere di Schreker. Non appena l’opera è terminata, si formano opinioni, viene criticata, viene usata e abusata, sviluppa una vita propria e in un certo senso sfugge al controllo del suo autore».

La messa in scena della Burbach è attenta ai personaggi più che all’ambientazione, risolta con l’impianto scenografico altamente estetico di Dirk Hofacker. Le maschere dei pagani che praticano il loro culto solstiziale intorno alla loro sacerdotessa Alardis vestita con una veste fluente, sono il principale riferimento al Medioevo fornito da Schreker e gli abiti indossati dai coristi e dai sette ballerini coreografati da Cameron McMillan ricordano lontanamente l’immagine medievale del personale infernale presente in varie illustrazioni. I personaggi sono posizionati su una sorta di roccia stilizzata, con i pagani in bianco in netto contrasto con le vesti scure dei fratelli del monastero.

La realizzazione musicale è affidata a Dirk Kaftan che si rivela attento a rendere con chiarezza la complessità di questa scrittura anche nei momenti di più violenta contrapposizione tra la dimessa spiritualità dei monaci e la conturbante e primitiva sensualità dei pagani. Il risultato è ottenuto grazie all’ottima interpretazione degli strumentisti della Beethoven Orchester.

Mirko Roschkowski nel ruolo di Amandus e Anne-Fleur Werner in quello di Lilian esprimono efficacemente il loro tumulto interiore, tenendo testa all’opulenza della grande orchestra. Anche il resto dell’ensemble, il coro potenziato e il corpo di ballo danno il loro contributo a una produzione che non convince però pienamente: molti sono gli spunti offerti da questo lavoro di Schreker ma pochi sono colti dalla regista. Qui ci sarebbe voluta una personalità più forte, come Guth o Kratzer.

La produzione fa parte del progetto “Fokus 33” con cui il teatro di Bonn si impegna a recuperare lavori musicali segnati dall’avvento del Nazismo. Un impegno che la prossima stagione continuerà con Li-Tai-Pe di Clemens von Franckenstein, Moses und Aron di Arnold Schönberg e Columbus di Werner Egk.