Mese: Maggio 2024

Pessoa – Since I’ve been me

Robert Wilson, Pessoa – Since I’ve been me

Firenze, Teatro della Pergola, 5 maggio 2024

L’omaggio di Robert Wilson al Portogallo che festeggia 50 anni di democrazia

Luce, spazio, tempo. Gli spettacoli di Robert Wilson nascono prima dalla luce, poi dagli spazi e dai tempi teatrali. Non fa eccezione l’ultima sua creazione ora in prima mondiale alla Pergola.

Pessoa – Since I’ve been me (Pessoa – Da quando sono io) è uno spettacolo multilingue commissionato e prodotto dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théâtre de la Ville di Parigi nel segno del progetto comune “L’Attrice e l’Attore Europei” e coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg. È un viaggio poetico nell’immaginario del poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935).

Oltre la regia, Robert Wilson cura luci e scene, mentre la drammaturgia è affidata a Darryl Pinckey e i costumi sono disegnati da Jacques Reynaud. Scrive il regista: «L’idea che sia una produzione internazionale, che ci siano attori di paesi differenti, con background culturali differenti, e che sia uno spettacolo in varie lingue mi sembra giusta per Pessoa. Pessoa era un uomo fatto di tante “persone” diverse, un portoghese cresciuto in Sudafrica. Una maniera di approcciare questo lavoro è cercare di capire come trattare questo insieme di personalità. Nella mia testa c’è proprio un prisma con tutte le diverse personalità, i diversi aspetti di Pessoa».

Nel 2024 il Portogallo festeggia mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia nel Paese dopo anni di dittatura. Diventa quasi naturale pensare a Pessoa, l’enigmatico poeta dai molti eteronimi. L’utilizzo del multilinguismo è la chiave di interpretazione del lavoro del poeta che oltre al portoghese si esprimeva nella lingua della madre (inglese) e in francese per amore dei suoi prediletti letterati. L’italiano si è aggiunto come sigillo all’universalità europea dell’opera di Pessoa.

Gli spettatori vengono accolti a sipario chiuso dall’attrice portoghese Maria de Madeiros, regista di Capitães de Abril (Capitani di aprile), un film del 2000 sulla ribellione dei giovani ufficiali che posero fine alla dittatura di Salazar. L’attrice è vestita e truccata in modo da somigliare al poeta, ma ricorda anche Charlie Chaplin con la sua malinconia e leggerezza, le stesse facce dell’anima di Pessoa.

Con l’apertura del sipario entriamo in un tripudio di luci, colori e rumori fragorosi quando arrivano in scena le altre personalità eteronome nate dalla immaginazione del poeta (Alexander Search, Bernardo Soares, Vicente Guedes, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis), ossia il magnifico cast internazionale: Aline Belibi, francese; Rodrigo Ferreira, brasiliano; Klaus Martini, italo-albanese; Janaína Suaudeau, franco-brasiliana; Sofia Menci e Gianfranco Poddighe, italiani. I diversi quadri richiamano paesaggi o viaggi (una nave a vela di carta), che per Pessoa sono principalmente viaggi della mente, fino all’ironico e scatenato ballo finale in abiti da marinai americani. I versi del Livro do desassossego (Libro dell’inquietudine), da cui viene tratto il titolo dello spettacolo, sono inseriti in una gioiosa, comica, anarchica, clownesca giostra di battute aforistiche che vogliono esprimere la folle e tragica insensatezza della vita. La totale dedizione ed eccezionale bravura degli interpreti così come le invenzioni visive di Wilson vengono alla fine salutate da applausi convinti e insistiti.

THEATRE ROYAL

Theatre Royal

Glasgow (1867)

1541 posti

Il teatro fu aperto nel 1867 come Royal Colosseum and Opera House da James Baylis. Il Royal, i suoi negozi e l’adiacente Alexandra Music Hall furono progettati da George Bell dello studio Clarke & Bell, che divenne il presidente fondatore del Glasgow Institute of Architects. Baylis presentò una serie di attività di spettacolo nel suo auditorium: pantomime, commedie, arlecchinate e opera.

