Mese: dicembre 2025

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

128 pagine, numero otto, novembre 2025

Lohengrin, l’invenzione del Medioevo

La persistente fascinazione esercitata dal Medioevo sull’immaginario contemporaneo appare difficilmente contestabile: un universo simbolico compatto, immediatamente riconoscibile, dotato di una forza evocativa che continua a nutrire letteratura, arti visive e musica. E tuttavia, l’immagine che ne conserviamo è in larga misura il prodotto di uno specchio deformante: la rilettura ottocentesca di quell’“età di mezzo” che il Romanticismo assunse a luogo privilegiato di proiezione ideologica ed estetica. L’Ottocento vi scorse non soltanto un repertorio formale – il gotico come stile architettonico e come categoria dello spirito – ma anche la nostalgia per una supposta unità europea perduta, capace di sedurre pensatori e poeti, primo fra tutti Novalis.

La riscoperta medievale aveva preso avvio in Inghilterra già negli anni Sessanta del Settecento, per poi consolidarsi in Germania attraverso romanzi storici e figure leggendarie che avrebbero profondamente influenzato l’immaginario musicale, ispirando Richard Wagner e non solo lui. È dunque di un Medioevo “inventato”, ricostruito e rifratto attraverso sensibilità moderne, che occorre parlare, più che di una sua restituzione storicamente neutra.

A questo tema è dedicato l’articolo di Elisabetta Fava che apre il nuovo numero di Calibano, uscito in concomitanza con Lohengrin, titolo inaugurale della stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma. “L’invenzione del Medioevo” costituisce il filo conduttore dei contributi di Giuliano Milani, Vanessa Roghi, Eloisa Morra, Francesca Scotti, Federico Canaccini, Sergio Pace, Valentina Pigmei e Renato Bordone, cui si affiancano due racconti di Carola Susan e Tommaso Pincio.

Di particolare rilievo la testimonianza di Francesco Filidei, compositore non solo de Il nome della rosa presentato al Teatro alla Scala, ma anche di lavori ispirati a un Medioevo immaginario come l’oratorio The Red Death e il Cantico delle creature per soprano e orchestra. Nel suo intervento Filidei affronta una questione eminentemente teorica e poetica: perché si canta nell’opera lirica.

Partenope

foto © Salvatore Laporta

Ennio Morricone, Partenope

Napoli, Teatro di San Carlo, 12 dicembre 2025

Cristina Voena è stata alla Partenope di Napoli. Ecco il suo resoconto.

Morricone lontano dal cinema: Partenope tra attese tradite e teatro immobile

Presentata come evento simbolo di Napoli Millenaria, l’unica opera di Ennio Morricone delude le attese. La scrittura d’avanguardia e la forma oratoriale spiazzano il pubblico, mentre la regia statica di Vanessa Beecroft riduce il mito di Partenope a un tableau immobile. Ne risulta uno spettacolo freddo, accolto con applausi di cortesia.

Doveva essere una grande occasione, una di quelle destinate a entrare nella memoria culturale di una città. Nell’ambito di Napoli Millenaria, il vasto contenitore di eventi pensato per celebrare i 2500 anni dalla fondazione di Neapolis, il cartellone del Teatro annunciava infatti un titolo dal forte valore simbolico: Partenope, l’unica opera lirica composta da Ennio Morricone. Un evento presentato come storico, impreziosito da un libretto firmato da due figure molto amate dal pubblico della musica colta, Sandro Cappelletto e Guido Barbieri, e caricato di un’aura quasi leggendaria dal fatto che lo spettacolo, nato nel 2008 per il Piccolo Festival di Positano e rappresentato allora in forma di concerto, non fosse mai stato realmente messo in scena. A suggellare l’operazione, una regia affidata a una personalità di grande notorietà come Vanessa Beecroft, artista che ha costruito la propria fama internazionale nel campo della performing art.

Anche sul piano degli interpreti, le premesse sembravano promettere un esito di alto profilo. La protagonista è affidata a una voce sdoppiata, incarnata da due autentiche “sirene” del canto contemporaneo: Maria Agresta, salernitana doc, e Jessica Pratt, australiana di nascita ma napoletana per scelta di vita e sensibilità artistica. A dare corpo e parola al mito in vernacolo è Mimmo Borrelli, attore, regista e drammaturgo profondamente radicato nella tradizione teatrale partenopea, mentre il tenore Francesco Demuro, il mezzosoprano Désirée Giove e il direttore Riccardo Frizza provengono dalla Medea di Cherubini allestita in contemporanea sullo stesso palcoscenico, creando un curioso cortocircuito produttivo e simbolico tra due mondi musicali diversi.

Dopo il saluto del sovrintendente e dei due librettisti, tuttavia, già alle prime battute musicali iniziano a manifestarsi le incertezze di una parte consistente del pubblico. Chi si aspettava il Morricone delle celebri colonne sonore cinematografiche, quello delle melodie immediatamente riconoscibili e della forza evocativa diretta, si trova di fronte tutt’altro compositore: l’autore d’avanguardia, l’allievo geniale di Goffredo Petrassi, il membro storico dell’ensemble Nuova Consonanza. È lo stesso Morricone a chiarire l’impianto della partitura: «Considerato l’argomento, Napoli e la mitologia classica, la partitura è organizzata tutta su due tetracordi discendenti e sei suoni. La modalità è la libertà assoluta». Una dichiarazione che rivendica con orgoglio la radicalità della scrittura, ma che contribuisce anche ad alimentare un senso di spaesamento tra gli spettatori meno preparati a questo versante della sua produzione. In sala, quasi impercettibile ma reale, inizia a serpeggiare una forma di panico.

Neppure l’impianto scenico viene incontro alle attese. Lo spettacolo assume infatti la forma di un oratorio: i cantanti restano perlopiù immobili a leggii disposti ai lati del palcoscenico; solo il narratore, e in un’unica occasione il tenore, si spostano verso il centro della scena per rivolgersi direttamente al pubblico. Il ruolo di Partenope è affidato simultaneamente ai due soprani, che recitano e cantano in contemporanea, come se il personaggio fosse costantemente scisso tra due nature, mentre Persefone è evocata esclusivamente attraverso la voce registrata del mezzosoprano, presenza lontana, sottratta allo sguardo, coerente con la sua condizione di prigionia negli Inferi.

