Mese: giugno 2025

Monteverdi e Cavalli

foto © Lorenzo Gorini

Claudio Monteverdi, dall’opera L’Incoronazione di Poppea, SV 308:
Sinfonia (versione di Napoli)
“Signor, deh non partire”
“Speranza tu mi vai”
“Come dolci signor”

Andrea Falconieri, Sonata Folias echa para mi Señora Doña Tarolilla de Carallenos dal Primo libro di canzone, sinfonie, fantasie, capricci, brandi, correnti, gagliarde, alemane, volte

Claudio Monteverdi, “Ohimé, dov’è il mio ben, dov’è il mio core?”, SV 140, romanesca a due voci dal Settimo Libro de Madrigali a 1, 2, 3, 4, et 6 voci, con altri generi

Claudio Monteverdi, “Signor, signor oggi rinasco” dall’opera L’Incoronazione di Poppea

Francesco Cavalli, dall’opera Veremonda l’amazzone di Aragona, ossia Il Delio:
Sinfonia
Prologo

Francesco Cavalli, dall’opera Il Ciro:
“O rigor d’iniqua stella”
“Amanti fuggite”

Francesco Cavalli, Sinfonia dall’opera Veremonda l’amazzone di Aragona, ossia Il Delio

Claudio Monteverdi
Chiome d’oro, SV 143, canzonetta a due voci, concertata da due violini, chitarrone o spinetta dal Settimo Libro de Madrigali a 1, 2, 3, 4, et 6 voci, con altri generi

Francesco Cavalli, dall’opera Il Ciro:
“In mezzo le schiere”
“Ai sospiri d’Arpago”

Apolline Raï-Westphal soprano, Thaïs Raï-Westphal soprano, Christophe Rousset  direttore, Les Talens Lyriques

Cremona, Auditorium G. Arvedi del Museo del violino, 28 giugno 2025

Due veneziani a Napoli

Il festival cremonese volge al termine e l’ultimo appuntamento nella preziosa scatola lignea dell’Auditorium G. Arvedi del Museo del violino vede un ricco programma in cui Monteverdi è affiancato al suo più illustre allievo Francesco Cavalli e un altro compositore coevo, Andrea Falconieri. La parte del leone è comunque quella del il Divino Claudio presente con quasi tutti i duetti de L’incoronazione di Poppea eseguiti mirabilmente dalle sorelle Apolline Raï-Westphal e Thaïs Raï-Westphal, entrambi soprani ma con un timbro leggermente differente, più caldo quello di Thaïs che infatti interpreta i ruoli en travesti di Nerone in “Signor, deh non partire” dall’atto I, scena 3; “Come dolci, signor” dall’atto I, scena 10 e “Signor, signor, oggi rinasco” dall’atto III, scena 5; di Arnalta in “Speranza tu mi vai”, dall’atto I, scena 4; di Valletto in “Sento un certo non so che” dall’atto II, scena 4. La voce più chiara di Apolline è invece l’ideale per Poppea e per Damigella, ma è l’intrecciarsi sapiente delle due voci a destare ammirazione per l’elegante linea vocale in perfetto equilibrio tra ingenuità e passione..

Come a mettere a confronto maestro e allievo, il programma prevede pagine teatrali di Francesco Cavalli dalla sua opera Il Ciro, “drama per musica” del 1654, di cui, ora singolarmente e in duo, le due cantanti ci fanno ascoltare quattro momenti: “O rigor d’iniqua stella” dall’atto I, scena 3; “Amanti fuggite” dall’atto I, scena 8; “In mezzo le schiere” dall’atto I, scena 7 e “Ai sospiri d’Arpago” dall’atto III, scena 10, una ricca antologia di affetti interpretati con stile ed espressività.

Appartenente invece al Settimo Libro di madrigali del 1619 di Monteverdi sono la romanesca a due voci  – dove in quattro strofe di Bernardo Tasso («Ohimé, dov’è il mio ben, dov’è il mio core? Chi m’asconde il mio core: e chi me ‘l toglie? Dunque ha potuto sol desio d’onore Darmi fera cagion di tante doglie? Dunque ha potuto in me più che l’amore Ambitiose, e troppo lievi voglie? Ahi sciocco mondo e cieco, ahi cruda sorte Che ministro mi fai de la mia morte») vengono declinate in musica le perenni pene d’amore – e la deliziosa canzonetta «Chiome d’oro bel tesoro Tu mi leghi in mille modi Se t’annodi se ti snodi» in cui le voci sembrano imitare l’annodarsi e lo snodarsi delle chiome.

Dopo alcune pagine puramente strumentali in cui si ammira ancora di più la bellezza del suono della smilza compagine formata da Gilone Gaubert e Benjamin Chénier (violini), Emmanuel Jacques (violoncello) e Karl Nyhlin (arciliuto e chitarra) e condotta al clavicembalo e all’organo da Christophe Rousset, specialista indiscusso di questo repertorio, l’impaginato prevede brani del compositore Andrea Falconieri, cronologicamente tra Monteverdi e Cavalli, napoletano ma attivo anche in Spagna di cui si ascoltano una Sonata folias… e la sonata a tre L’Eroica ambedue influenzate dallo stile iberico con temi di danza inseriti in un discorso musicale sorprendentemente originale.

Grande il successo della serata e i seguito agli insistenti applausi vengono regalati due bis: uno quello di “Chiome d’oro” e poi un secondo che non poteva mancare dopo la sequenza di duetti dell’Incoronazione di Poppea, ossia quella straordinaria pagina che è il duetto tra Poppea e Nerone nel finale “Pur ti miro”, di paternità discussa – Monteverdi? Cavalli? Benedetto Ferrari? – e uno dei momenti più sensuali del teatro in musica.

  ⸪

L’Ercole amante

foto © Lorenzo Gorini

Francesco Cavalli, L’Ercole amante

★★★★

Cremona, Teatro Ponchielli, 27 giugno 2025

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Se Cremona ha Monteverdi, Crema ha Cavalli

Con L’Ercole amante di Cavalli, Andrea Bernard firma per il Festival di Cremona uno spettacolo ironico e raffinatissimo, ambientato in un matrimonio contemporaneo. La regia gioca tra barocco e modernità, sostenuta dalla direzione brillante di Antonio Greco. Cast giovane e vivace, spiccano Dolcini, Bar e Raftis. Opera sontuosa, attuale nei temi e accolta con entusiasmo.

Tre secoli erano trascorsi tra il 7 febbraio 1662 e il 17 febbraio 1961: la prima data essendo quella della prima rappresentazione a Parigi e la seconda quella della prima ripresa al Teatro La Fenice di Venezia de L’Ercole amante, l’opera voluta da Mazzarino per festeggiare le nozze del ventiquattrenne re di Francia Luigi XIV con l’infanta di Spagna Maria Teresa d’Asburgo nel giugno 1660. A causa dei ritardi nella ricostruzione del teatro in cui era previsto il debutto, distrutto da un incendio l’anno prima, l’opera di Cavalli poté andare in scena solo nel 1662 inaugurando la nuova grandiosa Salle des Machines innalzata alle Tuileries. Il cardinale aveva scelto il più popolare operista dell’epoca, e ora era Cavalli stesso a dirigere la sua creazione con il re in scena come danzatore. Nata per un’occasione così particolare, l’opera non fu mai più ripresa se non appunto in tempi moderni.

Tratta dalla mitologia e dalle Trachinie di Sofocle, la vicenda narra della non eroica fatica di Ercole di sedurre la bella Iole – figlia di Eutyro che l’Alcide ha ucciso perché gliela aveva rifiutata come sposa – scatenando nell’ordine: la gelosia della legittima consorte Deianira; l’angoscia del figlio Hyllo amante corrisposto di Iole; la vendetta dello spirito di Eutyro (Eurito in Sofocle); l’intervento di Venere a difesa degli amori purchessiano; quello di Giunone protettrice invece delle unioni coniugali. E poi di Nettuno, Mercurio, popolani e confidenti per complicare vieppiù la vicenda. Con gli intermezzi danzati composti da Isaac de Benserade e Jean-Baptiste Lully lo spettacolo allora durò quasi una giornata e a questo proposito chiederei a chi pensa che l’opera debba essere rifatta con le scenografie e i costumi originali come vorrebbero fosse messa in scena oggi l’opera di Cavalli, davanti a un pubblico che non è quello della corte reale di Francia del XVII secolo… Cambiati i gusti, la tecnologia e l’ambiente sociale, la vicenda, in equilibrio tra sublime e ridicolo, continua a funzionare anche oggi: amori tossici, l’eterna prevaricazione dell’uomo sulla donna, la complessità dei rapporti coniugali. Temi sempre di attualità.

Strano soggetto, comunque, per festeggiare un matrimonio! Il libretto di Francesco Buti a più riprese si fa beffe dei vincoli coniugali, ma il tema di fondo era l’invincibilità erculea del monarca francese e tanto bastò a renderla adatta alla bisogna. Ecco quindi fin dal Prologo espresso il chiaro l’intento celebrativo del lavoro con il coro di fiumi che inneggia al periodo di pace e ai «beati imenei | di Maria e di Luigi», mentre nel finale Bellezza ed Ercole cantano in duetto: «Così un giorno avverrà con più diletto, | che della Senna in su la riva altera | altro gallico Alcide arso d’affetto | giunga in pace a goder bellezza ibera». Infatti, dopo varie peripezie, Ercole viene assunto in cielo come sposo di Bellezza lasciando libero il figlio Hyllo di convolare alle desiate nozze con Iole e non-inconsolata la “vedova” Deianira.