Nel 1879 l’auditorium fu distrutto da un incendio e fu ricostruito secondo il classico design rinascimentale francese, come si vede oggi, dal famoso architetto teatrale Charles J. Phipps, creando tre gallerie invece di due e facendo sì che la porta d’ingresso si affacciasse su Hope Street invece che su Cowcaddens Road. Il teatro continuò a ospitare circa 3.000 persone. Oggi è il più grande esempio sopravvissuto del lavoro teatrale di Charles Phipp in Gran Bretagna.

Nel 1895 la società diventò Howard & Wyndham Ltd, quotata in borsa, e crebbe fino a possedere e gestire il più grande gruppo di teatri di qualità in Scozia e Inghilterra, con il Royal come fiore all’occhiello. Nello stesso anno un incendio distrusse nuovamente l’auditorium, che fu ricostruito sei mesi dopo sotto l’attenzione di Charles Phipps con pochi cambiamenti visibili. 

Nel 1957, il teatro fu venduto alla Scottish Television in una joint venture con la Howard & Wyndham Ltd per la conversione del Royal in Scottish Television Theatre, studi e uffici, diventando la sede principale della rete commerciale ITV nella Scozia centrale. Il 3 novembre 1969, il teatro prese fuoco e la STV trasportò la maggior parte della produzione nel suo teatro di Edimburgo, fino a poche settimane dopo, quando le riprese ricominciarono. Nel 1974, la Scottish Television si trasferì nei locali adiacenti, costruiti su misura, e offrì il Theatre Royal alla Scottish Opera, che lo acquistò con il sostegno del pubblico, trasformandolo nella sua sede e nel primo teatro d’opera nazionale della Scozia. Ne seguì un’importante opera di ricostruzione e ristrutturazione, che comportò la creazione di un foyer ampliato, di una nuova scala principale, di una fossa orchestrale ingrandita per ospitare 100 musicisti, di aree di backstage ampliate e di camerini modernizzati. L’auditorium è stato riportato al suo pieno splendore e gli intonaci sono tornati ai colori originali crema e oro, con il soffitto ornato dai colori originali oro, crema e blu pallido. Alle pareti principali fu aggiunta la carta da parati William Morris. La riapertura avvenne nell’ottobre 1975 con una rappresentazione di gala di Die Fledermaus, trasmessa in diretta televisiva.

Pochi mesi dopo, il Theatre Royal divenne anche la sede dello Scottish Ballet, avviato nel 1969 mentre nel 1997 una ristrutturazione ha permesso di effettuare un’ampia ricablatura e ridecorazione. Le pareti rosso ciliegia, le poltrone turchesi e la moquette rossa e turchese hanno sostituito lo schema del 1975. Nel 2005 la Scottish Opera ha affittato la gestione del teatro all’Ambassador Theatre Group, anche se l’edificio continua a essere la sede degli spettacoli della Scottish Opera e dello Scottish Ballet.     I finanziamenti del governo scozzese, della Heritage Lottery e di altri enti a partire dal 2012 hanno permesso alla Scottish Opera di costruire un nuovo foyer all’angolo tra Hope Street e Cowcaddens, in parte sul sito dell’ex Alexandra Music Hall. Costato 14 milioni di sterline, è stato inaugurato nel dicembre 2014 ed è un edificio in gran parte ellittico, che contiene nuovi ingressi, foyer, bar, caffè, aree di ospitalità, spazi per l’istruzione e aree espositive del patrimonio, oltre a ascensori per tutti i livelli, tra cui una terrazza aperta sul tetto, e centrato da una scala a chiocciola aperta.

The Tender Land

Grant Wood, American Gothic, 1930

Aaron Copland, The Tender Land

Torino, Piccolo Regio Giacomo Puccini, 4 maggio 2024

La fanciulla del Midwest

Contemporaneamente al Farwest pucciniano, il Teatro Regio di Torino mette in scena il Midwest americano con The Tender Land di Aaron Copland (1900-1990), opera commissionata dalla Lega dei Compositori della NBC nel 1953. Sarà praticamente l’unico esemplare lirico del compositore americano noto per le musiche dei balletti Rodeo, Billy the Kid e Appalachian Spring, le danze sinfoniche El salón Mexico, colonne sonore di film, ma anche autore di tre sinfonie, musica da camera e vocale.