La trama rielabora liberamente il mito del ratto di Persefone da parte di Ade, che la rinchiude nel regno dei morti. La sorella Partenope, animata da un amore assoluto, chiede agli dèi delle ali per andare alla sua ricerca e si trasforma in sirena. Nonostante il voto di castità, Dioniso le consente la discesa agli inferi solo attraverso il tramite del vino e della carne, elementi dionisiaci per eccellenza. La sirena sposa Melanio, che la vince nel canto, ma lo sposo viene ucciso dai pastori traci in preda all’ubriachezza. Disperata, Partenope decide di togliersi la vita; Dioniso interviene e la colloca in cielo, nella costellazione della Vergine. Ma il mito non si chiude qui: la fanciulla si getta in mare per continuare la ricerca di Persefone, e il suo corpo senza vita approda sulle coste della Campania, dove diventa la dea protettrice della città nuova, Neapolis.

Il testo poetico procede per allusioni, simboli e immagini liriche. Da un lato Partenope si trasfigura in una figura quasi mariana, vergine e madre insieme; dall’altro il narratore riporta il mito a una dimensione popolare, quotidiana, terragna. Il coro, composto esclusivamente da voci femminili, ha il compito di narrare e commentare la vicenda, ma la rarefazione del linguaggio e la densità simbolica rendono spesso difficile seguire con chiarezza il filo del racconto.

Il problema principale della serata, oltre al fraintendimento sul carattere della musica, si rivela però la sostanziale staticità della messa in scena di Vanessa Beecroft. Celeberrima per i suoi tableaux vivants basati sui corpi femminili, l’artista trasporta in palcoscenico uno dei suoi dispositivi più riconoscibili, “poltrona fantasma” inclusa. L’apertura del sipario è indubbiamente suggestiva: la graduale apparizione del coro e delle performer, mentre una nebbia luminosa si dirada, crea un’immagine di forte impatto visivo. Ma, di fatto, l’azione sembra esaurirsi lì.

Luci fisse, cantanti immobili, movimenti del coro ridotti al minimo; una ballerina che accenna pochi gesti coreografici, un paio di ali divise tra due figuranti come unico elemento scenico realmente leggibile. Il teatro, però, è altra cosa rispetto alla performing art e richiede almeno un minimo di sviluppo drammatico. Così i 55 minuti complessivi di durata finiscono per apparire molto più lunghi. Allestito in un piccolo festival, come previsto in origine, o inserito in una stagione concertistica, lo spettacolo avrebbe probabilmente incontrato il suo pubblico naturale. In questo contesto, invece, l’esito è stato un’accoglienza fredda, stemperata solo da qualche applauso di cortesia in un teatro strapieno.

Stagione Sinfonica RAI

Bernard Herrmann, Vertigo. Suite
Prelude – The Nightmare – Scène d’amour

Igor Stravinskij, Le baiser de la fée. Divertimento. Suite sinfonica dal balletto

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Sinfonia n. 6 in si minore, op. 74, “Patetica”
Adagio – Allegro non troppo…
Allegro con grazia – Con dolcezza flebile
Allegro molto vivace
Finale. Adagio lamentoso – Andante

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Juraj Valčuha direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 dicembre 2025

Dal thriller alla fiaba, fino alla tragedia: la geometria emotiva di una serata con Juraj Valčuha e l’OSN RAI

La Stagione dei Concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI prosegue le esplorazioni nel repertorio cinematografico. Dopo l’originale trittico inaugurale dedicato al cinema muto, il settimo appuntamento si apre con una delle partiture più paradigmatiche del rapporto fra immagine e suono nella storia del cinema: le musiche composte da Bernard Herrmann per Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock. Chiamarla “colonna sonora” risulta qui quasi riduttivo: è difficile immaginare l’impianto drammaturgico del film senza la sua componente musicale, che ne costituisce non un semplice commento, ma una indispensabile matrice psicologica.

Formatosi come direttore d’orchestra, Bernard Herrmann (1911–1975) muove i primi passi nella radio accanto a Orson Welles e approda al cinema con Citizen Kane. Nella collaborazione con Hitchcock trova il proprio terreno elettivo, imponendosi come uno dei più radicali innovatori del linguaggio musicale per il cinema: la sua scrittura non illustra l’azione, bensì la scava, la anticipa, la disarticola. Le sue partiture, caratterizzate da ossessioni cicliche e soluzioni timbriche ardite, disegnano stati mentali più che situazioni visive; non stupisce che la sua ultima fatica, completata poco prima della morte, sia la partitura di Taxi Driver, anch’essa costruita come un ritratto sonoro della psicologia del protagonista.

Tra le creazioni più alte di Herrmann, Vertigo si configura come una vera e propria spirale musicale: l’immagine ricorrente di questo motivo geometrico, già dominante nei titoli di testa, trova un esatto corrispettivo nelle volute orchestrali, negli impasti cromatici, nelle oscillazioni armoniche che proiettano lo spettatore in una dimensione di desiderio inappagato e di ossessione crescente. L’orchestra non accompagna l’immagine: la interiorizza e la riemette trasfigurata. Nella Suite, i nuclei emotivi della partitura vengono ricomposti in un arco sinfonico compatto. Il Prelude, celebre e vorticoso, oppone la liquidità dell’arpa ai clangori degli ottoni, prima che gli archi impongano la loro cifra spiraliforme, immediata epifania dell’ossessione che pervade il film. Seguono i temi lirici di Madeleine, la misteriosa protagonista, figure melodiche sospese, modellate su progressioni armoniche fluttuanti. Scène d’Amour amplia il registro espressivo fino a un culmine estatico, quasi wagneriano, in cui desiderio e illusione confluiscono in un unico slancio emotivo. Le sezioni conclusive recuperano i motivi dell’inseguimento e della vertigine, alternando trasparenze diafane e blocchi sonori minacciosi. Nel suo insieme, la Suite funziona come un poema sinfonico dell’ossessione: un percorso circolare in cui ogni ritorno tematico non è che un avvitamento ulteriore nel labirinto emotivo del film.

