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Giacomo Puccini, Turandot
Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2024
(diretta streaming LaScalaTv)
Mille lumini e un minuto di silenzio per Puccini
Il 25 aprile 1926 ci fu la prima della Turandot. Puccini era mancato da 17 mesi. Come sappiamo, Arturo Toscanini dopo la morte di Liù posava la bacchetta sul leggio e rivolto al pubblico diceva «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto».
98 anni dopo nello stesso teatro e nello stesso momento della vicenda l’orchestra tace, sullo schermo circolare appare il ritratto del compositore e coristi e figuranti sul palcoscenico si mostrano con un lumino a led in mano. Lo stesso fanno gli spettatori in sala e nei palchi, ai quali era stato distribuito dalle maschere nell’intervallo tra secondo e terzo atto. Segue un minuto di silenzio e poi riprende il finale, il solito brutto finale di Alfano.
La Scala con questa produzione omaggia Puccini nel centenario della morte affidando la direzione d’orchestra a Michele Gamba che esegue la partitura con grande senso teatrale e drammatico e ampi livelli sonori più che attenzione ai particolari strumentali. Determinante si rivela il ruolo del coro magistralmente istruito da Alberto Malazzi mentre nel cast spiccano le voci femminili di Anna Netrebko e Rosa Feola. La prima è la Turandot di riferimento oggi per le magistrali intenzioni espressive, i formidabili sonori pianissimi, e pazienza se la voce è talora un po’ intubata e l’intonazione perfettibile. La sua presenza scenica e la definizione del personaggio, qui tutt’altro che gelida e ieratica ma donna complessa e tenera figlia, sono al momento quasi uniche nel panorama operistico. Anche la Liù di Rosa Feola è tutt’altro che lacrimevole, una donna di carattere che rende la sua morte ancora più commovente. Il timbro naturalmente d’argento e i legati rendono la sua performance indimenticabile. Il Calaf di Yusif Eyvazov è una presenza costante nell’ultima opera del compositore lucchese, sia che si tratti della tradizionalissima produzione dell’Arena di Verona che della contestata versione del russo Barkhatov al San Carlo di Napoli. Pregi e difetti della sua voce sono già stati ampiamente discussi. Autorevole è il Timur di Vitalij Kowaljow e insolito l’Imperatore, bonario vecchietto che entra in scena a braccetto con Calaf, con la voce cesellata di Raúl Giménez. Vengono invece dall’estremo oriente le tre maschere, scenicamente spigliate ma non sempre con limpida dizione, di Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, rispettivamente Ping, Pang e Pong.
Lo spettacolo di Davide Livermore pullula come al solito di moltissime idee, alcune non portate avanti, come quella delle tre maschere che qui la maschera la portano ed è quella col volto di Calaf poiché ne rappresentano lo sdoppiamento della personalità, ma questo solo la prima volta che entrano in scena. Personaggio muto sempre presente assieme a Turandot è quello di Lo-u-Ling, l’«ava dolce e serena» dalla quale nasce l’odio della «principessa di gelo» per il genere maschile. Nella sua regia Livermore fa dare il bacio fatale all’ava stessa e solo in quel momento Turandot è libera di amare Calaf. Tante altre sono le idee registiche che si esprimono in scene e controscene sviluppate con teatrale efficacia ma con un horror vacui quasi “zeffirelliano”.
Nella sua scenografia Livermore ingloba la tecnologia e la creatività di Paolo Gep Cucco, direttore creativo della D-Wok la società che rende virtuali le scenografie per i palcoscenici operistici fondendo analogico e digitale. Assieme a Eleonora Peronetti Cucco disegna una scenografia dominata da un gigantesco impianto video capace di creare una realtà aumentata sulla scena, in questo caso una Pechino dark in 3D alla Blade Runner proiettata su un ledwall di 12×9 metri. Un altro ledwall circolare serve per proiettare le riprese di materiali in slowmotion: pioggia, polvere, petali, inchiostri, foglie, fiamme, ripresi a 1400 frame al secondo per creare effetti di sospensione e magia e nello stesso tempo dare immagine al personaggio della Luna, tante volte invocata nel libretto. Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Antonio Castro le simulazioni digitali mescolano corporeità e fantasia con dosi di suggestioni cinematografiche, tutto per ricreare la favola della vicenda ambientata «in Pekino, al tempo delle favole». Indubbia è l’eccellenza tecnica dimostrata dal regista, ma troppo invadenti risultano le azioni coreografiche che interessano il Principe di Persia e gli sgherri dell’Imperatore. E poi di mimi che sdoppiano i personaggi ne abbiamo abbastanza.
⸪