Il soggetto viene tratto da Let Us Now Praise Famous Men di James Agee, un libro-reportage del 1941 con fotografie di Walter Evans che ritraevano la povertà rurale di famiglie di mezzadri dell’Alabama durante la grande crisi. I proprietari terrieri avevano avvertito i contadini che avrebbero ospitato i due forestieri Agee ed Evans: «presi l’idea di base del libretto da quel libro: due uomini che vengono dal mondo esterno e invadono la vita di una famiglia di provincia. I due uomini diventarono così braccianti migranti. Esaminai attentamente le fotografie del libro fra le quali mi colpirono le facce di una madre che sembrava passiva e pietrificata e di una figlia non ancora indurita da una vita di stenti. Quale effetto avrebbe avuto l’impatto dei due forestieri e delle loro vite? La risposta a questa domanda divenne il mio soggetto», dirà Copland in una intervista. La stesura del libretto viene affidata a Horace Everett, pseudonimo di Erik Johns, che sposta l’azione dal profondo sud al Midwest, come il Kansas della fattoria di Dorothy del Mago di Oz.

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

L’opera è ambientata nel Midwest degli Stati Uniti negli anni Trenta in primavera, all’epoca del raccolto, presso una famiglia di contadini formata da Ma Moss, madre di Laurie, la figlia maggiore, e di Beth, la figlia minore, più il nonno Grandpa Moss.

Atto I. Laurie sta per laurearsi. Mr. Splinters, il postino, arriva per consegnare il pacco con l’abito per la laurea. Racconta anche che la figlia del vicino è stata spaventata da due sconosciuti che si aggirano in zona. Due vagabondi, Top e Martin, arrivano in cerca di lavoro. Grandpa Moss accetta di assumerli per il raccolto. Tra Laurie e Martin nasce subito una simpatia reciproca. 
Atto II. La festa di laurea è in corso. Ma Moss sospetta che Top e Martin siano i due sconosciuti che stanno causando problemi in zona e chiede a Mr. Splinters di chiamare lo sceriffo. Laurie e Martin si baciano. Nel frattempo arriva lo sceriffo con la notizia che i due sconosciuti sono stati catturati. Nonostante questo, Grandpa Moss dice ai ragazzi che devono andarsene la mattina successiva. 
Atto III. Durante la notte, Laurie e Martin sognano di fuggire insieme. Ma Martin capisce che questa vita girovaga non fa per la ragazza e si allontana furtivamente con Top. Quando Laurie scopre di essere stata abbandonata, decide comunque di andare via di casa. Ma Moss e Beth cercano di farle cambiare idea senza riuscirci. Laurie se ne va, e Beth resta sola davanti alla casa a giocare come faceva all’inizio.

The Tender Land non fu accettata dalla NBC proprio mentre Copland era sotto inchiesta dalla Commissione McCarthy per “attività antiamericane” perché appartenente all’American Committee for Democracy and Intellectual Freedom e per aver parlato al Cultural and Scientific Conference for World Peace. L’opera non andò quindi in televisione ma fu messa in scena alla New York City Opera il 1° aprile 1954 diretta da Thomas Schippers. L’atmosfera opprimente del maccartismo di quel periodo si riflette nella figura di Grandpa Moss che continua a ripetere che i due giovani sono «Dirty strangers. Dogs! No good dirty bums!» (Sozzi stranieri. Cani. Sporchi barboni buoni a nulla) e anche quando vengono scagionati dall’accusa di aver molestato delle ragazze, per lui «They’re guilty all the same. | I won’t have ‘em on my place» (Sono colpevoli lo stesso. Non li voglio qui). Non stupisce quindi la voglia di emancipazione di Laurie e la sua fuga da casa.