A dirigere questa pagina, tanto celebre quanto coinvolgente, è Juraj Valčuha, Direttore Principale dell’OSN dal 2009 al 2016. Ogni suo ritorno sul podio torinese è salutato da un affetto non sopito, e anche in questa occasione il gesto combinato di rigore tecnico, sensibilità timbrica e comunicazione limpida permette al direttore – oggi alla guida della Houston Symphony – di mettere in luce la sorprendente autonomia sinfonica della musica herrmanniana, nata per il cinema ma pienamente autosufficiente nella sala da concerto.

Analoga attenzione alla microstruttura del suono caratterizza anche la pagina successiva, dedicata questa volta al balletto: Le baiser de la fée, composto da Igor Stravinskij nel 1928 per i Ballets Russes e rielaborato in forma di suite nel 1934, quindi nuovamente rivisto nel 1949. L’idea, annota l’autore, affonda le radici nel 1895, durante il suo primo soggiorno svizzero: un arco temporale quindi insolitamente esteso, che fa di Le baiser de la fée una delle sue opere di più lunga incubazione.

La trama della fiaba di Hans Christian Andersen è ridotta all’essenziale: una fata, bianca e glaciale, marca con un bacio un bambino destinato, ormai adulto, a essere sottratto al mondo umano. Stravinskij trasforma questo nucleo narrativo in un omaggio a Čajkovskij e al balletto tardo-romantico, inscrivendo la vicenda nel più ampio archetipo – riconoscibile da Les Sylphides a Giselle – dell’artista diviso tra realtà e trascendenza, tra ordine domestico e impulso alla fuga. La “bellezza che uccide”, incarnata dalle creature eteree del repertorio romantico, ritorna qui come figura ambigua e irresistibile, analoga alle Willi, o alla Regina della Montagna di rame del Fiore di pietra di Lavrovskij su musica di Prokof’ev.

Non stupisce che, a distanza di diciassette anni, qualche residuo dell’irriverenza di Petruška sembri affiorare qua e là nella nuova partitura, pur in forma addolcita, mentre l’orchestrazione mantiene la sua consueta brillantezza. Valčuha ne mette in risalto la complessità grazie all’impegno partecipe dei professori d’orchestra.

Dopo l’intervallo, il programma propone la Sesta Sinfonia di Pëtr Il’ič Čajkovskij, evocato poco prima da Stravinskij: la Patetica, pagina di enorme popolarità ma mai esaurita nella sua enigmatica profondità. L’impatto visivo dell’orchestra, ora drasticamente ridotta rispetto alla prima parte del concerto – legni dimezzati, percussioni limitate, assenza di tastiere – segnala immediatamente il ritorno a un organico romantico, misurato ma intenso. La lettura di Valčuha sembra voler sottrarre piuttosto che aggiungere: mai l’attacco del primo movimento è apparso così desolato, con l’Adagio introduttivo immerso in una sonorità scurissima, tenuemente oscillante tra pianissimo e piano. L’Allegro non troppo che segue introduce una sequenza di cambi di tempo – Adagio, Andante, Moderato mosso, Andante, Moderato assai, Allegro vivo, Andante come prima, Andante mosso – che assume quasi il carattere di una fluttuazione patologica.

Sebbene il secondo e il terzo movimento sembrino, in apparenza, offrirsi come spazi di sollievo, un’inquietudine sotterranea incrina i motivi di valzer dell’Allegro con grazia e il moto perpetuo del rondò-sonata dell’Allegro molto vivace, il cui tema di marcia – ancora una volta – provoca applausi intempestivi. A sovvertire ogni aspettativa è poi il quarto movimento, l’Adagio lamentoso, con cui il compositore sembra accomiatarsi dal mondo appena nove giorni prima della morte.

Citazioni tratte dalla liturgia funebre ortodossa ricorrono sia nel primo che nell’ultimo tempo di una sinfonia sorprendente per la struttura – il movimento lento, comunemente al secondo posto, qui è il tempo finale – e l’agogica, con dinamiche che vanno dal pianissimo (pppppp) al fortissimo (ffff). Elementi che dovettero lasciare sgomenti gli ascoltatori presenti alla prima pietroburghese del 16 ottobre 1893.

Sebbene molti direttori accentuino fino all’esasperazione il carattere cupamente disperato del finale, Valčuha opta per un approccio più misurato, esaltando la trasparenza della scrittura, le dinamiche controllate, i colori pastello, le ansanti pulsazioni ritmiche – eccellente, in particolare, la prova del timpanista Biagio Zoli. Ne scaturisce un Čajkovskij sorprendentemente poco romantico e più prossimo a una sensibilità mahleriana, quasi proto-novecentesca: un Čajkovskij, in definitiva, più moderno.

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Lady Macbeth del distretto di Mcensk

foto © Brescia e Amisano

Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Šostakovič e il coraggio di un’apertura fuori dal coro

Lady Macbeth del distretto di Mcensk inaugura la Scala con un trionfo: Chailly dirige con lucidità e passione la partitura scandalosa di Šostakovič, sostenuto da una Jakubiak intensa e drammatica. La regia di Barkhatov, ambientata in un ristorante staliniano anni ’50, evita lo scandalo ma non la forza tragica. Un’apertura coraggiosa e simbolica, tra arte e provocazione.

Era una prima attesa con un misto di curiosità e apprensione, quella della Scala: niente Verdi, niente Puccini — ma un russo. E che russo! Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, il genio ribelle del Novecento, torna al Piermarini con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, la stessa che nel 1934 infiammò pubblico e critica quale espressione di una rivolta antiborghese: una donna agiata prende coscien­za della società zarista e con un servo uccide i suoi padroni.

Ma alla ripresa due anni dopo aveva suscitato l’ira di Stalin che abbandonò la sala durante una sua rappresentazione e in seguito proibì l’opera in quanto «inadatta al popolo sovietico […] caotica, apolitica […] atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La scabrosità del soggetto turbava i principi su cui si fondava la società sovietica ipotizzata dal suo dittatore e da allora iniziò l’ostracismo della musica del compositore. Solo nel 1962 Šostakovič ne presentò un’edizione revisionata col titolo Katerina Izmailova – un titolo più indicato poiché la protagonista non ha l’iniziativa criminale del personaggio di Shakespeare – ma dopo la sua morte la versione più eseguita è quella originale. Cosa che avviene anche per l’apertura della stagione del tempio milanese della lirica.

