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Giuseppe Verdi, Don Carlo
Vienna, Staatsoper, 3 ottobre 2024
(video streaming)
★★★★☆
Serebrennikov e i costumi del Don Carlo
Sorprende che un teatro così tradizionalista come la Wiener Staatsoper chiami un regista come Kirill Serebrennikov a mettere in scena Don Carlo. Nella registrazione di Arte si sente uno spettatore esprimere la sua disapprovazione prima ancora che sia stata suonata una sola nota e senza nemmeno aspettare di vedere quali siano le intenzioni del regista. Se non è pregiudizio questo! Ma scommetto che alla ripresa nella primavera 2025 questo sarà lo spettacolo più acclamato della stagione.
L’edizione scelta è quella italiana in quattro atti del 1884, quella in cui l’elemento politico della vicenda è più evidente. Il regista e cineasta, riparato in Europa dalla Russia, sceglie un’ambientazione contemporanea ma con rimandi alla vicenda storica nei costumi che costituiscono la chiave della sua lettura. L’occasione è raccontata dal regista stesso ed ispirata dalla sua visita al museo del costume di Kyoto. Siamo infatti nel laboratorio dell’Istituto di Ricerca sul Costume di San Yuste, dove gli scienziati studiano l’abbigliamento storico e ricreano gli abiti dell’epoca di Filippo II. Elisabetta, una scienziata del laboratorio, è tormentata dal matrimonio con il padre di Carlo, il tirannico direttore dell’Istituto che ha una tresca con Eboli. Essi vedono riflessi nel passato le loro stesse vite e i loro problemi. Nel libretto molta importanza viene data all’abbigliamento e all’aspetto: Rodrigo ed Eboli discutono della bellezza e della grazia delle donne francesi, mentre su uno schermo vengono proiettate immagini dei dettagli dei costumi. I personaggi principali hanno infatti il loro specchio nei modelli storici con cui vengono vestiti degli attori e vediamo infatti i ricercatori addobbare con ricchi costumi i personaggi di Filippo II, del figlio Carlo, di Isabella di Valois e della principessa di Eboli – ma non Rodrigo, una figura non storica inventata da Schiller – con l’obiettivo di presentarli in una mostra. Verrano poi spogliati quando viene rivelato il loro vero io. I quattro personaggi attuali sopra gli abiti di tutti i giorni indossano, spesso controvoglia, dei prototipi neri imbastiti quando entrano nei loro ruoli e si rendono conto delle motivazione delle loro controparti storiche.
Attraverso Carlo, Elisabetta, Filippo II e anche Rodrigo ed Eboli noi sperimentiamo i conflitti umani in un mondo che pone ostacoli sul cammino, ostacoli che non devono necessariamente includere la conquista delle Fiandre: l’orrore della guerra è qui paragonato allo sfruttamento delle fabbriche asiatica di abiti a basso costo e alla catastrofe ambientale che ne consegue. Carlo indossa una semplice maglietta con lo slogan “Libertà” attaccato con del nastro adesivo mentre quella di Rodrigo recita “Salviamo la nostra terra”, Posa infatti è un attivista che protesta contro le condizioni di sfruttamento dei lavoratori a basso costo, una figura anacronistica nel suo proclamare la sua idea di umanità in un mondo che non l’accetta. Qui non viene ucciso dal solito colpo di pistola, ma facendolo diventare un altro anonimo lavoratore, senza faccia, che fa parte integrante del sistema.Questi messaggi sono ciò che è veramente importante e qui acquistano una forza reale nelle immagini che sono altrettanto efficaci, come l’autodafé messa in scena dagli attivisti che interrompono la storica sfilata di moda per protestare contro la distruzione dell’ambiente. Il rogo qui è il rogo del pianeta.
Che poi un’opera come il Don Carlo di Verdi abbia bisogno di una interpretazione complessa che aggiunge ulteriori livelli a quelli già presenti è da discutere, ma la forza teatrale e la coerenza della lettura di Serebrennikov sono fuori questione. «Verdi non rende facile la vita del regista», scrive Serebrennikov, «È difficile mettere in scena le sue opere in modo razionale e c’è il serio rischio di trovarsi in un vicolo cieco concettuale. Un capolavoro così compatto e dalla struttura accattivante come il Don Carlo parla quasi da solo, resistendo a tutta una serie di tecniche di produzione moderne. Come regista, quindi, mi sono trovato ad affrontare una grande sfida. La seguente considerazione è diventata la chiave del mio concetto: Schiller stesso una volta ha descritto l’opera come “un ritratto di famiglia in una casa principesca”. Questo significa che dobbiamo guardare all’ambientazione storica e sociale della sua storia e dei suoi personaggi. Ma ho dovuto trovare il mio accesso artistico a tutto questo perché l’opera fosse un vero teatro e non un “concerto in costume”, come descriviamo gli spettacoli d’opera con una messa in scena statica e la mancanza di interpretazione drammatica e questo significava che dovevo drammatizzare i costumi stessi e abbiamo deciso di ricostruire i costumi degli attori storici con un elaborato processo. I costumi ufficiali degli originali storici dei personaggi dell’opera […] sono documentati in una serie di ritratti a figura intera del XVI secolo, questi ritratti e le loro rappresentazioni sono soprattutto rappresentazioni di potere».
La partitura di Verdi è resa con vigore da Philippe Jordan alla guida dei Wiener Philharmoniker in grande forma. Nelle note sul programma di sala il direttore svizzero spiega la sua preferenza per questa versione –che aveva comunque eseguito nella versione originale francese in cinque atti a Parigi – «Ho una particolare predilezione per la versione di Milano: quella francese è sicuramente più coerente e logica, tuttavia, la drammaturgia del Don Carlo italiano sembra più equilibrata, soprattutto nella versione in quattro atti, che non inizia nella foresta di Fontainebleau ma nel monastero. In primo luogo, si crea un arco più efficace dall’inizio alla fine dell’opera, che si svolge anch’essa nel monastero, e in secondo luogo, l’impressionante autodafé e la scena con il Grande Inquisitore vengono spostate al centro dell’azione, rendendo la struttura più uniforme. Si assiste a un meraviglioso crescendo dal primo atto a un finale altamente drammatico, in cui il tema atmosferico e commovente della nostalgia della morte può essere vissuto ancora più chiaramente». Già l’inizio lascia già presagire una grande interpretazione: quattro corni all’unisono e perfettamente intonati armonizzano fin dalle prime battute e da quel momento in poi l’orchestra dimostra una lucentezza che avvolge tutto, fino all’intimo assolo di violoncello che decide l’atmosfera degli ultimi due atti.

Cast di eccezione dominato dalla intensissima Elisabetta di Asmik Grigorian che debutta e ne fa uno dei ruoli più splendenti della sua luminosissima carriera. «Tu che le vanità» sono dieci minuti di canto intensissimo e regale che coronano una performance sconvolgente. Molto bene anche il mezzosoprano Ève-Maud Hubeaux, splendida Eboli qui a Vienna in tempo di pandemia e a Ginevra l’anno scorso, figura dalla magnetica presenza scenica e vocale che, dopo una maiuscola interpretazione della Canzone del velo con tutti gli abbellimenti richiesti, ha consegnato un «O don fatale» festeggiatissimo dal pubblico. Magnifico anche il sensibile e umano Posa del baritono Étienne Dupuis mentre troppo teso e fuori stile il Carlo di Joshua Guerrero. Gloriosamente ben delineato il Filippo II di Roberto Tagliavini e giustamente minaccioso il Grande Inquisitore di Dmitrij Ul’ianov, Filippo II l’anno scorso a Ginevra.
⸪