L’opera fu accolta freddamente dalla critica per le ingenuità del libretto e la mancanza di melodie nella musica. «Le successive riprese, nonostante considerevoli, ripetute revisioni, non ebbero un esito molto migliore. Oltre alla debolezza del libretto, per di più imperniato su una tradizione familiare rurale molto datata (praticamente scomparsa dopo la seconda guerra mondiale), si imputa alla partitura una certa rigida ripetizione di temi popolari che già figurano nei balletti del compositore. In effetti Tender Land si può considerare un tentativo non del tutto convinto e quindi solo in parte riuscito: la staticità della struttura sociale rappresentata sembra condizionare anche il tessuto musicale, provocando una certa monotonia. Solo col progredire dell’azione, nel corso della quale prendono il sopravvento le figure e i modi più sciolti e liberi dei due vagabondi, e in particolare di Martin, anche la musica, come la psicologia dei personaggi, si apre, facendosi più ariosa e appassionata» scrive Francesco Cavallone. La scrittura di Copland è quella di un canto di conversazione abbastanza monotono che diventa più lirico nel quintetto con cui termina il primo atto «The promise of living», la pagina più pregevole. Gradevole è anche il duetto d’amore del secondo atto da cui deriva il titolo dell’opera: «The plains so green, | the tender land, | where we begin, | to understand». L’impegno ad americanizzare il modello operistico tradizionale lo porta a non utilizzare i numeri chiusi e a inserire temi popolari filtrati però da una cultura molto europea – Copland era stato infatti allievo di Nadia Boulanger. Meno evidente qui è l’influenza del jazz, che troviamo invece in altri suoi lavori. Insomma, la commissione soffre di un certo accademismo che non riesce a far decollare e rendere più popolare questa “piccola storia americana”.

La ricca orchestrazione richiesta dalla commissione della NBC è un po’ esagerata per la semplice e intima vicenda e per questa prima nazionale al Piccolo Regio Giacomo Puccini di Torino è stata utilizzata una revisione per orchestra ridotta a tredici soli elementi, dieci archi e tre fiati, la stessa della versione originale di Appalachian Spring, che Alessandro Palumbo concerta con dedizione ma senza troppe variazioni di colori. Sul palcoscenico molti degli ormai più che affermati allievi del Regio Ensemble: Irina Bogdanova (Laurie); Tyler Zimmermann (Grandpa Moss); Ksenia Khubunova (Ma Moss) e Andres Cascante (Top) a cui si uniscono Michael Butler (Martin), Valentino Buzza (Mr Splinter) e altri validi comprimari.

L’allestimento di Paolo Vettori esalta l’intimità – per non dire claustrofobia – della storia, ambientandola in una scatola chiusa, disegnata da Claudia Boasso, sulla cui parete di fondo si aprono finestrelle per i ritratti dei vecchi antenati o dei singoli coristi nella scena della festa per il diploma di Laurie. Unico richiamo alla natura è un grande albero rosso proiettato sul fondo, forse l’albero genealogico dei Moss su cui la ribelle Laurie innesterà un nuovo ramo?

Con i costumi di Laura Viglione e le luci di Gianni Bertoli viene realizzato uno spettacolo visivamente piacevole e applaudito dal pubblico.


Stagione Sinfonica RAI

Igor’ Stravinskij, Symphony in three movements 

I. [primo movimento]
II. Andante – Interludio
III. Con moto

John Adams, Doctor Atomic Symphony

I. The Laboratory
II. Panic
III. Trinity

Leonard Bernstein, Symphony nr.2: The Age of Anxiety per pianoforte e orchestra

First Part. a) The Prologue. b) The Seven Ages. c) The Seven Stages
Second Part. a) The Dirge. b) The Masque. c) The Epilogue

Robert Treviño direttore, Yulianna Avdeeva pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 2 maggio 2024

Tutto incentrato sulla Seconda Guerra Mondiale il programma impaginato da Robert Treviño per il 19° concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. Il primo brano è la Sinfonia in tre movimenti che Stravinskij scrisse negli anni di guerra e che ebbe la sua prima esecuzione il 26 gennaio 1946 quando il compositore stesso la diresse alla testa della New York Philharmonic. Non una musica a programma questa “sinfonia di guerra”, ma testimonianza della reazione agli eventi bellici visti dalla lontana California. Una pagina che nella sua frammentarietà riflette bene il turbine di sensazioni difficilmente esprimibili. Iniziata nel 1942, nel suo primo tempo senza titolo e senza indicazioni di tempo Stravinskij aveva pensato inizialmente a un concerto per pianoforte e orchestra ispirato dalla visione di un film documentario sulla tattica della terra bruciata in Cina contro l’invasione giapponese, con una parte centrale su un tessuto sinfonico scabro e ritmicamente impetuoso. Anche la seconda parte, che risale al 1943, è collegata a un film, quello che Henry King stava ricavando da Il canto di Bernadette di Franz Werfel sulle supposte apparizioni della Madonna a Lourdes. Naufragata la collaborazione con la produzione cinematografica, del progetto sopravvisse la cantabilità dell’andante affidato all’arpa, momento che doveva accompagnare la scena dell’apparizione della Vergine alla pastorella. I caratteri del periodo classico di Stravinskij, la politonalità e secchezza ritmica, lo stile sarcastico, il contrasto degli stili si ritrovano nel terzo movimento che inizia senza soluzione di continuità tramite un interludio. Con i suoi temi bellici, il compositore reagiva così «reazione ai cinegiornali e documentari sui soldati che marciavano al passo dell’oca». Sulla musica della Sinfonia sono stati creati due balletti, nel 1963 da Hans von Manen, e nel 1972 da Balanchine.