E scandalosa, ancora oggi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk lo è. Una donna di provincia, Ekaterina, soffocata dall’ozio e dalla noia, scopre nella passione l’unica via di fuga: ama, uccide, si ribella a una società patriarcale e bigotta. Šostakovič la dipinge con furia e compassione, trasformando il delitto in un urlo d’amore disperato. E pensare che Šostakovič aveva attenuato la brutalità della novella di Nikolaj Leskov, scritta nel 1865, che denunciava l’arretratezza e la barbarie di una Russia arcaica e contadina impregnata di religiosità superstiziosa. In musica la vicenda diventa invece un atto di rivolta individuale. Ekaterina è una protofemminista che paga con la rovina la propria libertà: il suo “peccato” è amare troppo.

Ma se la vicenda scandalizza, la musica non è da meno. I tromboni, con spudorata evidenza, sottolineano gli amplessi dei due amanti; valzerini deformati accompagnano momenti di sarcasmo crudele; colpi rabbiosi marcano le frustate inflitte all’amante. L’ironia è feroce, la sensualità mai compiacente. È un linguaggio orchestrale che aggredisce, disturba, ma anche commuove per la sua sincerità tragica.

E se non bastasse l’audacia della partitura, anche la regia prometteva scintille. A firmarla è un altro russo, Vasilij Barkhatov, già noto a Napoli per una Turandot turbolenta. Eppure lo scandalo non è arrivato: la serata si è conclusa tra ovazioni fragorose, trionfali per musica e regia.

Alla sua tredicesima inaugurazione di Sant’Ambrogio, Riccardo Chailly, direttore musicale dal 2015, aggiunge un altro tassello alla sua galleria di inaugurazioni — sette Verdi, tre Puccini, un Giordano e due russi, dopo il Boris Godunov di Musorgskij. Con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Chailly compie una scelta di coraggio e di coerenza: dirige un’opera provocatoria ma piena di dolente umanità, la sua bacchetta lima le asperità senza smussarne la potenza. Gli interludi orchestrali diventano momenti di puro lirismo, con archi luminosi che spalancano abissi di doloroso fatalismo. L’orchestra della Scala risponde con una lucidità tagliente: gli ottoni travolgono, le percussioni esplodono, gli archi gridano, ma nei rari momenti di quiete il suono si fa trasparente, sospeso, come se la violenza stessa generasse la nostalgia di un’altra vita.

C’è anche un gusto di humour nero, à la Šostakovič, che Chailly esalta con eleganza perfida: quando la bara di Boris viene salutata, i fiati — disposti sul mezzanino del ristorante — sembrano formare una banda dell’Esercito della Salvezza che invece di inni religiosi scatenano una furia sonora quasi blasfema. È un crescendo di disperazione che non concede tregua: la musica diventa ossessione, l’angoscia si fa claustrofobica, fino al finale glaciale, quando il coro intona il lamento dei deportati sulle cupe note degli archi gravi: «Eh, voi, steppe sconfinate… giorni e notti senza fine… i nostri pensieri sono tristi e i gendarmi senza cuore!».

Sul palcoscenico, Ekaterina trova in Sara Jakubiak una protagonista memorabile. Il soprano americano di origini polacche domina una parte vocalmente improba — salti d’ottava, puntature al si bemolle, presenza scenica ininterrotta — e disegna un personaggio lacerato tra desiderio e colpa, forza e fragilità. La sua Ekaterina non è una vittima né un mostro, ma una donna che arde d’amore e si consuma nella ricerca di libertà, consapevole che la sua emancipazione non può che finire in distruzione. Il pubblico la premia con applausi convinti, conquistato da un carisma che unisce sensualità e tragedia.

Accanto a lei, Alexander Roslavets dà a Boris Izmajlov — il suocero bigotto e lussurioso — un misto di brutalità e rotondità vocale; Najmiddin Maylyanov (Sergej) convince meno per proiezione, ma compensa con presenza fisica; Evgenij Akimov è l’inetto marito Zinovij, mentre Ekaterina Sannikova è una dolente Aksin’ja, vittima della violenza maschile. Elena Maximova (Sonetka) brilla per sensualità velenosa, e Oleg Budaratskij delinea un capo della polizia annoiato e grottesco. Spiccano le figure di contorno: Valerij Gilmanov, pope caricaturale e alcolico, che benedice il cadavere di Boris con un sermone da cabaret grottesco; Alexander Kravets, contadino ubriaco che canta all’ebrezza della vodka; e Goderedzi Janelidze, il vecchio forzato dell’ultimo atto, che intona con tono dolente la condizione senza scampo dei deportati. Eccellente come sempre il Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, capace di precisione, forza e intensità teatrale e a suo agio nella lingua russa.

La regia di Vasilij Barkhatov sposta l’azione dal villaggio ottocentesco di Mcensk (a circa 280 chilometri a sud-ovest di Mosca) a un ristorante negli anni ’50 della capitale, nell’ultima fase dello stalinismo. Il suo dispositivo scenico — firmato da Zinovij Margolin — alterna la grande sala da pranzo a un retro di cucina al piano superiore e una cantina in basso. L’azione si svolge come un film noir: i protagonisti, interrogati dalla polizia, rivivono in playback i propri crimini. Un espediente cinematografico che smorza la carnalità della celebre scena d’amore: Katerina e Sergei, completamente vestiti, ricostruiscono la scena mimando i movimenti mentre gli agenti scattano foto. Lo scoglio del pornografico e del voyerismo è evitato rendendo la scena ancora più inquietante, quasi clinica.

Barkhatov dosa abilità tecnica e senso dello spettacolo. L’irruzione di un camion che sfonda la vetrata del ristorante segna il passaggio all’ultimo atto: la deportazione in Siberia. E qui il regista si prende una libertà rispetto al libretto: invece di annegare, le due donne si trasformano in torce umane perché Ekaterina appicca il fuoco a sé stessa e alla rivale. Una soluzione d’effetto, accolta con entusiasmo dal pubblico.