Il giovane regista Andrea Bernard si trasforma in attento wedding planner nella sua lettura del lavoro di Cavalli. Ambienta infatti la vicenda in una location (per rimanere nel lessico…) dove è previsto il matrimonio di Ercole e Deianira. Sono presenti gli invitati con le coppe di spumante, i camerieri che si affannano, ma lo sposo è latitante, invaghito com’è di un’altra, e a Deianira non resta che affidarsi alla dea Giunone, in evidente stato di gravidanza, per difendere i suoi diritti coniugali.

Nella parete di fondo di questa scena unica si apre il boccascena di un teatrino da cui fanno il loro ingresso dèi e dèe per piegare a loro volontà i destini umani. Nella scenografia di Alberto Beltrame la boiserie è punteggiata di finestrine per l’apparizione di teste od oggetti, mentre tavoli e sedie costituiscono gli unici elementi mobili in scena. L’ambientazione ricorda il film Melancholia di Lars von Trier e simile è anche il bianco abito da sposa che Deianira indosserà fin quasi alla fine. Con gli splendidi costumi di Elena Beccaro, moderni per gli umani e barocchi per gli dèi, e l’attento gioco luci di Marco Alba, Bernard costruisce uno spettacolo tecnicamente perfetto, ironico e visivamente delizioso che ricrea lo spirito dell’opera barocca in termini intelligentemente moderni, con un gioco recitativo fluido ed efficace affidato a interpreti giovani e spigliati. Per una volta sono godibili e mai invadenti anche le moderne coreografie di Giulia Tornarolli ironicamente eseguite dai mimi/danzatori Andrea Carlotta Pelaia, Teodora Fornari e Vincenzo Giordano. Dopo tanti interessanti allestimenti, con questa sua produzione Andrea Bernard entra nel ristretto numero dei registi più stimolanti del momento.

Con opportuni tagli il Maestro cremonese Antonio Greco porta a circa tre ore uno spettacolo che nella registrazione in DVD della produzione della Nederlandse Opera del 2010 (direttore Ivor Bolton, regista David Alden) superava le quattro ore e venti minuti di sola musica. La sontuosità della strumentazione – efficacissime le percussioni nel corteo funebre, le fanfare di ottoni dislocati in fondo alla platea, l’organo per accompagnare le ombre d’oltretomba – è il punto di forza della direzione di Greco al clavicembalo e alla testa dell’orchestra del festival Cremona Antiqua con i suoi 23 strumentisti. Precisa e attenta negli attacchi e dal suono brillante, questa rende con sapienza la sensualità della musica dell’allievo di Monteverdi, il suo duttile recitar cantando, le ariose linee vocali, la varietà di affetti in musica, la dinamica cangiante e la straordinaria immediatezza teatrale. Indimenticabili sono gli ensemble – duetti, tri, quartetti… – di cui è inusitatamente ricca quest’opera e che qui regia ed esecutore musicale mettono magnificamente in evidenza.

Buona vocalità e prestanza scenica contraddistinguono i giovani interpreti. Renato Dolcini è un solido Ercole dalla sicura linea vocale. La fragilità di fondo dell’invincibile eroe è messa in evidenza dall’espressivo ed elegante fraseggio del baritono milanese a suo agio in questo repertorio. La Deianira di Shakèd Bar ha nel lamento dell’atto II, «Misera, ohimè, ch’ascolto […] Ahi ch’amarezza» il punto più drammatico dell’opera che viene vissuto con grande intensità dalla cantante. Iole trova nella vivace personalità di Hilary Aeschliman adeguata definizione in coppia con l’amante Hyllo interpretato con qualche timidezza da Jorge Navarro Colorado. Molto ben caratterizzata è la Giunone di Theodora Raftis, così come il Nettuno/Ombra di Eutyro di Federico Domenico Eraldo Sacchi. Tre personaggi per Paola Valentini Molinari: Venere/Bellezza/Cinzia, tutti e tre efficamente delineati. Pasithea è Chiara Nicastro, Mercurio è Matteo Straffi e il Tevere Arrigo Liverani Minzoni.

Personaggi che fanno di tutto per non essere considerati secondari, e ci riescono, sono il Licco del controtenore torinese Danilo Pastore, qui elegante dama anni ’30 en travesti, e il Paggio di Maximiliano Danta, il controtenore uruguayano che si è distinto all’ultimo Concorso Cesti. Sono due cantanti da tenere sott’occhio per la loro personalità. Le tre Grazie di Benedetta Zanotto, Giorgia Sorichetti e Isabella Di Pietro completano l’affollato cast tipico delle opere di Cavalli. Spesso presente e vivace, il coro del festival fornisce il suo valido contributo all’esito trionfale della serata. Solo due recite, ma chissà che qualche direttore artistico avveduto consenta a un pubblico più numeroso di godere di tanta bellezza. Rinnovando anche in tal modo gli stantii cartelloni dei teatri italiani. 

Palestrina’s Requiem

foto © Giulio Solzi Gaboardi

Claudio Monteverdi,

Claudio Monteverdi, Lauda Jerusalem (II), mottetto per cinque voci e basso continuo SV 203

Giovanni Pierluigi da Palestrina, Missa pro defunctis cum quinque vocibus
Kyrie – Offertorium – Sanctus – Agnus Dei – Libera me, Domine – Kyrie

Claudio Monteverdi, da Messa a quattro voci et salmi  […]  Messa in Sol minore SV 190
Claudio Monteverdi, Laudate, pueri, Dominum (III) SV 196

Peter Phillips direttore, Tallis Scholars

Cremona, Chiesa di San Marcellino, 26 giugno 2025

La gloriosa polifonia italiana

Ancora un titolo in inglese per uno dei concerti più attesi del Monteverdi Festival di Cremona che non solo ripropone le gemme musicali del passato, ma ne fa riscoprire di nuove e offre esecuzioni critiche alla luce degli ultimi studi.

È il caso della  Missa pro defunctis che Giovanni Pierluigi da Palestrina compose per la romana Cappella Giulia il cui organico prevedeva una parte di Cantus (voce di soprano), una di Altus (contralto), due di Tenor e una di Bassus, assolutamente conforme quindi alle abitudini del compositore, soprattutto nell’ultimo periodo della sua produzione, il lavoro è infatti del 1588 e Palestrina morirà sei anni dopo. Oltre alla revisione critica, l’esecuzione prevede l’inserimento del Libera me, Domine dopo la sequenza canonica Kyrie, Offertorium, Sanctus, Agnus Dei e prima del Kyrie finale, un responsorio ritenuto per molto tempo di dubbia attribuzione e solo recentemente ristabilito con autorevolezza nella sua autenticità da Riccardo Pintus. Un bel modo di celebrare il compositore a 500 anni dalla nascita.

La pagina, che unisce i profili del “cantus firmus’ liturgico con l’intreccio polifonico delle diverse parti, viene eseguita dai Tallis Scholars, l’ensemble il cui nome si riferisce al compositore inglese cinquecentesco Thomas Tallis,  fondato nel 1973 da Peter Phillips che ora li dirige con gesto sobrio ma efficace, lasciando alle sole voci interconnesse nel sapiente intreccio la magia di ricreare questa testimonianza di fede. Dieci i cantanti presenti: Amy Haworth, Victoria Meteyard (soprani), Caroline Trevor, Elisabeth Paul (contralti), Steven Harrold, Simon Wall, Jonathan Hanley e Tom Castle (tenori), Tim Scott Whiteley, Rob Macdonald (bassi), voci perfettamente fuse eppure chiaramente individuabili in certi passaggi solistici. Un’armonia vocale che riflette quella del messaggio religioso del testo.

Nella sua città natale non poteva mancare Monteverdi, che incornicia il piatto forte di Palestrina: il concerto inizia infatti con il suo Lauda Jerusalem (II), mottetto per cinque voci e basso continuo, opera pubblicata nel 1650, sette anni dopo la morte dell’autore. Il basso continuo  qui non è presente, in scena ci sono solo le voci, a meno che non si consideri basso continuo l’unz-unz sparato dalle casse in piazza Stradivari, neanche tanto vicina, dove la festa di inizio estate dei dj richiama fino a oltre mezzanotte la gioventù cremonese stordita dai decibel invece che dalla polifonia barocca. Mai come in questo caso si può dire che è tutt’altra musica… Sul testo del Salmo 147, «Lauda, Jerusalem, Dominum; lauda Deum tuum, Sion», i dieci interpreti vocali fanno a meno della tiorba, che abitualmente nelle registrazioni di questi sei minuti di musica fornisce il basso continuo, riempiendone lo spazio con un suono pulito ma denso e intonazione perfetta quanto la dizione.

Il gioco delle voci si fa più mosso nella Messa in Sol minore a quattro voci, con due tenori in meno quindi, anch’essa pubblicata nel 1650. Sono passati alcuni decenni dalla messa di Palestrina e la luce di Venezia sembra rendere i colori più vividi e brillanti, gli interventi delle voci più “teatrali”. L’«incarnatus est» del Credo è cantato dai contralti con un’intensità inusuale, marcatamente dolorosa è quella del «crucifixus», il Sanctus e il Benedictus sono particolarmente gioiosi.

Conclude il programma ancora Monteverdi col suo Laudate, pueri, Dominum, mottetto per cinque voci e basso continuo dalla stessa Messa a quattro voci et salmi  a 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 et 8 voci, concertati, e parte da capella, et con le letanie della B. V. Qui tornano in scena i due tenori per completare l’ensemble che al termine suscita gli applausi entusiastici dal pubblico che ha gremito la chiesa e che ottiene un ghiotto fuori programma, il Regina Cœli lætare del compositore fiammingo Nicolas Gombert, qui nella versione a dieci voci.