L’orchestra RAI sotto la guida esperta di Treviño fornisce come sempre ottima prova della sua precisione nella complessa struttura musicale del lavoro, ma il meglio ha da venire nel brano che segue, il movimento sinfonico in tre parti tratto da John Adams dalla sua opera Doctor Atomic del 2005. Storia del progetto di Los Alamos che portò alla costruzione della prima bomba atomica – che avrebbe comportato la distruzione delle città giapponesi di Hiroshima e Kawasaki e la conseguente fine della guerra – la vicenda nel libretto di Peter Sellars, che ne curò anche la regia, è centrata sulla figura del fisico Robert Oppenheimer che nella scena culminante con cui termina il primo atto prova i sensi di colpa di quanto ha fatto e si rivolge al Dio trino – “Trinity” era anche il nome in codice del test del 16 luglio 1945 nel deserto di Alamogordo – del sonetto Batter my Heart di John Donne (1572-1631). Il fisico è solo davanti all’ordigno e alla sua coscienza, la tromba imita la voce del baritono in una perorazione struggente interrotta dalle interiezioni dell’orchestra che nel finale assumono una forza catastrofica. Il lavoro era iniziato con un breve movimento in cui si alternano fortissimi caotici e desolati pianissimi, a cui si concatena il secondo movimento di febbrile concitazione il panico provocato dalla tempesta che con la sua elettrica sconvolge le installazioni e mette in pericolo l’esecuzione del test. Qui è il trombone a imitare la voce del Generale Groves nelle sue arringhe al personale che si alternano alle danze rituali dei nativi Tewa del New Mexico. La varietà di tempi e colori della mirabile partitura di Adams è messa in luce con tale passione de Treviño che il pubblico risponde con grande entusiasmo e con insistiti applausi per la tromba di Marco Braita protagonista del terzo movimento.

Nel 1944, a New York, sullo sfondo di un mondo cambiato e spaventoso, il più controverso poeta inglese dell’epoca iniziò a lavorare a un nuovo lungo lavoro. Alla sua pubblicazione, tre anni dopo, avrebbe ricevuto recensioni piuttosto contrastanti: mentre T.S. Eliot lo salutò come «il suo miglior lavoro fino ad oggi», il Times Literary Supplement lo considerò «il suo unico libro noioso, il suo unico fallimento». The Age of Anxiety: A Baroque Eclogue di Wystan Hugh Auden gli fece però vincere il premio Pulitzer e avrebbe ispirato una sinfonia e un balletto. La sinfonia sarebbe stata la Seconda di Leonard Bernstein e il balletto avrebbe visto la coreografia da Jerome Robbins nel 1950. All’inizio de L’età dell’ansia Auden mette in luce quattro bevitori solitari in un bar di New York in tempo di guerra: Malin, un aviatore canadese; Quant, un impiegato stanco del mondo; Rosetta, una profuga ebrea ed Emble, giovane recluta della marina. In sei sezioni – un prologo, una storia di vita, una ricerca di sogni, una nenia, un masque e un epilogo – essi meditano sulle loro vite, sulle loro speranze, sulle loro perdite e sulla condizione umana. In termini reali, parlano al bar, prendono un tavolo insieme, si ubriacano e tornano a casa di Rosetta barcollando. Lì bevono ancora finché i due uomini più anziani tornano a casa e il più giovane giura amore eterno a Rosetta prima però di crollare addormentato sul letto. Questo di Bernstein è un lavoro strutturato come un fitto dialogo tra orchestra e pianoforte, lo stile è eclettico e pieno di contrasti tra pieni e vuoti, ben resi da Treviño e da Yulianna Avdeedeva, artista a suo agio nel repertorio romantico – nel 2010 ha vinto il premio Chopin – così come in quello contemporaneo. Agli insistiti applausi la pianista russa ha risposto con un fuori programma inaspettato: dopo i tragici temi che sono stati oggetto dei tre pezzi precedenti, lei ha intonato in modo ineffabile una delle Danze delle bambole di Dmitrij Šostakovič che ha spiazzato il pubblico con il suo tono ironico e svagato. Forse il finale giusto a un programma di grande intensità emotiva.