Dopo le provocazioni napoletane, il regista russo al suo debutto alla Scala sembra abbia scelto una via più misurata che non ha turbato neppure il loggione – vabbè, non era Verdi… Niente scandalo gratuito, ma un sottile discorso sul protofemminismo di Katerina, letta come vittima di un mondo chiuso e corrotto. Tuttavia, la regia non è priva di difetti: troppi personaggi in scena, troppe controscene che intasano lo spazio e attenuano il senso di isolamento e noia esistenziale della protagonista. Il ristorante déco, elegante e affollato, riduce l’asfissia che dovrebbe dominare la storia. È una regia intelligente, astuta, visivamente accattivante, ma più “furba” che rivelatrice: non aggiunge molto alla nostra comprensione di Šostakovič, ma accompagna con mestiere l’evento mondano per eccellenza.

Ma la scelta di Lady Macbeth del distretto di Mcensk come titolo d’apertura ha un valore che va oltre la cronaca. In un momento in cui l’opera tende a rassicurare più che a provocare, la Scala rivendica con forza il proprio ruolo di teatro d’arte e di pensiero. Portare in scena Šostakovič significa sfidare le convenzioni, ricordare che l’opera non nasce per decorare, ma per turbare, per scuotere la coscienza, per porre domande scomode. È un atto politico e culturale, un gesto di libertà. E in tempi in cui si parla — con toni inquietanti — di un possibile “codice degli spettacoli” con cui si vorrebbe limitare la rappresentazione di opere straniere, la serata assume un valore simbolico: se mai quella norma dovesse vedere la luce, questa Lady Macbeth potrebbe essere l’ultima inaugurazione scaligera affidata a un autore russo. Chissà che cosa avrebbe da dire a questo proposito l’attuale ministro della cultura presente nel palco reale.

I Puritani

Vincenzo Bellini, I Puritani

Cremona, Teatro Ponchielli, 6 dicembre 2025

★★★★☆

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Puritani senza paura: giovani all’assalto

La produzione de I Puritani di OperaLombardia affronta con giovani interpreti un titolo arduo per vocalità e logica teatrale. Brillano la direzione di Sieva Borzak e la convincente Elvira di Maria Luisa Iacobellis; coraggioso l’Arturo di Valerio Borgioni. La regia di Daniele Menghini aggiorna la vicenda al fanatismo religioso americano, con esiti audaci e qualche sorpresa che scuote il pubblico.

Che I Puritani mancasse dalla Scala da cinquantacinque anni non è solo un dato statistico: è un avvertimento, un cartello lampeggiante sulla difficoltà di allestire un titolo che può mietere vittime illustri tra i cantanti, specie sotto le raffiche impietose del loggione. Eppure, mentre a Milano l’opera di Bellini restava a marcire negli archivi, nel resto del mondo non si contavano le produzioni di valore. E solo quest’anno il cigno catanese vola da New York a Budapest, da Londra a Torino e Catania.

Sfidando senza tremare un compito che mette in agitazione teatri ben più blasonati, il circuito di OperaLombardia — Como, Pavia, Cremona — decide ora di affrontare l’impresa con una squadra di giovani: cantanti, direttore, regista. In buca, davanti all’Orchestra I Pomeriggi Musicali, un ventottenne italo-russo con la bacchetta già sicura: Sieva Borzak. La sua lettura della partitura è appassionata e attentamente calibrata: il lirismo e le sospensioni belcantistiche convivono, senza sbalzi, con le tensioni romantiche più fosche e ne derivano colori ben cesellati, chiaroscuri vivi, dinamiche forti e qualche momento di brillante vitalità. I tempi, sempre ben congegnati, non mettono mai in difficoltà i cantanti, cosa non scontata per un maestro concertatore così giovane. Per venire incontro ai giovani interpreti, Borzak introduce alcuni tagli e qualche abbassamento di tonalità. Misure di buon senso, e non arbitrarie. Non sarà la versione critica, ma l’ultimo canto del cigno belliniano risulta comunque restituito con soddisfazione.

Gli interpreti di Elvira e Arturo, vertici della scrittura più pura del belcanto belliniano, escono entrambi indenni dalla prova, con una menzione speciale per Maria Luisa Iacobellis, cantante che  sfoggia una bella voce, tecnica solida e agilità sicure. Gli acuti, pur un filo fissi, sono luminosi; il fraseggio è netto, scolpito, e la dizione chiarissima. È così che costruisce una Elvira intensa, drammatica senza manierismi, soprattutto nel territorio scivoloso delle scene di follia. La sua recitazione riesce a restituire con naturalezza tutte le oscillazioni emotive del personaggio.

Valerio Borgioni — il Nemorino torinese della scorsa stagione nel secondo cast — porta in dote un coraggio quasi temerario nell’affrontare Arturo, un ruolo che fa tremare anche tenori navigati. Certo, qualche adattamento è stato necessario, soprattutto in prossimità del famigerato fa sopracuto: ma chi, con l’attuale diapason che rende la tessitura ancora più impervia, potrebbe fare miracoli? Tra qualche mese, a Torino, toccherà a John Osborn: si vedrà. Intanto Borgioni mostra buona  tecnica, ottima dizione, presenza scenica generosa e arriva agli acuti, seppur con una certa apprensione, ma con determinazione encomiabile.

Molto bene Roberto Lorenzi, un Giorgio dalla vocalità vellutata, di grande proiezione e legato impeccabile. Nobilita il personaggio, riscattandone l’intransigenza con un canto pieno e una presenza scenica autorevole. Sunu Sun è un Riccardo ben condotto e sfumato, anche se non sempre incisivo nell’espressività. Brevi ma intensi gli interventi di Benedetta Mazzetto come Enrichetta di Francia. Il Coro OperaLombardia, guidato da Massimo Fiocchi Malaspina, si distingue per compattezza e precisione.