Care gemme

Claudio Monteverdi, “Vi ricorda, o bosch’ombrosi” dall’opera L’Orfeo

Claudio Monteverdi, “Son rubini amorosi” dall’opera L’incoronazione di Poppea

Francesco Cavalli, “La bellezza è un don fugace” dall’opera Xerse

Bernardo Pasquini, Sinfonia dall’oratorio Il martirio dei santi Vito, Modesto e Crescenzia

Alessandro Melani, “O quanto è soave” dall’opera Il carceriere di sé medesimo

Agostino Steffani, “Ogni core può sperar” dall’opera Servio Tullio

Domenico Sarro, “Miei guerrieri” dall’opera Il Vespasiano

Alessandro Scarlatti, Sinfonia dalla serenata Clori, Dorino e Amore

Antonio Vivaldi, “Deh ti piega” dall’opera La Fida Ninfa

Domenico Sarro, Introduzione in Re maggiore (Sinfonia) dall’opera Partenope

Giovanni Alberto Ristori, “Ah, fermate il pianto” dall’opera Temistocle

Georg Friedrich Händel, “Fatto inferno… Pastorello d’un povero armento” dall’opera Rodelinda, Regina de’ Longobardi

Laurence Kilsby tenore, Alessandro Quarta direttore, Concerto Romano

Cremona, Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore, 25 giugno 2025

Non solo controtenori

Una vera lezione di canto barocco quella fornita dal concerto del Monteverdi Festival che ha messo in campo uno dei maggiori interpreti vocali di questo repertorio. Per una volta non si tratta di un controtenore, bensì di un tenore, quel Laurence Kilsby che tre anni fa aveva vinto il primo premio del Concorso Cesti, uno dei tanti premi mietuti in una carriera folgorante che l’ha visto passare da voce bianca della Tewkesbury Abbey Schola Cantorum ai BBC Proms ai più importanti ruoli sulle scene internazionali quando la voce si è trasformata in quella di un adulto.

Sul piccolo palco dell’Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore salgono gli strumentisti del Concerto Romano diretti dal suo fondatore Alessandro Quarta, un ensemble specializzato nel repertorio italiano, e più in particolare di quello romano, dei secoli XVI, XVII e XVIII. Gli undici archi, completati da tiorba/chitarra e clavicembalo, eseguono anche pagine strumentali quali la Sinfonia dall’oratorio Il martirio dei santi Vito, Modesto e Crescenzia di Bernardo Pasquini, la Sinfonia dalla serenata Clori, Dorino e Amore di Alessandro Scarlatti e l’Introduzione in Re maggiore (Sinfonia) all’opera Partenope di Domenico Sarro, quest’ultima in prima esecuzione assoluta. La pagina del Pasquini è del 1687 e dimostra l’abilità del suo autore a gestire il passaggio da musica sacra a musica per la scena a fine Seicento, mentre le altre due, rispettivamente del 1702 e 1722, sono intrise della evidente teatralità dell’opera napoletana e romana. Con un gesto espressivo e coinvolgente Alessandro Quarta, direttore artistico del Festival Internazionale Urbino Musica Antica e presidente della Fondazione Italiana per la Musica Antica, dirige una compagine che risponde con un suono pieno, preciso e brillante nei ritmi di queste pagine introduttive. Ineccepibile è poi l’accompagnamento del solista in una sequenza di pezzi musicali che da Claudio Monteverdi a Giovanni Alberto Ristori, vogliono declinare l’enorme varietà dell’aria barocca.

Non si può non iniziare dal primo capolavoro operistico, L’Orfeo, di cui Kilsby rende con vivacità ed eleganza la scena “Vi ricorda, o bosch’ombrosi” del II atto, in cui Orfeo rende merito a Euridice del suo amore poco prima che la Messaggera entri in scena ad annunciarne la morte. Qui si ammirano la dizione da manuale e la perfetta gestione da parte del cantante delle insidiose armonie disseminate in questa “facile” pagina del 1607. Ancora l’amore, ma inteso in maniera molto più sensuale, è il soggetto della successiva aria monteverdiana, “Son rubini amorosi” da L’incoronazione di Poppea (1643), un’altra delle “care gemme” a cui è dedicata la serata.

Coevo di Monteverdi, di Francesco Cavalli, ascoltiamo “La bellezza è un don fugace” dall’opera Xerse (1655), la cinica affermazione dell’eunuco Eumene qui resa con elegante nonchalance da Kilby che nella successiva “O quanto è soave” introduce il musicista Alessandro Melani e la sua opera Il carceriere di sé medesimo, qui siamo nel 1681. Il Melani è un compositore recentemente riscoperto, è suo infatti il sorprendente L’empio punito, un Don Giovanni antecedente di oltre un secolo di quello di Mozart! La tenerezza di “O quanto è soave” è messa a confronto con l’irresistibile tono danzante di “Ogni core può sperar” dall’opera Servio Tullio di Agostino Steffani (1686), compositore veneto formatosi con Cavalli e investito della porpora vescovile. Prolifico autore di opere e oratorii, fu attivo alla corte di Baviera ed è qui che debuttò il suo Servio Tullio per il matrimonio dell’elettore Massimiliano-Emanuele con l’arciduchessa Maria Antonietta d’Austria. Tutt’altra atmosfera è quella di “Miei guerrieri” dall’opera Il Vespasiano di Domenico Sarro. Siamo nel 1707 e le agilità sono un mezzo per esprimere i diversi sentimenti, gli “affetti” nel lessico musicale settecentesco, una retorica che in questo secolo costituirà il fondamento dell’opera seria. Qui la voce del tenore assume un’altra dimensione espressiva, ma è ancora una volta con Vivaldi che avviene il miracolo: era stato il pezzo con cui si era classificato primo al Concorso Cesti di Innsbruck del 2022 ed allora aveva incantato il pubblico e la giuria per la sapienza e intensità con cui aveva intonato “Deh ti piega”, l’aria del pastore Narete rapito assieme alle due figlie da un pirata nell’opera La Fida Ninfa (1732). Il pezzo è uno dei capolavori del Prete Rosso, il modello perfetto dell’aria barocca suddivisa nelle sue tre, o meglio, cinque parti: esposizione del tema sulla prima strofa A («Deh ti piega, deh consenti, | mira il pianto, odi i lamenti, | e ti muova oro, o pietà»); ripetizione variata A’; seconda strofa B («In sciagure sì infelici, | in disastri sì funesti | anche tu cader potresti. | Anche noi fummo felici, | ma sua sorte uomo non sa»); da capo A” e A”’. Non si pensava che potesse fare meglio di tre anni fa e invece Kilsby riesce ad andare oltre la perfezione: ogni ripresa è una cosa a sé, ogni parola viene ripetuta con intenzioni diverse in un itinerario espressivo di intensità sorprendente e una gara di musicalità tra voce e strumenti.

Ma il concerto non è finito qui. Un’altra prima esecuzione è quella di “Ah, fermate il pianto” dall’opera Temistocle di Giovanni Alberto Ristori, compositore bolognese attivo a Dresda nel cui bombardamento del 1945 andarono persi molti suoi lavori. Il Temistocle appartiene ai suoi ultimi anni e debuttò a Napoli nel 1738. Il lamento dell’ateniese qui assume una solenne nobiltà che la musica del Ristori e l’interpretazione di Kilsby esaltano al massimo. Fino a questo momento il programma vocale ha seguito un ordine strettamente cronologico e la esclusiva presenza di compositori italiani, ma non poteva mancare Georg Friedrich Händel con cui si fa un passo indietro nel tempo essendo del 1725 l’opera Rodelinda, Regina de’ Longobardi di cui viene eseguita la grandiosa scena sesta dell’atto III strutturata nel recitativo accompagnato «Fatto inferno è il mio petto» e nell’aria «Pastorello d’un povero armento» con cui il perfido Grimoaldo in preda a contrastanti affetti – gelosia, sdegno, amore, rimorso – invidia la serenità del pastorello che nonostante la povertà «pur dorme contento, | sotto l’ombra d’un faggio o d’alloro» Mentre lui «d’un regno monarca fastoso, | non trovo riposo, | sotto l’ombra di porpora e d’oro». Con questo omaggio alla patria del cantante e al genio teatrale del Sassone naturalizzato inglese, si conclude la parte ufficiale del concerto, ma gli applausi e l’entusiasmo del pubblico strappano due bis agli esecutori e si riascoltano così le gioiose arie di Steffani e Cavalli.

Andrea Chénier

foto © Mattia Gaido e Daniele Ratti

Umberto Giordano, Andrea Chénier

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 22 giugno 2025

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Chénier come Assange…

«Fur tre mesi! | Ah no… tre secoli!», esclama Elvira ad Arturo ne I puritani. Anche ll regista Giancarlo del Monaco la pensa allo stesso modo per il suo Andrea Chénier ora sul palcoscenico del Teatro Regio di Torino a conclusione della stagione. Nella sua messa in scena tra il primo e il secondo quadro sono passati realmente alcuni secoli e dal Settecento un po’ stucchevole di nobili annoiati durante la Rivoluzione Francese, passiamo alla Parigi del Terrore, un mondo  dove regnano sospetto e violenza, che qui diventa una dittatura del secolo XX. Se ne poteva avere qualche avvisaglia sin dall’inizio: davanti a un sipario semitrasparente il servo Gérard, quello che ha letto Jean Jacques Rousseau e gli Enciclopedisti, intona il suo disprezzo verso i «protervi arroganti signori» tra due mucchi di detriti da cui spuntano copertoni d’auto e altri manufatti non proprio compatibili col secolo dei lumi. Nel finale del primo quadro la «nobil gavotta» è interrotta da parà armati di kalashnikov e nel secondo vediamo avviarsi al patibolo nobili in parrucche e crinoline, mentre tutto intorno siamo immersi in una grigia  atmosfera novecentesca. 