Carmen

    

La locandina dello spettacolo

Georges Bizet, Carmen

Londra, Royal Opera House, 1 maggio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

La Carmen di Michieletto conquista Londra 

Nietzsche ne era stato folgorato e dalle brume wagneriane si era così convertito alla solarità mediterranea. Dopo aver assistito alla prima della Carmen il 27 novembre 1881 a Genova, era rimasto entusiasta di quello che avrebbe poi considerato il simbolo della nuova e vera musica. «Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un’opera di François [sic] Bizet (chi è costui?)… Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell’opéra comique, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile!» scrive sull’onda di un entusiasmo che gli fa storpiare il  nome del compositore. È una conversione che arrivava dopo un periodo di “purificazione” dalle scorie soffocanti della musica romantica,  «quest’arte ambigua, tronfia e soffocante, che toglie allo spirito rigore e vivacità e fa proliferare ogni sorta di torbida nostalgia, di tumida brama», come aveva scritto per la prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi uscito nel 1879.

Nel 1888, ai tempi de Il caso Wagner, Nietzsche sarebbe stato ancora più drastico: «Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e l’ho udito ancora con la stessa reverenza. […] È malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del “grande stile”. […] Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d’Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole… Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto verso la natura!».

Nella sua lettura dell’opera più rappresentata al mondo nella scorsa stagione (fonte:  statistiche di OperaBase), Damiano Michieletto sembra volersi riferire proprio a quella meridionalità soffocante e arsa dal sole. Soffocante e arsa anche nei sentimenti, forti, violenti di una Spagna rurale postfranchista che non ha però il carattere gioioso e irriverente dei film di Pedro Almdodóvar, ma piuttosto quello neghittoso dei western di Sergio Leone o del balletto di Matthew Bourne The Car Man. Ad apertura di sipario la scena di Paolo Fantin ci mostra un assolato dehors con sedie di plastica e gente intorpidita dalla calura che passa il tempo a sventagliarsi e a guardare l’altra gente che passa. Un edifico di cui vediamo due pareti angolari ruota su sé stesso mostrando di volta in volta l’interno oppure l’esterno: nel primo atto è la stazione di polizia, nel secondo il night club di Lilas Pastia, nel terzo il magazzino dei contrabbandieri e nel quarto il camerino dei toreri. Una efficace soluzione già sperimentata nella sua produzione di Cavalleria e Pagliacci nove anni fa sempre qui al Covent Garden. I tocchi western sono dati dai tumblweeds (i cespugli rotolanti) e dai costumi da cowboy dei bambini nei loro giochi anche violenti quando i più grandicelli bullizzano i più piccoli. I bambini sono infatti protagonisti in questa produzione non solo perché richiesti nel primo e quarto atto, ma utilizzati anche negli entr’actes per indicare il passare del tempo: ogni bambino con una delle lettere che formano le frasi «Quelques mois plus tard», «La nuit suivante»… 

Michieletto utilizza in maniera mirabile la loro presenza, soprattutto nel primo atto, ma si sarebbe volentieri fatto a meno di loro nell’intermezzo all’atto terzo – che Bieito nella sua produzione aveva realizzato in maniera mirabile con il “bagno di Luna” del torero – e soprattutto prima del drammatico quarto atto dove il giochino delle lettere disordinate induce sì al sorriso ma distrae dalla tragedia imminente.