Che I Puritani sia un’opera difficile non lo decretano soltanto gli acuti assassini e le agilità pirotecniche, ma pure la trama, che procede per salti logici, contraddizioni, approssimazioni narrative. Il libretto di Carlo Pepoli pare più un collage di episodi che un’azione drammaturgicamente coerente; i personaggi, spesso ridotti a funzioni vocali, sembrano strumenti destinati a esaltare la dimensione astratta del canto più che la costruzione teatrale. Una sfida notevole per qualsiasi regista. Daniele Menghini decide di affrontarla con una soluzione radicale: un doppio piano temporale che trasporta la vicenda ai giorni nostri, trapiantando il fanatismo puritano in quello della destra religiosa americana contemporanea. Il risultato? Giacche e cravatte, Bibbia alla mano, un arsenale di armi da far invidia a un action movie, e una comunità chiusa, identitaria, che punisce con violenza chi devia dai dettami del dogma.

In questo ambiente soffocante, la follia di Elvira assume il valore di una liberazione. Anche la scena — ideata da Davide Signorini, con i costumi di Nika Campisi e le luci di Gianni Bertoli — si alleggerisce progressivamente fino al gazebo-torta nuziale, simbolo insieme ironico e onirico. Arturo, per sigillare il ricongiungimento, le porge un tenerissimo orsacchiotto di peluche, gesto che ha scatenato qualche risatina nel pubblico pomeridiano, dalla media anagrafica piuttosto elevata.

Ben diverso l’effetto suscitato dal finale dell’atto secondo: il roboante «Suoni la tromba intrepido», anziché celebrare l’eroismo patriottico, accompagna il brutale pestaggio di un dissidente, poi giustiziato con un colpo di pistola dal “buon” Giorgio. Una scelta scenica che ha lasciato più di uno spettatore shoccato.

Qualche simbolismo azzardato e qualche ingenuità possono affiorare, ma la regia di Menghini rivela indubbie qualità: la direzione dei movimenti corali, sempre precisa e sicura; la ricchezza delle idee con cui chiarisce, spesso con efficacia sorprendente, gli snodi della vicenda; la cura dedicata alla recitazione. Tutto concorre a confermarlo come una delle voci più interessanti della nuova generazione di registi italiani.

Lohengrin

foto © Paolo Vanoni

Richard Wagner, Lohengrin

Roma, Teatro dell’Opera, 5 dicembre 2025

★★★★★

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Lohengrin, l’uovo e l’argento: l’incanto secondo Michieletto

La nuova produzione romana di Lohengrin, diretta da Mariotti e messa in scena da Michieletto, contrappone la luminosità del protagonista alle ombre di Ortrud, con una lettura musicale trasparente e un forte simbolismo scenico basato sull’argento e sull’uovo-dubbio. Cast diseguale, ma coro eccellente. Uno spettacolo visivamente e teatralmente potente, destinato a restare memorabile.

Opera fiabesca dal finale tragico adorna nelle forme di un dramma storico: così Carl Dahlhaus definisce il Lohengrin. Opera romantica, per l’autore, che affonda le radici nella leggenda del cavaliere del cigno Loherangrin abbozzata da Wolfram von Eschenbach nel suo poema Parzival e che Wagner riplasma con un’aura di meraviglia, contrapponendo alla magia bianca del protagonista quella nera di Ortrud. Ma c’è di più: Wagner conclude quel processo di “storicizzazione” che la leggenda aveva subito tra Medioevo e Rinascimento, collocando l’azione nel X secolo, all’epoca di Enrico l’Uccellatore e delle Guerre d’Ungheria.

È poi al fiuto teatrale del compositore che si deve la creazione di Ortrud, personaggio inesistente nelle fonti medievali eppure imprescindibile sulla scena. È lei l’artefice della trasformazione di Gottfried in cigno; lei a instigare Telramund nell’accusa contro Elsa; lei, infine, a inoculare il veleno del dubbio nella sposa dopo il matrimonio. Con Ortrud si cristallizza anche l’asse tematico tra paganesimo e cristianesimo, in perfetta sintonia con il carattere da grand-opéra – perché in parte questo Lohengrin lo è davvero.

Roma non è certo città wagneriana, se sono stati necessari cinquant’anni per riportare il titolo nel cartellone, e addirittura per la prima volta nella versione originale tedesca. Ma ora l’opera inaugura la stagione con un doppio debutto wagneriano: quello del direttore musicale Michele Mariotti sul podio e quello di Damiano Michieletto alla regia.

Fin dalle prime note del Preludio, Mariotti ci immerge con grande sensibilità nella dimensione trascendente e metafisica del mondo di Lohengrin grazie a un tocco leggero e trasparente, nonostante qualche piccola esitazione iniziale degli archi. La sua lettura disegna con poetica intensità questo universo sospeso, luminoso, liquido, che si contrappone ai timbri cupi e dissonanti di Ortrud e Telramund e alla pompa militaresca delle fanfare.

Lohengrin è opera di cerniera: ancora legata ai primi lavori di Wagner (Rienzi, Holländer, Tannhäuser), ma già protesa verso la rivoluzione drammaturgica di Tristan, Meistersinger, Ring e Parsifal. Mariotti esalta questo equilibrio, valorizzando i grandi monologhi e la ricchezza melodica, mantenendo un fine dialogo tra archi e legni e guidando con vigore gli ottoni nelle loro gloriose affermazioni. Non è un caso che il direttore abbia scelto cantanti di vocalità non wagneriana, quasi belcantistica, italiani nel gusto. Emblematico il caso di Dmitrij Korčak, anche lui debuttante wagneriano e tenore di elezione rossiniana, belliniana, donizettiana. Il bellissimo timbro e il fraseggio elegante si inseriscono perfettamente nella tradizione dei Lohengrin lirici e misurati – i Kaufmann, i Cutler, persino il timbro diafano di Vogt – lontani ormai dall’eroismo dell’Heldentenor. Korčak si colloca così in piena sintonia con la linea interpretativa più moderna e con il carattere “italiano” dell’opera. Non irrilevante il suo legame con Michieletto: Korčak fu protagonista di uno dei primi successi del regista, Il dissoluto punito al Festival Mozart di La Coruña nel 2006 – nell’opera di Ramón Carnicer i Batlle, Don Giovanni Tenorio ha voce tenorile.