Il regista paragona il poeta Chénier a «Julian Assange di WikiLeaks: dice cose vere», ma anche se fosse così – e chi scrive fa fatica ad accettare l’azzardato paragone – questa chiave di lettura risulta non del tutto convincente e la scelta di ambientare il lavoro di Illica  e Giordano in epoche distanti secoli quando riferimenti puntuali del libretto rimandano a figure del XVIII secolo – Robespierre, sanculotti, ghigliottine… – mentre in scena vediamo camion, filo spinato, archivi da Gestapo, non sembra funzionale alla messa in scena dell’unicum di Giordano (Fedora e Siberia sono ben distanti nella scia della popolarità). Il regista e figlio del mitico tenore abbandona per un momento la vena descrittiva e lineare di tanti suoi spettacoli per avventurarsi in una visione distopica realizzata con le desolate scenografie di Daniel Bianco il quale dopo aver costruito le eleganti boiserie del Castello di Cloigny (quadro I) passa all’esterno di un penitenziario (quadro II) con i suoi alti muri, il filo spinato e le torrette di guardia, poi all’interno di una stazione di polizia con infiniti schedari (quadro III) e infine al campo di concentramento (quadro IV) dove si consuma il sacrificio dei due amanti uniti nella morte. I costumi di Jesus Ruiz e le luci di Vladi Spigarolo sono coerenti con la scelta registica che contrappone il frivolo Settecento al tetro e minaccioso Novecento, le vicende storiche al triangolo amoroso dei tre personaggi principali, le tensioni rivoluzionarie con il crollo delle speranze e le delusioni. La Rivoluzione Francese come «inizio di tutto: della Rivoluzione Russa, della Rivoluzione Cinese, del Nazismo, del Fascismo… Una rivoluzione è un’utopia e le utopie non funzionano mai, si ribellano contro il desiderio umano di un mondo migliore», scrive il regista.

La qualità della scrittura orchestrale di Giordano, sapiente e capace di raffinatezze (ricordiamo l’infatuazione di Mahler per la sua  Fedora), è messa in luce dalla direzione di Andrea Battistoni, l’attuale direttore musicale, che qui dimostra la sua predilezione per il repertorio veristico e gli autori della Giovane Scuola, ma nello stesso tempo anche i limiti di questa musica, scritta per il piacere fisico più che per elaborare la psicologia dei personaggi e accompagnarne l’evoluzione. L’orchestra di Giordano è spesso uno strumento enfatico per sottolineare, talora con eccessiva frequenza, e descrivere la vicenda, come una musica per film, trascinante ma epidermica e la direzione di Battistoni esalta questo aspetto con una conduzione orchestrale votata al Forte e con un certo squilibrio tra suono che proviene dalla buca e quello dalla scena – è il solito problema dell’acustica del teatro torinese, ma il direttore musicale dovrebbe tenerne conto – così che numerosi sono i momenti in cui gli strumenti coprono le voci.

Voci tutt’altro che deboli, per di più. Di Gregory Kunde smettiamo di sottolineare il miracolo del suo mezzo vocale pressoché ancora intatto: non è questa – per lo meno non solo questa – la meraviglia che scopriamo ogni volta che lo ascoltiamo. Il tenore americano nobilita ogni volta quanto canta e quello che spesso viene berciato a piena voce qui è porto con un’emissione di infinita eleganza e attenzione alla parola, dove non contano i volumi sonori, che comunque ci sono, ma le sfumature espressive che fanno di ogni sua performance il motivo forte per non mancare lo spettacolo. Come qui, dove il suo primo intervento, «Un dì all’azzurro spazio | guardai profondo», sembra il manifesto del suo credo artistico: mai enfatico o declamatorio, il suo Chénier resta sempre un poeta, eloquente ma con stile, squillante ma leggero, e con un fraseggio e una dizione da manuale. E senza denunciare stanchezza in questa  parte esigente che ancora nell’ultimo atto richiede al personaggio di intonare una pagina vocalmente impegnativa «Come un bel dì di maggio», la versione di Illica di «Comme un dernier rayon, comme un dernier zéphyr», composto dallo Chénier il 7 termidoro 1794, poco tempo prima di salire al patibolo su ordine di Robespierre, che verrà a sua volta ghigliottinato tre giorni dopo…

In questa produzione Gérard ha il carisma di Franco Vassallo, con la sua magnifica intonazione, solidità vocale e grande espressività. Il personaggio è delineato a tutto tondo, forse con un eccesso di caratterizzazione del regista nel terzo quadro quando il vecchio servo passato alla parte dei rivoluzionari si trasforma in un lubrico Scarpia nei confronti della Maddalena di Coigny, segretamente amata fin da quand’era «piccina”. Una Maria Agresta che da viziata ragazzina angustiata da corsetti e gonnelle si risveglia orfana e povera in una realtà tremenda. La toccante pagina «La mamma morta», che è l’analogo drammatico di «Vissi d’arte» nella Tosca, è cantata con intensità ma anche controllo emotivo.

Molti sono i personaggi di contorno efficacemente interpretati: la Bersi di Mara Gaudenzi, incongruamente vestita in un abito da sera di lamé, Riccardo Rados (Un “Incredibile”), Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Adriano Gramigni (Roucher), Federica Giansanti (La Contessa di Coigny), Nicolò Ceriani (Fléville e Fouquier-Tinville), Daniel Umbelino (L’Abate), Tyler Zimmerman (Dumas) e Janusz Nosek (Schmidt), questi ultimi tre del Regio Ensemble. Nella figura della vecchia Madelon si ammira la capacità di Manuela Custer a ritagliarsi un pregevole cammeo, anche se qui la regia non è molto d’aiuto a evidenziare la breve ma straziante scena.

Purtroppo nello spettacolo del Regio la tensione drammatica si sfalda a causa della decisione di separare ognuno dei quattro quadri con un lungo intervallo, così che alle due ore di musica vengono aggiunti oltre un’ora e un quarto di intervalli – con l’assurdo di un quarto quadro che dura meno dell’intervallo che l’ha preceduto! Uno spettacolo che poteva finire dopo due ore e mezza manda invece a casa gli spettatori rimasti, con un terzo del pubblico che se ne è scappato nel frattempo, dopo quasi quattro ore.

Sweeney Todd

foto © Klara Beck

Stephen Sondheim, Sweeney Todd

Strasburgo, Opéra, 17 giugno 2025

★★★

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Il demoniaco barbiere di Fleet Street


Barrie Kosky firma alla Komische Oper di Berlino un Sweeney Todd cupo e ironico, ambientato in una Londra postbellica. La partitura di Sondheim, tra musical e opera, diventa un inquietante affresco sulla vendetta e l’alienazione sociale. Scott Hendricks è un barbiere tormentato, Natalie Dessay una Mrs. Lovett surreale e irresistibile. Direzione efficace di Bassem Akiki, successo pieno di pubblico.

Condannato ingiustamente ai lavori forzati da un giudice corrotto che gli ha violentato la moglie e obbligato la figlia a diventare la sua pupilla in attesa di farne la sua sposa, il barbiere Benjamin Barker ha avuto 15 anni di tempo per pensare alla vendetta contro il giudice e contro la società borghese di Londra. Ritornato a Fleet Street con il nome di Sweeney Todd, ritrova i suoi rasoi nella vecchia bottega sopra il chiosco dove Mrs. Lovett stenta a vendere le sue torte salate di carne e assieme i due intraprendono un florido commercio avendo a disposizione abbondante materia prima: i corpi dei clienti passati dal rasoio del barbiere al forno di Mrs. Lovett grazie a una poltrona appositamente meccanizzata. (1)

Sweeney Todd, “il demoniaco barbiere di Fleet Street”, è il personaggio di un penny dreadful, romanzi stampati su carta a buon mercato molto apprezzati dal ceto popolare in epoca vittoriana. Vi si potevano trovare storie gotiche e sensazionalistiche che riflettevano le angosce sociali e psicologiche legate alla rivoluzione industriale. Il romanzo era apparso nel 1846 in un feuilleton anonimo intitolato The String of Pearls (La collana di perle). Ma è solo nel Novecento che sulla scena lirica questi temi macabri prendono piede e così dopo il Jack lo squartatore di Berg (Lulu) e il Barbablù di Bartók, un altro serial killer diventa protagonista del teatro in musica.

Esaurita la stagione spensierata dei musical di Richard Rogers – Oklahoma! (1943), Carousel (1945), South Pacific (1949) – il genere aveva assunto un tono più serio e maturo che rifletteva i turbamenti di un’America scossa dalla guerra in Vietnam, la contestazione sociale, le contro-culture. I numeri musicali diventano più complessi, l’orchestrazione più raffinata, così come la narrazione e la scelta dei temi dettati da una generazione disincantata e in crisi esistenziale. Librettista di West Side Story, Stephen Sondheim scrive Sweeney Todd, The Demon Barber of Fleet Street intendendo la vicenda come una metafora degli abusi del capitalismo industriale che portano gli individui alla disumanizzazione e al cannibalismo per sopravvivere. Con il libretto di Hugh Wheeler e i testi delle canzoni dello spesso Sondheim, la prima avviene all’Uris Theatre (ora Gershwin Theatre) di New York il 1° marzo 1979. A seguito del successo, da Broadway Sweeney Todd arriva anche nel West End londinese l’anno successivo.

