L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★★☆

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Torino, Teatro Regio, 28 gennaio 2025

Il mondo di legno di Nemorino

Arriva dalla platea Nemorino: parka, borsa di plastica con bottiglie che finiranno nel frigorifero del suo laboratorio di burattinaio sporco di segatura e ingombro di ciocchi di legno. Sul fondo le marionette pronte per la consegna, sul tavolo di lavoro una marionetta femminile a cui mancano ancora pochi tocchi. Ma Nemorino ne è già innamorato: un po’ Geppetto, un po’ Pigmalione, il creatore si è invaghito della sua creatura. Ma non sarà inghiottito dalla balena, bensì dal suo onirico subconscio.

Burattinaio improvvisato, «non avendo trovato un suo posto nel mondo, [Nemorino] crea un suo mondo di legno», dice il regista Daniele Menghini, e tutta la vicenda del libretto di Felice Romani diventa così una soggettiva del giovane che si trova a fare i conti con l’amore per la prima volta. Da una parte c’è un uomo fragile, genuino e semplice, dall’altra personaggi caricaturali, farseschi, delle maschere, appunto. Nemorino quindi è l’unico essere umano, tutti gli altri sono burattini. Ma mentre la sua creatura di legno acquista sempre più le qualità umane della ragazza Adina, il giovane si trasforma invece in burattino, in Pinocchio. Ed ecco allora Dulcamara diventare Mangiafuoco, mentre una inquietante figura mezzo Grillo Parlante mezzo Fata Turchina passeggia sgranocchiando gli arti di legno del burattino che era stato portato in scena in una bara trasportata dai lugubri conigli della fiaba di Collodi. Però nel gioioso lieto fine Nemorino riacquista la sua totale umanità e scappa con l’amata passando nuovamente per la platea.

Spettacolo ricco – forse troppo – e carico di simboli quello del giovane e talentuoso Daniele Menghini di cui era stato molto apprezzato Un ballo in maschera al recente Festival Verdi. Arriva da un altro Teatro Regio, quello di Parma, questo Elisir d’amore e piace al pubblico, anche perché il regista riesce a conquistarselo con la sua sicura tecnica teatrale, talora anche troppo esibita, e immagini di grande suggestione. Niente villaggio campestre, covoni di fieno e mietitori: i costumi settecenteschi di Nika Campisi richiamano quelli delle marionette della Fondazione Grilli (a Parma erano quelli del Museo Giordano Ferrari) mentre le scenografie di Davide Signorini ricreano un mondo cupamente onirico che ricorda Freaks, il film di Browning, con una incombente gigantesca mano da cui pendono i fili delle marionette mentre le luci di Gianni Bertoli sottolineano l’artificialità dell’ambiente. 

Se la complessa drammaturgia messa in atto dal regista per una vicenda così semplice e immediata può non aver convinto tutti, non sembrano invece esserci state riserve sulla qualità dell’esecuzione musicale affidata a un sicuro concertatore quale Fabrizio Maria Carminati che della partitura ha dato una lettura corretta e precisa, esaltandone il tono patetico quando necessario con tempi comodi e con una bella ricerca di colore strumentale. A suo onore anche l’aver eseguito l’opera nella sua interezza aprendo i tagli di tradizione e ripristinando i da capo. Apprezzatissimi sono stati gli arguti interventi al fortepiano di Paolo Grosa con i suoi accenni al Don Pasquale o alle musiche del Pinocchio televisivo di Comencini.

Del quartetto di cantanti principali il migliore è il Belcore di Davide Luciano, grande proiezione ottenuta senza ispessire o strangolare la voce, eleganza di fraseggio e convincente presenza scenica. Non è da meno il simpaticissimo Nemorino di René Barbera, parte da lui spesso frequentata, dal bellissimo colore timbrico messo in luce, assieme alla grande tecnica, nelle due arie solistiche nel finale del primo atto e poi nella celeberrima «Una furtiva lagrima», che non è stata bissata solo perché, da grande artista qual è, non ha voluto eccedere nei facili effetti mantenendo una linea vocale di grande purezza. Paolo Bordogna si dimostra come sempre uno straordinario attore, ma il suo Dulcamara è inferiore alle aspettative per comicità, colore della voce e potenza. E spesso con ricorso al parlato.

Infine Federica Guida. A me non piacciono le Adine soubrette, ma qui il soprano palermitano sfoggia un temperamento eccessivo per il personaggio, con un timbro non molto piacevole, un’emissione sempre troppo forte e qualche grido di troppo. Convincente è la Giannetta di Albina Tonkikh del Regio Ensemble e ottimo il coro che non solo si dimostra eccellente musicalmente sotto la guida di Ulisse Trabacchin, ma sta migliorando sempre più la sua presenza scenica, qualità non sempre evidente nei cori italiani. Si era già notata nella Manon Lescaut di Auber – di cui si vorrebbe vedere Le Philtre, tratto dalla stessa pièce di Scribe, e un tempo molto popolare in Francia – e anche qui i movimenti e la gestualità, con il concorso dei bravi mimi-ballerini, sono risultati estremamente efficaci.

Accoglienza molto calorosa del pubblico con applausi particolarmente intensi per gli interpreti maschili. Nelle successive repliche si alterna un cast altrettanto prestigioso.