La clemenza di Tito

foto © SF/Marco Borrelli

Wolfgang Amadeus Mozart, La clemenza di Tito

Salisburgo, Haus für Mozart, 8 agosto 2024

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Eterni giochi di potere

Il libretto de La clemenza di Tito di Pietro Metastasio era stato scritto nel 1734 per Antonio Caldara in occasione dell’onomastico dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. In seguito fu intonato da oltre quaranta compositori, tra cui Leo, Hasse, Gluck, Jommelli, Galuppi e Mysliveček. Quando viene preso in considerazione da Mozart il testo è vecchio di quasi sessant’anni e ha bisogno di una rinfrescata: ne viene incaricato Caterino Mazzolà che lo  trasforma «a vera opera» riducendone di molto la verbosità, introducendo pezzi di insieme – del tutto assenti nell’originale metastasiano – e cori mentre gli atti sono ridotti da tre a due. L’occasione ora è l’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore d’Austria Leopoldo II. La data prevista è il 6 settembre 1791, ma solo l’8 luglio, quando è nel pieno della composizione del Flauto magico, Mozart riceve il prestigioso incarico. Con il numero d’opus K621 sarà la sua ultima opera poiché morrà tre mesi dopo la rappresentazione. 

Per la prima furono ingaggiati il tenore Antonio Baglioni (Tito), che era stato Don Ottavio nel Don Giovanni di Praga, il soprano Maria Marchetti Fantozzi (Vitellia) e il castrato Domenico Bedini (Sesto). Nelle intenzioni di Mozart quest’opera divenne un omaggio e nello stesso tempo una rivitalizzazione delle forme della gloriosa opera seria: lo dimostrano l’inizio audacemente affidato a un duetto o l’innovativa sequenza di numeri musicali dei finali. Dopo la freddezza iniziale – sorvoliamo sulla definizione di «porcheria tedesca in lingua italiana» profferita a suo tempo da Maria Luisa di Borbone moglie di Leopoldo II d’Asburgo e futura imperatrice del Sacro Romano Impero –  l’opera a partire dal 1795 incontrò sempre più il favore del pubblico, diventando una delle sue più eseguite nei teatri di area germanica, dove veniva spesso cantata in tedesco e dove i recitativi, composti dall’allievo Süßmayr, venivano drasticamente ridotti o trasformati in dialoghi parlati. Fu anche la prima opera di Mozart a essere data a Londra.

Nell’Ottocento sul destino dell’opera pesò l’ingeneroso giudizio espresso da Wagner, ma ancora nel secolo scorso la valutazione de La clemenza di Tito non era del tutto positiva e anche Mila la considerava «un’opera mancata», soprattutto se confrontata con l’altra opera seria, l’Idomeneo. Solo recentemente la fortuna del lavoro si sta ripren­dendo con una serie di produzioni che sono riuscite a metter­ne in luce la singolare bellezza di opera di transizione.

La clemenza di Tito è ora riproposta nel festival estivo di Salisburgo. La concertazione di Capuano mette mirabilmente in luce le preziosità della partitura evidenziando i momenti in cui l’orchestrazione sembra guardare al futuro con impasti sonori materici e una tensione già protoromantica. L’ensemble “Les Musiciens du Prince” risponde con lo smalto dei suoi colori e il suono pastoso degli strumenti. Grande prova la danno il cembalista Davide Pozzi, Andrea del Bianco al fortepiano e Antonio Papetti al violoncello per la realizzazione del sontuoso tappeto sonoro del continuo mentre Francesco Spendolini incanta con le note del clarinetto e del corno di bassetto. La riduzione dei recitativi fornisce un ritmo serrato al racconto musicale che progredisce con fluidità, mentre certi lividi squarci sonori costruiscono un’atmosfera quasi da thriller quando Sesto sta per mettere a frutto i suoi propositi omicidi. 