Il resto del cast appare più disomogeneo: l’Elsa di Jennifer Holloway è psicologicamente ben scolpita, ma vocalmente di timbro tutt’altro che seducente; molto meglio la Ortrud di Ekaterina Gubanova, voce scura e autorevole che definisce il personaggio con dominio assoluto. Quasi insopportabile, invece, la rozzezza del Telramund di Tómas Tómasson – già così alla Scala dodici anni fa e invariato da allora. Non convincono nemmeno i deboli mezzi vocali dello Heinrich di Clive Bayley. Ottimo, invece, Andrei Bondarenko come Araldo, e splendido il coro istruito da Ciro Visco, tra i migliori in Italia.

Ma torniamo al Preludio per raccontare la visione scenica di Michieletto. All’apertura del sipario appare una donna davanti allo stagno in cui è affogato il fratellino – stagno che qui è una vasca da bagno. La donna estrae dall’acqua una maglietta blu e calzoncini rossi, che stende poi su una sedia. E quel bambino, creduto morto, ricomparirà alla fine proprio con quei vestiti.

La scena è dominata da un alto muro curvo di legno, spazio umano ma anche aula di tribunale nel primo atto. Ed è ingegnosa la trovata che risolve lo scontro tra Lohengrin e Telramund: dall’alto discende un monolito d’argento da cui gocciola il metallo fuso. Telramund ne è orribilmente ustionato, mentre Lohengrin ne esce rivestito come da un’armatura lucente: una differenza essenziale tra i due personaggi resa con mezzi di una genialmente raffinata.

Il centro simbolico dell’allestimento di Michieletto è l’uovo: emblema alchemico, metafora del dubbio, inizialmente chiuso, come una verità impenetrabile. Nel secondo atto Telramund ricopre di una sostanza nera un grande uovo argenteo custodito in una teca. Quando l’uovo si apre, quella stessa pece contaminerà Elsa fino a farle perdere la vista, come accade al popolo di Brabante, già assediato da una “selva” di uova calate dall’alto come proiezione materiale del dubbio collettivo.

Una danza di anelli luminosi accompagna la notte di nozze, che culmina nella domanda fatale. Alla parola «Montsalvat», le pareti lignee si ricoprono di un tessuto argenteo – ancora l’argento! – che prepara il finale: la bara col cigno e il ritorno del giovane Gottfried, finalmente incoronato.

Con le installazioni artistiche di Paolo Fantin (definirle “scenografie” è veramente riduttivo), il geniale gioco di luci di Alessandro Carletti e i costumi anni Quaranta di Carla Teti – magnifica la sua Ortrud in tailleur e veletta neri! – il Lohengrin di Michieletto diventa uno spettacolo da non perdere. E chi non potrà vederlo dal vivo potrà recuperarlo su RaiPlay.

Nel 2026 cadranno cinquant’anni dalla storica produzione del Ring di Chéreau a Bayreuth. A suo modo, anche questa incursione wagneriana di Michieletto appare come un evento epocale, destinato a rimanere imprescindibile.

Matthäus-Passion

Johann Sebastian Bach, Matthäus-Passion

Amburgo, Deichtorhalle, 23 aprile 2016

(video streaming)

La Passione secondo Castellucci

Nel vasto corpus sacro bachiano, la tradizione della Passione secondo i quattro evangelisti occupa un luogo eminente, ma anche problematico, poiché di questo monumentale progetto teologico-musicale solo due testimonianze sono sopravvissute integralmente: la Matthäus-Passion BWV 244, presentata per la prima volta nel 1727, e la Johannes-Passion BWV 245, eseguita nel 1724. Della Markus-Passion BWV 247, apparsa nel 1731, resta oggi il solo libretto, mentre la musica – con ogni probabilità un complesso intreccio di parodie e nuove composizioni – è andata perduta. Quanto alla Lukas-Passion BWV 246, già all’epoca di Mendelssohn l’attribuzione a Bach appariva fragile: il musicista che aveva riportato alla luce la Matthäus-Passion nel 1829, restituendola al canone della modernità musicale, giudicava infatti l’opera estranea al linguaggio bachiano, e gli studi successivi ne hanno suggerito la paternità a Johann Melchior Molter.

La polarità fra il rigore liturgico e la tensione drammatica è da sempre oggetto di riflessione nell’interpretazione delle Passioni bachiane. Se gli oratori händeliani sembrano naturalmente proiettati verso la teatralità, la “irrappresentabilità” scenica dei lavori di Bach costituisce quasi un punto di principio: la Passione non è teatro, bensì meditazione rituale, lettura sacra accompagnata da un complesso commento musicale. Ciononostante, non pochi registi contemporanei si sono misurati con l’enigma drammaturgico di queste opere, talvolta riuscendo a dischiuderne potenzialità insospettate. Calixto Bieito, nel 2018, e Peter Sellars, l’anno successivo, hanno offerto riletture visive della Johannes-Passion. Ma è stato Romeo Castellucci, già nel 2016, a firmare una delle operazioni più radicali e concettualmente rigorose, allestendo la Matthäus-Passion nella navata a dimensioni industriali della Deichtorhalle di Amburgo, centro nevralgico per l’arte contemporanea e la fotografia.

Castellucci immerge l’intera azione in un bianco totale, abbacinante, che cattura l’occhio e insieme lo disorienta: il pavimento, i tendaggi, la tribuna del coro, le sedie, gli abiti concorrono a creare una luminosità quasi clinica, da spazio archetipico prima che scenico. In questo candore assoluto spicca un unico dettaglio cromatico: una sciarpa azzurra, affidata all’Evangelista, segno minimo ma eloquente di una differenza narrativa. Anche i tecnici che introducono in scena gli oggetti previsti nella partitura visiva sono vestiti di bianco, rendendosi parte di un dispositivo rituale piuttosto che teatrale. A ciascuno dei 18 quadri allegorici (1) corrisponde un oggetto, minuziosamente descritto nel libretto consegnato agli spettatori: un vero e proprio catalogo museale, con indicazioni d’origine e motivazioni della presenza, come se la scena fosse un percorso espositivo più che un palcoscenico.