Il lavoro per molti aspetti si avvicina al genere dell’opera lirica: l’argomento drammatico, il finale tragico, la presenza di temi conduttori che rafforzano l’unità, la mancanza di balletti veri e propri, l’orchestrazione non solo di arie, duetti e ensemble, ma anche di molti dialoghi tra i numeri musicali. In totale oltre l’80% del testo di Sweeney Todd è musicato, comprese le transizioni orchestrali tra certe scene. Quello che ne deriva è un musical thriller declinato in diversi registri: il tragico, il grottesco, il satirico, l’umorismo nero, il grand-guignol, il dramma psicologico, la commedia romantica… L’ossessione vendicatrice che consuma il personaggio principale si traduce con il ritorno inesorabile della “ballad of Sweeney Todd” intonata più volte dal coro, la prima volta come ouverture e l’ultima come epilogo, in modo analogo al teatro epico di Kurt Weill e Bertolt Brecht in Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi) a cui sembra maggiormente ispirarsi Sondheim. In questa leggenda nera il tema angoscioso della ballata col suo cupo, lugubre e ripetitivo ritorno evoca la meccanicità degli assassinii di Sweeney nella sua implacabile voglia vendicatrice. In tal modo la “dark operetta” di Sondheim assume una portata tragica e universale. Nel 2007 ne esce la versione cinematografica di Tim Burton con Johnny Depp e Helena Bonham Carter.

Creata nel novembre 2024 alla Komische Oper di Berlino, non è certo la prima incursione di Barrie Kosky nel genere: A Fiddler on the Roof e West Side Story sono state entrambe già presentate sul palcoscenico alsaziano. Questa terza produzione coniuga perfettamente la teatralità e lo humour del regista australiano-tedesco che vi spiega la sua vena migliore. Con le semplici scenografie, una costruzione su una piattaforma rotante, e i costumi di Katrin Lea Tag e le luci di Olaf Freese, Londra qui diventa una triste e depressa città del Novecento, più espressionista che vittoriana. Uno scenario dove si svolge il dramma solitario del protagonista, vittima di una società oppressiva. Nella lettura di Kosky il crescendo macabro diventa un irresistibile pezzo di teatro, una tragedia di marionette dove la bravura degli interpreti ben si adatta allo dark humour del testo. Se la vicenda del barbiere e della pupilla del vecchio che la vuole impalmare non può non richiamare quella del Barbiere di Siviglia, Kosky suggerisce anche Hänsel und Gretel per la faccenda del forno in cui viene alla fine cotta anche Mrs. Lovett.

Se la prima produzione americana aveva Angela Lansbury com eprotagonista femminile e quella berlinese di Kosky la localmente popolare Dagmar Manzel, entrambe attrici dunque, qui a Strasburgo si è optato per una cantante come Natalie Dessay che aveva iniziato la sua carriera come attrice per poi diventare il soprano coloratura più acclamato dagli anni ’90 fino al suo ritiro dalle scene dei teatri d’opera nel 2013, quando ha continuato la sua attività artistica in forma di recital o in ruoli vocalmente non impegnativi. Come questo in cui riversa tutta la sua irresistibile verve per renderci simpatica la pasticciera di Fleet Street a cui dà un tono deliziosamente surreale, come nel duetto che conclude il primo atto in cui si discutono le qualità delle carni delle varie professioni: «How about rear Admiral? Too salty, I prefer General…».

Il baritono Scott Hendricks interpreta il demoniaco barbiere con misura, lasciando alle parole il loro forte impatto. Il ruolo non è particolarmente esigente dal punto di vista vocale, ma la complessa psicologia del personaggio richiede comunque una certa varietà di espressioni che il cantante texano risolve efficacemente. Più adatte al musical sono le voci di Noah Harrison (Anthony), Cormac Diamond (Tobias), entrambi giovani e perfettamente a loro agio si anella vocalità richiesta che nelle doti attoriali. Agli estremi della gamma le voci di Marie Oppert, fresca e lirica Johanna, e del profondo basso Zachary Altman, il turpe giudice Turpin. La mendicante e Pirelli sono i personaggi più sopra le righe, perfettamente inquadrati da Jasmine Roy e Paul Curievici. Il bravo coro del teatro, diretto da Hendrik Haas, con le sue individualità forma la folla brulicante della città. Alla testa dell’orchestra Philharmonique di Strasburgo Bassem Akiki esalta la qualità sinfonica di una partitura pregevole per scrittura, efficacia drammatica e, non ultima, orecchiabilità dei songs, tra cui il famoso “Not while I’m around” che quando è ripreso da Mrs. Lovett, dopo che l’ha cantata Tobias, assume un tono sinistro abilmente costruito dalle nuove armonie musicali.

Grande il successo e insistenti chiamate da parte del numeroso pubblico accorso alla prima. Ancora sei repliche qui a Strasburgo e altre due a Mulhouse. Oltre che con Berlino lo spettacolo è prodotto con l’opera di Helsinki.

(1) Antefatto. Un tempo Benjamin Barker era uno spensierato barbiere di Londra, sposato con la bella Lucy e padre orgoglioso della piccola Johanna. Ma anche il giudice Turpin aveva messo gli occhi su Lucy. Fece condannare ingiustamente Barker e lo fece esiliare. Durante l’esilio di Barker, Turpin violentò Lucy, che poi si avvelenò. Da quel momento Johanna cresce sotto il controllo di Turpin.
Atto I. Il giovane marinaio Anthony Hope e il misterioso Sweeney Todd, che Anthony ha da poco salvato in mare e con cui ha fatto amicizia, attraccano a Londra. Una mendicante li adesca sessualmente, sembrando riconoscere Todd per un momento, e Todd la caccia via. Todd racconta in modo obliquo ad Anthony alcuni aspetti del suo passato travagliato. Lasciato Anthony, Todd entra in un negozio di pasticci di carne in Fleet Street, dove la proprietaria, la vedova Mrs. Lovett, si lamenta della scarsità di carne e di clienti. Quando Todd chiede informazioni sull’appartamento vuoto al piano superiore, la signora rivela che il precedente inquilino, Benjamin Barker, è stato condannato all’ergastolo con false accuse dal giudice Turpin, il quale, insieme al suo servitore, Beadle Bamford, ha poi attirato la moglie di Barker, Lucy, a un ballo in maschera a casa del giudice e l’ha violentata. La reazione di Todd rivela che lui stesso è Benjamin Barker. Promettendo di mantenere il segreto, la signora Lovett spiega che Lucy si è avvelenata con l’arsenico e che la loro figlia neonata, Johanna, è diventata la pupilla del giudice. Todd giura vendetta al Giudice e al Maggiordomo, e la signora Lovett regala a Todd la sua vecchia collezione di rasoi d’argento, convincendo Todd a riprendere la sua vecchia professione. Altrove, Anthony spia una bella ragazza che canta alla sua finestra e la mendicante gli dice che il suo nome è Johanna. Ignorando che Johanna è la figlia del suo amico Todd, Anthony se ne invaghisce immediatamente e si impegna a tornare per lei, anche dopo che il giudice e il maggiordomo lo minacciano e lo scacciano. Nell’affollato mercato londinese, il barbiere italiano Adolfo Pirelli e il suo giovane assistente sempliciotto Tobias Ragg propongono una drammatica cura per la caduta dei capelli. Todd e Lovett arrivano presto; come parte del suo piano per stabilire la sua nuova identità, Todd smaschera l’elisir come una finzione, sfida Pirelli a una gara di rasatura e vince facilmente, invitando l’impressionato Beadle per una rasatura gratuita. Alcuni giorni dopo, il giudice Turpin si flagella in preda a un raptus di desiderio per Johanna, ma decide di sposarla lui stesso. Todd attende l’arrivo del maggiordomo con crescente impazienza, ma la signora Lovett cerca di calmarlo. Quando Anthony comunica a Todd il suo progetto di chiedere a Johanna di fuggire con lui, Todd, desideroso di ricongiungersi con la figlia, accetta di fargli usare la sua barberia come rifugio. Quando Anthony se ne va, entrano Pirelli e Tobias e la signora Lovett porta Tobias al piano di sotto a mangiare una torta. Da solo con Todd, Pirelli abbandona il suo accento italiano e rivela di essere in realtà l’ex assistente di Benjamin Barker. Conosce la vera identità di Todd (avendo riconosciuto gli illustri strumenti da barba di Barker durante la loro precedente competizione) e pretende metà del suo guadagno a vita. Todd uccide O’Higgins tagliandogli la gola e ne nasconde temporaneamente il corpo. Nel frattempo, Johanna e Anthony pianificano la loro fuga d’amore, mentre il Maggiordomo raccomanda al Giudice i servizi di toelettatura di Todd, affinché questi possa conquistare meglio l’affetto di Johanna. In preda al panico, dopo aver appreso dell’omicidio di Pirelli, la signora Lovett gli ruba il portamonete rimasto e chiede a Todd come intende disfarsi del corpo. All’improvviso, entra il giudice; Todd lo fa accomodare rapidamente e lo culla con una conversazione rilassante. Prima che Todd possa uccidere il giudice, però, Anthony rientra e spiattella il suo piano di fuga. Il giudice infuriato se ne va, giurando di non tornare mai più e di mandare via Johanna. Todd scaccia Anthony in preda alla furia e, ricordando il male che vede a Londra, decide di spopolare la città uccidendo i suoi futuri clienti, poiché tutte le persone meritano di morire: i malvagi per essere puniti per le loro azioni e gli “altri” per essere sollevati dalla loro miseria. Mentre si discute su come disfarsi del corpo di Pirelli, la signora Lovett viene colpita da un’idea improvvisa e suggerisce di usare i corpi delle vittime di Todd per i suoi pasticci di carne, e Todd accetta volentieri.
Atto II. Alcune settimane dopo, la pasticceria della signora Lovett è diventata un’attività di successo e Tobias vi lavora come cameriere. Le torte sono molto apprezzate. Todd ha acquistato una speciale sedia da barbiere meccanica che gli permette di uccidere i clienti e poi di inviare i loro corpi direttamente attraverso uno scivolo nel forno del seminterrato della pasticceria. Tagliando in modo seriale il collo dei suoi clienti, Todd dispera di poter vedere Johanna, mentre Anthony la cerca a Londra e la trova rinchiusa in un manicomio privato, ma sfugge per un pelo all’arresto da parte di Beadle. Dopo una giornata di duro lavoro, mentre Todd rimane fissato con la sua vendetta, Mrs. Lovett pensa di fuggire con Todd e di ritirarsi al mare. Anthony arriva a supplicare Todd di aiutarlo a liberare Johanna e Todd, rivitalizzato, incarica Anthony di salvarla fingendosi un parrucchiere intenzionato a comprare i capelli delle detenute. Tuttavia, una volta partito Anthony, Todd invia una lettera in cui informa il Giudice che Anthony porterà Johanna al suo negozio subito dopo il tramonto e che gliela consegnerà per attirarlo nuovamente al negozio. Nella pasticceria, Tobias racconta alla signora Lovett il suo scetticismo nei confronti di Todd e il suo desiderio di proteggerla. Quando riconosce il portamonete di Pirelli nelle mani della signora Lovett, quest’ultima lo distrae mostrandogli la pasticceria, istruendolo sul funzionamento del tritacarne e del forno prima di chiuderlo dentro. Al piano superiore, la signora Lovett incontra Beadle all’armonium; questi è stato incaricato dai vicini di Lovett di indagare sullo strano fumo e sulla puzza che provengono dal camino della pasticceria. La signora Lovett prende tempo con canzoni da salotto finché Todd non torna per offrirgli la promessa rasatura gratuita; la signora Lovett suona ad alta voce l’armonium per coprire le urla del maggiordomo mentre Todd lo elimina. Nel seminterrato, Tobias scopre capelli e unghie in una torta che stava mangiando, proprio mentre il cadavere fresco del Maggiordomo precipita dallo scivolo. Terrorizzato, fugge nelle fogne sotto il forno. La signora Lovett informa Todd che Tobias ha scoperto il loro segreto e complottano per ucciderlo. Anthony arriva al manicomio per salvare Johanna, ma viene smascherato quando Johanna lo riconosce. Anthony estrae una pistola datagli da Todd, ma non riesce a sparare al corrotto proprietario del manicomio; Johanna afferra la pistola e lo uccide. Mentre Anthony e Johanna fuggono, i detenuti liberati del manicomio profetizzano la fine del mondo, mentre Todd e la signora Lovett vanno a caccia di Tobias nelle fogne e la mendicante teme che fine abbia fatto Beadle. Una volta fatto sedere il Giudice, Todd lo tranquillizza con un’altra conversazione sulle donne, ma questa volta allude ai loro “gusti comuni, almeno in fatto di donne”. Il Giudice lo riconosce come Benjamin Barker poco prima che Todd gli tagli la gola e lo faccia precipitare nello scivolo. Ricordandosi di Tobias, Todd fa per andarsene ma, accortosi di aver lasciato il rasoio, torna indietro proprio quando Johanna, travestita, esce inorridita dal baule. Non riconoscendola, Todd tenta di ucciderla, proprio mentre la signora Lovett grida dal forno sottostante, fornendo un diversivo per la fuga di Johanna. Al piano di sotto, la signora Lovett sta lottando con il Giudice morente, che si aggrappa al suo vestito. Cerca quindi di trascinare il corpo della mendicante nel forno, ma Todd arriva e, attraverso un fascio di luce, vede per la prima volta chiaramente il volto senza vita: la mendicante era sua moglie Lucy. Inorridito, Todd accusa la signora Lovett di avergli mentito. La signora Lovett nega freneticamente, spiegando che Lucy si è effettivamente avvelenata, ma è sopravvissuta, anche se il tentativo l’ha resa folle. La signora Lovett dice poi a Todd che lo ama e che sarebbe stata una moglie migliore di quanto Lucy avrebbe mai potuto essere. Todd finge di perdonare e balla maniacalmente con Mrs. Lovett, finché non la getta nel forno, bruciandola viva. Pieno di disperazione e sotto shock, Todd abbraccia Lucy morta. Tobias, ormai pazzo e con i capelli diventati bianchi, striscia fuori dalle fogne balbettando filastrocche tra sé e sé. Raccoglie il rasoio di Todd caduto e gli taglia la gola. Mentre Todd cade morto e Tobias lascia cadere il rasoio, Anthony, Johanna e alcuni agenti irrompono nel forno. Tobias, incurante di loro, inizia a far girare il tritacarne, cantando le precedenti istruzioni della signora Lovett .