Un personaggio non previsto ma spesso evocato nel libretto è quello della madre di don José, che Michieletto introduce fisicamente in scena abbigliata nella sua luttuosa mantilla, quasi uscita da La casa di Bernarda Alba. È lei che mescola le carte, tra cui quella fatale della Morte, e che appare per «legare il figlio a sé, costringendolo a obbedire, dirottando la sua volontà e mantenendo un controllo su di lui. La sua forza si manifesta attraverso il personaggio di Micaëla e la tragedia finale si trasforma così in uno scontro metaforico tra due modelli femminili opposti», scrive il regista. Anche in questo caso le sue iterate apparizioni non sembrano così essenziali.

Nella scarna scenografia di Paolo Fantin una griglia con cento fari rende il sole accecante oppure la luce lunare,  ma nel finale si inclina per fare da sfondo all’ultimo teso incontro di Carmen e don José. Con i costumi come sempre appropriati di Carla Teti e il magnifico gioco luci di Alessandro Carletti, Damiano Michieletto costruisce uno spettacolo di grande suggestione teatrale e di attento lavoro attoriale dove i sub plot sono efficaci, come il rapimento di Zuniga da parte dei contrabbandieri e conseguente pagamento del riscatto. A parte le riserve espresse, ne viene fuori una pietra miliare nella drammaturgia del lavoro di Bizet che a Londra sostituisce il discusso allestimento di Barrie Kosky ed è facile prevedere che rimarrà per molti anni in scena. Si potrà comunque vedere alla Scala che l’ha coprodotto assieme al Real di Madrid.

Un altro italiano è artefice di questa felice produzione: alla guida dell’orchestra del teatro c’è infatti Antonello Manacorda che della preziosa partitura rende al meglio le preziosità strumentali e il travolgente senso teatrale, con dinamiche ben equilibrate, esaltate ma mai spinte all’eccesso. Suo è anche il merito di aver aperto qualche taglio soprattutto nel primo atto, e aver utilizzato la versione con i dialoghi parlati, seppure opportunamente accorciati.  Il cast è internazionale con  pochissimi cantanti di madrelingua francese, e si sente. I quattro interpreti principali provengono rispettivamente dalla Russia, Ucraina, Polonia e Lituania!

Il mezzosoprano Aigul Akhmetshina è una Carmen di splendida voce dal timbro caldo e sontuoso ma a suo agio negli acuti e di ottima dizione. Cantante di grande personalità, delinea una Carmen meno femme fatale del solito, ma pienamente credibile nella psicologia del personaggio, forte e fragile allo stesso tempo, una donna che non vuole rinunciare alla sua libertà di scelta in totale contrasto con la figura dimessa della fresca e lirica Micaëla del soprano Olga Kulchynska, cantante apprezzata nel repertorio belcantistico (Mozart, Bellini…) e russo.

Ritorna in una parte che ha già frequentato il tenore Piotr Beczała e il suo don José ha le qualità che conosciamo: magnifico timbro, grande proiezione, acuti luminosi e sotto la guida di Michieletto riesce ad essere anche scenicamente convincente. Le qualità sceniche compensano solo in parte la dizione eccepibile e il timbro morchioso del baritono Kostas Smoriginas, un Escamillo tutt’altro che memorabile. Molto ben caratterizzato è il quartetto formato da Frasquita, la canadese Sarah Dufresne; Mercédès, la lituana Gabrielė Kupšytė; il Dancairo, il belga Pierre Doyen,  e il Remendado, il francese Vincent Ordonneau. Ben definito il Moralès dell’armeno Grisha Martosyan, mentre non vocalmente a suo agio lo Zuniga del congolese Blaise Malabata. Magnifici i cori del teatro e quello di voci bianche.

La proiezione è avvenuta a Torino in una sala cinematografica dalla perfetta resa sonora ma resta inspiegabile come in  una città di quasi un milione di abitanti e migliaia di abbonati al teatro lirico, solo una dozzina di spettatori abbiano scelto –  in un giorno festivo! – di assistere all’avvenimento. Che tristezza.