Direttrice artistica da dodici anni del Festival di Pentecoste, Cecilia Bartoli nel 1994 aveva interpretato il personaggio di Sesto in una produzione  discografica con la direzione di Christopher Hogwood. Nel 2021 c’era stata a Salisburgo un’esecuzione in forma di concerto diretta dallo stesso  Capuano e ora la rappresentazione scenica che ha debuttato al Festival di Pentecoste. L’immedesimazione in Sesto della Bartoli è totale e il personaggio ne esce in tutte le sue mille sfaccettature; la linea di canto è quanto di più sensibile ed espressivo si possa trovare, gli abbellimenti magistralmente realizzati e i piani sonori esprimono un’inesauribile gamma di sentimenti tanto che il pubblico ne rimane soggiogato. Una lettura tesa e affilata è quella di Alexandra Marcellier, Vitellia di grande temperamento mentre Mélissa Petit e Anna Tetruashvili danno vita ai personaggi di Servilia e Annio, rispettivamente, con grande efficacia, l’una per la morbidezza del timbro, l’altra per la sicurezza di emissione. Artefice occulto di intrighi è il personaggio di Publio, qui affidato al timbro ricco di armonici di Ildebrando d’Arcangelo, quasi un Commendatore per la grande proiezione vocale e la profondità delle note. Nel personaggio del titolo splende fulgidamente Daniel Behle, un tenore dalla voce smagliante, la signorilità del porre,  le sicure agilità, il fraseggio perfettamente calibrato nell’esprimere il contrasto di sentimenti tra il dovere di condannare e il desiderio di concedere il perdono all’amico. Un’interpretazione da manuale la sua. Ai fini dell’esecuzione si è rivelato ottimo l’apporto del coro  “Il canto di Orfeo” istruito da Jacopo Facchini.

Nella sua messa in scena Robert Carsen punta sull’elemento del potere quale motore inarrestabile della storia, ambientando la vicenda nei luoghi di potere della nostra contemporaneaità: il Senato, le stanze e i corridoi dove vengono prese le decisioni. La scena di Gideon Davey, che firma anche i costumi, presenta un ampio ambiente di colore grigio scuro – lo stesso del boccascena e delle pareti della sala del teatro, inglobando così idealmente gli spettatori nella vicenda – con una galleria per il pubblico che vuole assistere agli atti politici. Sesto e Annio non sono donne en travesti, sono delle donne a tutti gli effetti anche se in pantaloni. Nella fluidità dei generi oggi, come nel Settecento, che Vitellia assecondi le pulsioni di Sesto-donna, come Servilia quelle di Annio-donna non fa scalpore.

Il culmine della storia è il momento dell’attacco al Campidoglio e il tentativo di assassinio di Tito: se nel 1791 gli spettatori vi vedevano le recenti vicende della Rivoluzione Francese, quelli di oggi non possono non fare riferimento all’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021 quando seguaci di Trump irruppero nelle sale del Congresso degli Stati Uniti. Sono infatti le immagini di quell’assalto che vediamo proiettate, e mescolata in quella folla c’è Sesto che porge il pugnale per assassinare Tito spinto dal suo amore per Vitellia. Un fermo immagine di quella scena rivelerà all’imperatore il tradimento dell’amico. Nessun potente è al sicuro, ma non lo è neppure la democrazia minacciata ai giorni nostri: «Credo che per una persona come Tito – che è un vero umanista – sia molto difficile sopravvivere nel clima politico di oggi», scrive il regista nel programma di sala, «dobbiamo riconoscere con stupore che tutti gli orrori del XX secolo non sono stati in grado di impedire che intere società tornassero ad atteggiamenti di intolleranza, divisione e disponibilità a ricorrere alla violenza. La nostra produzione è ambientata in una sorta di parlamento, apparentemente in un sistema democratico. Ma ho voluto rendere tangibile l’attuale minaccia che proviene dai partiti di estrema destra in vari paesi democratici – partiti che assumono posizioni sempre più estreme, che invadono tutte le sfere della vita sociale e che, se non sono già al potere, mirano a prenderlo il prima possibile. E quando si tratta di liberarsi degli avversari politici, non si fanno scrupoli a usare tutti i metodi che ritengono necessari». Amarissimo il finale della regia di Carsen:  dopo essersi sbarazzata di Sesto, Annio e Servilia, Vitellia prende il potere anche grazie alle occulte trame di Publio. Trionfante, ai suoi piedi giace il cadavere di Tito assassinato.

Anche oggi lo spettacolo conferma il grande impatto che aveva avuto mesi fa: la direzione di Gianluca Capuano, il cast eccezionale e la messa in scena di Robert Carsen ne hanno fatto un avvenimento operistico memorabile, salutato dall’entusiasmo del pubblico accorso alla Haus für Mozart.