Siegfried

foto © Brescia Amisano

Richard Wagner, Siegfried

Milano, Teatro alla Scala, 16 giugno 2025

★★★

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Giugno, mese di Sigfrido?


Giugno consacra Siegfried: alla Scala Alexander Soddy dirige con chiarezza e tensione drammatica un Wagner luminoso, orchestrale, travolgente. Meno convincente la regia di David McVicar, illustrativa e priva di visione, tra realismo e fiaba. Cast solido con Volle e Ablinger-Sperrhacke sugli scudi, Vogt vocalmente saldo ma unidimensionale. Grande successo di pubblico.

Il 13 giugno a Bologna, all’Auditorium Manzoni, il Siegfried di Wagner è eseguito in forma di concerto sotto la direzione di Oksana Lyniv, direttore musicale del Teatro Comunale, ma una settimana prima a Milano erano iniziate le recite della seconda giornata del Ring del Teatro alla Scala. Se poi andiamo oltralpe questo mese c’è la scelta tra le produzioni del Theater Basel (direttore Nott e regista von Peter), della Wiener Staatsoper (Jordan/Bechtolf) e Dresda al Kulturpalast, (Nagano in forma concertistica). Sembra che giugno sia il mese di Sigfrido.

Le repliche milanesi sono affidate alla regia di sir David McVicar e alle bacchette di Simone Young (le prime tre) e Alexander Soddy (le ultime due). Questa del 16 giugno vede infatti sul podio l’ex assistente della Young che ormai si è costruito una brillante reputazione ed è accolto da calorosi applausi prima ancora che sia emessa una nota dall’orchestra. Diventeranno vere e proprie ovazioni al termine della recita da un pubblico rapito dalla sua bellissima direzione che esalta le meraviglie orchestrali di un’opera che, in barba alle teorie dell’opera d’arte totale, quasi quasi si preferirebbe apprezzare in forma di concerto: la musica di Wagner, soprattutto qui, dice tutto quello che c’è da dire. Le decine di motivi conduttori che abbiamo scoperto nelle prime due parti qui sono diventati ancora più numerosi e bene ha fatto Raffaele Mellace a indicarli sul libretto stampato sul programma di sala, come faceva Ricordi in quelli italiani di fine Ottocento. Qui sono un insieme di linee in diversi colori, legati alle diverse costellazioni di motivi (la natura, l’oro, i Nibelunghi, gli dèi, gli eroi, la passione, il potere) con cui è più agevole districarsi fra quei «vettori dei flussi di passione che percorrono l’articolatissima vicenda e dei caratteri che in essa si manifestano» (Richard Wagner). Ci pensa comunque Soddy a rendere chiaramente il dipanarsi dei temi e anche nei momenti del loro addensamento: nell’interludio al terzo atto, ad esempio, sono ben dodici i motivi conduttori appena accennati o maggiormente sviluppati dall’orchestra in non molte battute. La continuità narrativa è il maggior pregio della lettura di Soddy che, pur non mancando di sottolineare i momenti drammatici, punta alla trasparenza e alla chiarezza del fluire musicale che in Siegfried è particolarmente vario passando dalla frastornante scena della fusione della spada ai suoni cavernosi dell’incontro col drago ai toni amorosi dell’idillio tra i due giovani, uno che nell’amore conosce finalmente la paura, l’altra che si risveglia donna mortale e innamorata. Una piccola imperfezione non ha pregiudicato la bella performance del primo corno, vero protagonista strumentale della serata, mentre l’acustica del teatro ha esaltato i colori e la brillantezza dell’orchestra.

«Per risolvere i problemi posti da Wagner, un approccio letterale non è sicuramente la scelta migliore: se si rimane attaccati alle didascalie sceniche come sono scritte, va perduto il cuore simbolico di tutto ciò che accade». Leggendo queste frasi sul programma di sala si stenta a riconoscere in sir David McVicar il loro autore, in quanto il regista scozzese è esattamente questo che fa: una lettura letterale, didascalica e soprattutto rassicurante, che visivamente passa da toni realistici (atto primo), al fantasy (atto secondo) a un vago simbolismo (atto terzo). La sua è la scelta, legittimissima, di rinunciare a qualunque lettura ideologica e limitarsi agli elementi favolistici della vicenda – uccellini parlanti, draghi, bella addormentata risvegliata dal bacio del principe azzurro… – senza porsi problemi e soprattutto senza vergognarsi di rappresentarli per quello che sono. Ecco quindi il monolocale di Mime nella caverna dove cucina e fucina si affiancano così che mentre Sigfrido martella sull’incudine, con lo stesso ritmo il nano spinge con il mestolo la zuppa avvelenata in una borraccia dopo che il ragazzone gli ha portato in casa un enorme un orso mosso da due servi di scena. Ben otto invece saranno quelli per manovrare il drago Fafner, uno scheletro strisciante che nel momento della morte si ritrasforma nel gigante che avevamo visto nel Prologo, però senza trampoli, mentre anch’esso proveniente dalla prima giornata ritroveremo il cavallo di Brunilde che si risveglia assieme alla padrona e rappresentato qui da un giovanotto a torso nudo sulle protesi elastiche. Bella la soluzione dell’uccellino parlante ottenuta con quattro elementi: altro giovanotto a torso nudo con lunga pertica e uccellino svolazzante all’estremità, cantante con cresta punk che muove l’uccellino saltellante per terra. Un plauso al coraggio di McVicar nel non tirarsi indietro quando c’è da realizzare qualcosa con mezzi artigianali ma espressamente teatrali. La tecnologia è lasciata alle video proiezioni di Katy Tucker, semplici e funzionali per rappresentare cieli burrascosi, fiamme, pianeti in congiunzione, l’occhio infuocato del drago circondato da un anello proiettato sul sipario nero che cala fra un atto e l’altro. Le scenografie di Hannah Postlethwaite e dello stesso McVicar distinguono i diversi ambienti: quello eccessivamente realistico della grotta, ma funzionale alle gag dell’interprete di Mime; quello romantico-horror dell’ingresso alla caverna di Fafner con le tre figure umane scarnificate; il luogo selvaggio della prima parte del terzo atto, un vuoto con una sfera dietro cui dorme Erda svegliata da Wotan/Viandante; la roccia a profilo femminile (vista in Die Walküre) e la mano su cui riposa la dormiente Brunilde (da Das Rheingold invece) della lunga scena finale. Elaborati e giustamente evocativi i costumi di Emma Kingsbury, giocati su colori scuri e neutri ad eccezione degli abiti femminili di Mime (la pelliccia leopardata…) con cui si evidenzia l’ambiguità del personaggio; la divisa da circense in rosso e oro di Alberich, sovrano decaduto dalla corona di cartone; la tunica azzurra di Brunilde.