TEATRO FRANCESCO STABILE

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Teatro Francesco Stabile

Potenza (1881)

361 posti

 

L’esistenza di un edificio adibito ad ospitare rappresentazioni teatrali in maniera permanente a Potenza è documentata sin dalla metà del Settecento, ma fu solo all’inizio dell’Ottocento, con l’elevazione della città a capoluogo, che si avvertì l’esigenza di dotare la comunità di un nuovo teatro lirico da realizzarsi appositamente. Dopo due tentativi di reperire i fondi ed il terreno necessari ai lavori per un nuovo teatro, si definì il luogo di costruzione in un lotto confinante con l’allora largo dell’Intendenza (l’attuale piazza Mario Pagano), grazie all’abbattimento di alcuni edifici.

L’edificazione iniziò quindi solo nel 1856, anche grazie al sostegno diretto di parte della borghesia cittadina che sottoscrisse dei titoli di credito per garantire il finanziamento dell’opera. Il progetto nel frattempo era stato nuovamente modificato, ma i lavori subirono un arresto già nel 1857, a causa del terremoto del 16 dicembre di quell’anno che colpì la città. Dopo un primo tentativo di ripresa nel 1860, si poté ripartire solo nel 1865 a seguito dell’ennesima revisione progettuale, per poi arrivare al progetto definitivo degli architetti Errico Alvino e Giuseppe Pisanti. Nel 1866 il Consiglio comunale decise di modificare il nome originario di “Teatro Ferdinando di Borbone” e di intitolare l’edificio al compositore lucano Francesco Stabile, il quale aveva fatto parte dei finanziatori dell’opera e che era prematuramente deceduto nel 1860. La costruzione terminò solo nel 1878 con però ancora la mancanza di molti dettagli architettonici e decorativi e l‘inaugurazione ufficiale avvenne il 26 gennaio 1881, alla presenza del re d’Italia Umberto I, della regina Margherita e del principe Amedeo, che assistettero alla rappresentazione de La traviata. Il re aveva promesso una visita in Basilicata dopo aver subito un tentato assassinio da parte dell’anarchico basilicatese Giovanni Passannante, avvenuto a Napoli nel 1878, per dimostrare affetto nei riguardi della popolazione locale.

Già nel 1910 il teatro fu chiuso temporaneamente per il deterioramento degli arredi, venendo poi riaperto nel 1912. Le condizioni dell’edificio, nel corso degli anni utilizzato anche come cinematografo, iniziarono a destare serie preoccupazioni a partire dai primi anni Sessanta del Novecento, a causa della poca manutenzione, tanto che nell’ambito del Piano regolatore generale comunale del 1966 si arrivò addirittura a prevederne la demolizione, scongiurata prima temporaneamente con l’intervento della Prefettura, poi definitivamente nel 1974 con l’apposizione del vincolo monumentale. Nel 1971 lo Stabile venne chiuso nuovamente per consentire i lavori di restauro, che erano ancora in corso quando la struttura subì, come il resto della città, i danni del terremoto del 1980. La ristrutturazione venne quindi sospesa per poi riprendere nel corso degli anni Ottanta ed essere completata nel 1990, accompagnata da polemiche riguardanti l’aumento notevole dei costi dei lavori; la riapertura al pubblico avvenne il 29 marzo dello stesso anno. Nel 2004 sono stati effettuati ulteriori restauri dell’immobile, che consentirono la ripresa delle normali attività a dicembre. Nel 2014 è stato riconosciuto quale “teatro storico lucano” dal Consiglio regionale della Basilicata.

 

Il Teatro Francesco Stabile si ispira per tipologia al Teatro San Carlo di Napoli ed al Teatro alla Scala di Milano; da essi derivano la facciata monumentale dell’edificio e la cura riposta nel posizionamento dei locali accessori.  Il prospetto principale presenta dei cantoni a bugne, un timpano sommitale e degli archi a tutto sesto che sormontano il portone principale bronzeo. Il timpano è decorato dallo stemma cittadino.

La sala è a forma di ferro di cavallo con tre ordini di palchi divisi da tramezzi radiali e un loggione sovrastante.  Gli ambienti di rappresentanza quali atrio, vestibolo ed ingresso hanno dimensioni abbastanza contenute. La copertura è a capriata in legno, con il sottotetto che ospita un ambiente adibito a deposito ed alla preparazione delle scenografie. Al secondo piano è presente la Sala degli specchi, così chiamata per le superfici riflettenti presenti come elementi decorativi insieme a carta da parati e dipinti, che è utilizzata anche per convegni o matrimoni civili.