Come l’allestimento anche il cast vocale è rassicurante, non solo perché ritroviamo gli interpreti già ascoltati nel Prologo e nella Prima giornata – e qui si confermano le eccezionali qualità attoriali e vocali del Nano Mime, l’imponente Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, e del suo fratello Alberich, Ólafur Sigurdarson; lo scavo psicologico e il gioco sulla parola di Michael Volle, Viandante/Wotan; la rozzezza del Fafner di Ain Anger la cui voce è amplificata dal microfono quando non si vede in scena; la Brünnhilde di Camilla Nylund, anche questa volta un po’ in difficoltà all’inizio con acuti sforzati e troppo vibrato, meglio nel prosieguo ma qui ha meno di mezz’ora per carburare – ma perché per il personaggio del titolo si è optato per il sicuro, ma un po’ noioso, di Klaus Florian Vogt che ben lontano dal ruolo di Heldentenor esibisce la sua voce luminosa ma sottile, dal robusto registro acuto ma dal fraseggio non troppo vario. Riesce comunque ad arrivare indenne alla fine di una delle parti più massacranti del teatro in musica. Ma Vogt non ci ha detto nulla in più di quanto sapevamo di Siegfried, che rimane quel personaggio monodimensionale e antipatico che conoscevamo. Unica cantante di lingua italiana del cast è Francesca Aspromonte, agile voce dell’uccellino.

Grande successo di un pubblico che ha resistito stoicamente a tutte e cinque le ore di spettacolo. A febbraio con Götterdämmerung si concluderà la saga.

Dolce tormento

Dario Castello, Sonata Decima quinta à 4 per Stromenti d’arco,
da Sonate concertate in stil moderno, libro secondo

Claudio Monteverdi, “Ohimè ch’io cado, da Quarto scherzo delle ariose vaghezze

Giovanni Maria Trabaci, Gagliarda Prima a 4 detta il Galluccio; Gagliarda Terza a 4 detta la Talianella; Gagliarda Quarta a 4 detta la Morenigna
dal Secondo Libro de Ricercate, Canzone franzese, Capricci, Canti fermi, Gagliarde […]

Claudio Monteverdi, “Sì dolce è il tormentoda Quarto scherzo delle ariose vaghezze

Alessandro Scarlatti, Concerto grosso n. 5 in re minore dai Six Concertos in seven parts

Alessandro Scarlatti, “Caldo sangue”, aria dall’oratorio Il Sedecia, re di Gerusalemme

Antonio Vivaldi, Sinfonia in Sol maggiore detta Il Coro delle Muse RV 149

Antonio Vivaldi, “Gelosia, tu già rendi l’alma mia” dall’opera Ottone in villa RV 719

Geminiano Giacomelli, “Sposa, non mi conosci” dall’opera La Merope

Antonio Vivaldi, Concerto per violino in mi minore RV 273
Allegro non molto
Largo
Allegro

Georg Friedrich Händel, “Lascia ch’io pianga” dall’opera Rinaldo HWV 7, 

Georg Friedrich Händel, “Un pensiero nemico di pace” 
dall’oratorio Il trionfo del Tempo e del Disinganno HWV 46a

Maayan Licht controtenore, Ottavio Dantone direttore, Accademia Bizantina

Cremona, Auditorium G. Arvedi del Museo del violino, 16 giugno 2025

Il Barocco delle meraviglie

Se nel pomeriggio abbiamo ascoltato la voce femminile più grave, quella sontuosa del contralto Margherita Maria Sala, la sera, nel magico scrigno ligneo dell’auditorium del Museo del violino, il registro più acuto delle voci maschili è esemplificato da uno dei più grandi controtenori di oggi, Maayan Licht, accompagnato da uno dei migliori ensemble barocchi, l’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone. Un’accoppiata stupefacente di cui si deve dare il merito ad Andrea Cigni, sovrintendente e direttore artistico del Teatro Ponchielli di Cremona e geniale impaginatore del festival. Un programma ricco di ben dodici pezzi musicali – che diventeranno quindici con i fuori programma! – scelti tra i tesori più fulgidi del teatro musicale e strumentale di Seicento e Settecento.

Lo spirito guida del festival, Claudio Monteverdi, dà il titolo al concerto, quel “Sì dolce è il tormentoda Quarto scherzo delle ariose vaghezze (Venezia, 1624) che ascoltiamo cantato con palpitante espressività e soavi accenti dal venticinquenne israeliano che in pochissimo tempo è diventato l’idolo di chi ama il canto barocco più flamboyant. Un’altra pagina tratta dalla stessa raccolta è “Ohimè ch’io cado”, intonata da Licht letteralmente tra il pubblico che ha così partecipato ancora più da vicino alle emozioni suggerite del testo ricco di metafore barocche di Carlo Milanuzzi: «Occhi belli, ah se fu | Sempre bella virtù | Giusta pietate! | Deh voi non mi negate | Il guardo e ‘l riso | Che mi sa la prigion | Per sí bella cagion | Il Paradiso». Qui si è notata la perfetta dizione e la cura per la parola dell’interprete.

Prima Ottavio Dantone aveva eseguito in apertura di serata una pagina di Dario Castello, la Sonata Decima quinta à 4 per Stromenti d’arco, con cui la compagine ha mostrato fin da subito le sue qualità esecutive, fatte di precisione, bellezza di suono e perfetto equilibrio tra le parti. Caratteristica che si è riscontrata anche nelle tre Gagliarde di Giovanni Maria Trabaci, compositore lucano grosso modo coetaneo di Monteverdi. La finezza strumentale qui riscatta il tono di danza popolare dei tre pezzi che così assumono una veste di ricercata eleganza.

Di Alessandro Scarlatti si ascoltano di seguito il Concerto grosso n° 5 in re minore, pagina in cui si ammira l’articolata tessitura strumentale e l’aria “Caldo sangue” da Il Sedecia, re di Gerusalemme, dove le forti emozioni sono rese con il linguaggio tipico della teatralità barocca. Le difficoltà della pagina sono affrontate e risolte con naturalezza dal cantante che lascia per altri momenti le ornamentazioni, puntando qui all’intensità dell’espressione.

E poi si passa a Vivaldi ed è come se nell’Auditorium Arvedi si accendesse una nuova luce: il suono dell’Accademia Bizantina assume una patina ancora più preziosa, i timbri diventano più ricchi, i colori più brillanti nella Sinfonia Il coro delle Muse e nello stupendo Concerto in mi minore RV 273 dove le arcate del Konzertmeister Alessandro Tampieri si distendono con straordinaria maestria musicale nei tre movimenti classici Allegro-Largo-Allegro. La pagina vocale che segue è quella di “Gelosia, tu già rendi l’alma mia”, l’aria di Caio Silio con cui termina il primo atto dell’Ottone in villa, la prima opera di Vivaldi. È un pezzo di brillante virtuosismo con cui Maayan Licht mette in evidenza la sua straordinaria tecnica e altrettanto stupefacente facilità a realizzare le impervie agilità richieste.

Non è di Vivaldi, bensì di Geminiano Giacomelli la successiva pagina vocale “Sposa, non mi conosci” dall’opera La Merope, ma l’aria è più conosciuta nella versione del Prete Rosso “Sposa, son disprezzata” utilizzata nel suo Bajazet, un caso di “imprestito” fra colleghi molto comune all’epoca. La tensione drammatica e le lunghe frasi in un solo fiato sono risolte con abilità e grande musicalità dal controtenore il quale termina il programma con due pagine händeliane fra le più popolari: “Lascia ch’io pianga” dall’opera Rinaldo e “Un pensiero nemico di pace” dall’oratorio Il trionfo del Tempo e del Disinganno. Due pagine diversissime che rendono conto dell’immenso senso teatrale del Sassone e hanno permesso al cantate di ostentare la sua straordinaria tecnica e sensibilità. Doti che hanno spinto il pubblico a chiedere dei fuori programmi generosamente concessi dagli interpreti: ecco allora la gioiosissima “Rejoice” dal Messiah di Händel e un altro Vivaldi, l’intenso “Vedrò con mio diletto” dal Giustino. 

Ma il pubblico non vuole andare via e gli applausi fanno ritornare in scena tutti i musicisti, che erano già usciti, per il bis di “Sì dolce è il tormento” ma questa volta con nuove piccole variazioni! Soltanto dopo l’ennesima standing ovation gli spettatori si decidono a uscire nella calda notte in cui è immersa la bassa padana.

Regine di cuori

Benedetto Marcello, Sinfonia dall’opera Arianna Abbandonata 

Claudio Monteverdi, Lamento d’Arianna

Henry Purcell, Sinfonia dall’opera Dido and Aeneas

Giovanni Battista Martini, Dido Infelice, Cantata per solo Alto con violini, 

Nicola Porpora, Sinfonia dall’opera Agrippina

Antonio Caldara, Medea in Corinto, Cantata per Alto, due violini e continuo

Margherita Maria Sala contralto, Thomas Chigioni direttore, Ensemble Locatelli

Cremona, Cortile di Palazzo Fodri, 16 giugno 2025

Regine di cuori

Il Monteverdi Festival di quest’anno si intitola Heroes, ma c’è anche una eroina: la Penelope de Il ritorno d’Ulisse in patria, il contralto Margherita Maria Sala, durante la prova generale si è infortunata a un un braccio ma ha continuato la prova imperterrita e non solo si è presentata come se nulla fosse alla prima e alla successiva recita, ma non ha neppure disertato il previsto concerto pomeridiano a Palazzo Fodri dove, incurante del  caldo, dei lontani rombi di tuono, delle porte che sbattevano per il vento, delle campane e del garrire delle rondini, ha intonato con voce sontuosa – e sempre con il braccio al collo – i lamenti di tre donne abbandonate: Arianna, Didone, Medea.

Messe duramente alla prova dall’umidità del pomeriggio estivo nella splendida corte, le corde in budello dei violini di Jérémie Chigioni e Ulrike Slowik, la viola di Nicola Sangaletti, il violoncello di Thomas Chigioni e la tiorba di Francesco Olivero dell’Ensemble Locatelli, hanno comunque retto nel compito di intonare le meravigliose note di lavori del Seicento e Settecento: tre sinfonie strumentali alternate ad altrettanti numeri vocali, tutti incentrati su donne dell’antichità classica e dall’infelice destino.

Inizia il concerto la sinfonia de l’Arianna abbandonata di Benedetto Marcello che nel 1727, sette anni dopo la pubblicazione del suo corrosivo pamphlet Il teatro alla moda, dedicava alla figura della sventurata donna abbandonata da Teseo questo “intreccio scenico musicale” intriso di un turgido linguaggio tardo barocco che contrasta fortemente con l’Arianna di un secolo prima, quella dell’opera perduta di Monteverdi, di cui la Sala canta con solenne compostezza l’unico reperto rimastoci, quel Lamento che oggi ascoltiamo per intero e non nella versione in salsa Liberty di Parisotti, tanto amata dal Vate da venire inserita nel suo romanzo Il fuoco. Qui non c’è bisogno del testo scritto perché le parole sono scandite con chiarezza e con sottili sfumature espressive dalla cantante vincitrice del Cesti 2020.

Unico compositore non italiano presente nell’impaginato del concerto è Henry Purcell, di cui non poteva mancare un’altra abbandonata, Didone. La versione per archi della sinfonia da Dido and Æneas che ci viene fornita dall’Ensemble Locatelli è essenziale ed elegantemente minimalista pur foriera della tragedia incombente. E ancora la regina di Cartagine è protagonista del brano vocale che segue, Dido infelice, cantata di Giovanni Battisti Martini, ritrovata nella Biblioteca di Bologna, qui in prima esecuzione mondiale. Strutturata in una lunga introduzione strumentale, recitativo, aria con da capo, aria con ricche fioriture rese con proprietà senza particolare sfoggio virtuosistico dal contralto.

In un solo tempo e dal ritmo particolarmente vivace è la Sinfonia dall’Agrippina di Nicola Porpora. Non abbandonata ma dal destino piuttosto tormentato è la madre di Nerone, protagonista della prima opera del maestro del Farinelli, del Porporino e dei maggiori castrati cantori dell’epoca. Pur con pochi mezzi mezzi la ricchezza tematica e timbrica del pezzo è efficacemente messa in risalto dai cinque virtuosi.

Conclude il concerto la figura di Medea con la cantata di Antonio Caldara anch’essa strutturata in introduzione e tre arie che esemplificano il sistema di “affetti” dell’opera barocca: essendo la prima una dolente aria di abbandono, la seconda un’aria di furore e la terza una ancora più agitata aria di vendetta con “vediamo” trasformare sotto i nostri occhi una triste amante in furia e poi in temibile maga. Con una mimica facciale molto contenuta, tutto è lasciato all’espressione della voce della cantante che mostra le sue qualità vocali in questa straordinaria sequenza.

Ma Margherita Maria Sala ci riserva ancora una sorpresa: agli insistenti applausi del pubblico regala un fuori programma che da solo valeva il concerto. Infatti dopo le minacce terrificanti della maga abbiamo la tenera ninna-nanna «Dormi, o fulmine di guerra” dall’Oratorio Giuditta di Alessandro Scarlatti, con cui si invita al sonno Oloferne. Qui tutto è sospeso: è il tempo dell’attesa dell’innamorato che verrà ingannato, ma anche il cullante regredire verso il ventre materno, il tempo di sospensione dalla violenza del mondo. Mai come in questa pagina è resa evidente la nozione del canto come seduzione. Le lunghissime arcate delle note tenute in fiati interminabili e i semplici ma allo stesso tempo raffinati passaggi armonici sono resi con olimpica maestà dalla calda voce del giovane contralto. Il pubblico alla fine, quasi in trance, non si decide ad andarsene.

Ariadne’s Echo

Claudio Monteverdi, “Lasciatemi morire” dal Lamento d’Arianna

Anonimo, “Mezza tra viva e morta” (Lamento d’Olimpia), cantata per soprano e basso continuo

Girolamo Frescobaldi, Tocata per la levatione

Luigi Rossi, “Potesti i lini sciogliere”, cantata da camera per soprano e basso continuo

Domenico Mazzocchi, “S’io mi parto o mio bel sole”, ciaccona, per flauto e basso continuo

Marco Marazzoli, “Abbattuto dal duolo”, cantata per soprano e basso continuo

Gaspar Sanz, “Marizápalos”, da Cifras sobre la guitarra Española, libro II

Anonimo, “O me infelice” (Falsirena disperata)

Roberta Mameli soprano, Andrés Locatelli direttore, Theatro dei cervelli

Cremona, Aula Magna dell’Università del Sacro Cuore, 14 giugno 2025

Lamenti barocchi

Con il titolo, chissà perché in inglese, di “Ariadne’s Echo”, il Festival Monteverdi utilizza per la prima volta l’aula magna della splendida Università Cattolica. In programma una sequenza di cantate inedite di area romana di metà Seicento in cui il lamento di una donna è il tema principale.

L’inizio è con le prime frasi del Lamento di Arianna, tratto dall’opera di Monteverdi andata perduta, cantate però nell’arrangiamento di Alessandro Parisotti che nel 1890 pubblicava Arie antiche, una raccolta di arie barocche armonizzate secondo il gusto del tempo o composte ex-novo in un esplicito caso di falsificazione musicale. Sulla base strumentale dell’ensemble Theatro dei Cervelli – formato dal direttore e flautista Andrés Locatelli, il cembalo di Guillaume Haldenwang, Leon Jänicke tiorba e chitarra, Ludovico Minasi violoncello, Flora Papadopoulos arpa – svetta la voce di Roberta Mameli, grande proiezione e temperamento ma strana dizione dove «Lasciatemi morire» diventa quasi «Losciotimi murire», il che, assieme all’infelice acustica della ex-chiesa e alla mancanza del testo scritto, rende problematica la comprensione delle parole dei successivi pezzi, al più sconosciuti.

A seguire, si ascolta infatti “Mezza tra viva e morta” (Lamento di Olimpia) di anonimo, dove la voce dialoga emotivamente con gli strumenti del basso continuo. Le continue variazioni di accento trovano grande realizzazione nella voce della cantante specializzata nel repertorio settecentesco. Di Luigi Rossi è invece “Potessi i lini sciogliere”, cantata da camera ancora più articolata dove si ammira il temperamento e l’espressiva recitazione dell’interprete di Poppea, Belinda o Didone. Sempre più drammatica la pagina di Marco Marazzoli “Abbattuto dal duolo”, cantata del compositore bergamasco autore di una decina d’opere rappresentate per la maggior parte a Palazzo Barberini nei decenni 1640-1660. Qui l’aspetto teatrale è messo in evidenza dalla grande presenza vocale del soprano romano che chiude la serata con un’altra pagina anonima “O me infelice” (Falsirena disperata) con cui si tocca l’estremo più teatrale del concerto.

Alternati alle composizioni vocali, lo smilzo ensemble mette in campo pezzi strumentali che evidenziano le qualità solistiche dei musicisti. È il caso della “Toccata per la levatione” di Girolamo Frescobaldi dalla “Messa della Madonna” dei Fiori musicali, in cui si fa fatica a scorgere l’aspetto liturgico in una musica fiorita di danze che Flora Papadopulous dipana con tecnica e sensibilità all’arpa barocca. Nonostante il titolo “S’io mi parto o mio bel sole” è una ciaccona per flauto e basso continuo di Domenico Mazzocchi eseguita con perfetto stile e celato virtuosismo da Andrés Locatelli. Un pezzo che con l’ostinato ritorno del tema della ciaccona risponde strumentalmente al lamento vocale degli altri in programma. Atmosfera iberica per la chitarra di Leon Jänicke nelle “Marizápalos” da Cifras sobre la guitarra española di Gaspar Sanz del 1675 dove non sono gli elementi folcloristici a dominare, ma la misura di una musica che anche nelle forme della danza mantiene un’elegante compostezza. Coinvolto, il pubblico ha risposto con generosi applausi.