Castellucci seleziona questi oggetti seguendo una logica di necessità simbolica: essi non illustrano, non commentano, ma agiscono come detonatori di associazioni, frammenti di una chimica dell’esistenza che si intreccia al tessuto musicale bachiano. La dimensione chimica è peraltro esplicitamente tematizzata: il ferro estratto dal sangue per forgiare i chiodi della croce; il filo spinato che, grazie a un processo di elettrolisi, si trasforma in una corona di spine dorata; le reazioni cromatiche della fenolftaleina, che mutano a seconda del pH, evocando le infinite sfumature del “colore del sangue”. Siamo dinanzi a un teatro della materia, in cui gli elementi diventano soglie cognitive e percettive.

Il regista rifiuta qualsiasi tentazione figurativa o illustrativa: nessun tableau della Passione, nessun naturalismo, nessuna concessione all’immaginario iconografico cristiano più consolidato. Lo spettatore è privato dell’appiglio narrativo, costretto a confrontarsi con una sorta di purezza percettiva: gli oggetti diventano “pietre d’inciampo”, skándala in senso profondamente greco, ostacoli che deviano il cammino, aperture verso stanze ulteriori della coscienza. Il dialogo tra queste immagini-concetto e la densità teologica della composizione bachiana non produce un significato univoco, ma un campo di forze in cui ciascun ascoltatore può scegliere se abbandonarsi, distogliere lo sguardo, oppure affrontare l’enigma della sofferenza umana che la musica evoca con tale intensità.

Ed è proprio la sofferenza, nella sua nuda verità, che occupa il centro dei quadri più sconvolgenti. Nel momento simbolico della crocifissione, comparse di età, genere e corporatura diverse si appendono a una barra sollevata, rimanendo sospese in una prova fisica estrema, quasi a fare del proprio corpo una testimonianza vivente del dolore. Nel penultimo quadro, la presenza di un uomo cui sono state amputate entrambe le gambe in seguito a un incidente nel porto di Amburgo introduce una realtà brutale, una ferita del mondo, che si incunea nel rito artistico con una potenza quasi insostenibile.

Molti oggetti provengono esplicitamente dal territorio in cui la rappresentazione ha luogo, connettono la Passione al mondo contemporaneo, radicandola nella realtà fisica e morale della città ospitante. Ecco allora il teschio autentico di un assassino suicida ritrovato in una foresta nei pressi della città anseatica, l’autobus rovesciato appartenente alla rete locale di trasporto. Con regolarità rituale entrano da destra ed escono a sinistra due atleti della lotta greco-romana, una testa marmorea di Giulio Cesare, una tanica di ammoniaca, un albero privato dei rami, una lavatrice, un sarcofago…

La cura assoluta di Castellucci investe ogni aspetto: scena, costumi, luci, e persino la presenza del direttore Kent Nagano, che apre la sua direzione con un gesto liturgico – o giudiziario – lavandosi le mani davanti a due uomini che gli porgono una ciotola, una caraffa e un asciugamano, richiamo evidente al gesto di Pilato. La lettura di Nagano, pur nobile e attentamente modellata, rimane ancorata a una tradizione interpretativa ormai in parte superata: il suono corposo della Philharmonisches Staatsorchester Hamburg, più adatto al repertorio romantico, e il ricorso solo puntuale a prassi storicamente informate (la viola da gamba di Simone Eckert, il liuto di Joachim Held) producono un risultato di grande intensità ma talora eccessivamente robusto, verosimilmente per adattarsi all’acustica dell’inedito spazio.

Di grande efficacia la prova dell’Audi Jugendchorakademie, il cui canto restituisce con disciplina e partecipazione la complessità polifonica di certe pagine o la limpida vocalità dei corali (2). Tra i solisti si distinguono le voci di Hayoung Lee e Christina Gansch, il contralto espressivo di Dorottya Láng, il tenore Bernard Richter e, soprattutto, il basso Philippe Sly, bel timbro ed espressivo nei ruoli di Gesù, Giuda e Pilato. Ian Bostridge, con il suo timbro inconfondibile e la consueta sottigliezza interpretativa, conferisce all’Evangelista una tensione narrativa quasi ascetica, collocandosi nel cuore stesso dell’esperienza proposta da Castellucci: un incontro radicale tra musica, pensiero e visione.

La recensione si riferisce alla registrazione dello spettacolo fatta da ArteTv e disponibile qui.

(1) I Imperio, II Ammoniaca, III Giuda, IV Cena, V Chiesa, VI Pasqua, VII Solitudine, VIII Monte degli olivi, IX Bacio, X Tempio, XI Prezzo del sangue, XII Corona, XIII Chiodi, XIV Crocifissione, XV Salmo 23°, XVI Sepolcro, XVII Apostolo, XVIII Testamento.

(2) Struttura musicale:
Prima parte
1. Kommt, ihr Töchter, helft mir klagen, Coro in mi per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
2. Da Jesus diese Rede vollendet hatte, Recitativo in Sol/si per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
3. Herzliebster Jesu, was hast du verbrochen, Corale in si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
4. a. Da versammelten sich die Hohenpriester, Recitativo in Re/Do per tenore e continuo
b. Ja nicht auf das Fest, auf dass nicht ein Aufruhr, Coro in Do per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Da nun Jesus war zu Bethanien, Recitativo in Do/Mi per tenore e continuo
d. Wozu dienet dieser Unrat?, Coro in la/re per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
e. Da das Jesus merkete, sprach er zu ihnen, Recitativo in Fa/mi per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
5. Du lieber Heiland du, Recitativo in si/fa diesis, per contralto, 2 flauti traversi, organo e continuo
6. Buss’ und Reu’ knirscht das Sünderherz entzwei, Aria in fa diesis per contralto, 2 flauti traversi, organo e continuo
7. Da ging hin der Zwölfen einer, mit Namen Judas Ischarioth, Recitativo in Mi/Re per tenore, basso e continuo
8. Blute nur, du liebes Herz!, Aria in si per soprano, 2 flauti traversi, 2 violini, viola, organo e continuo
9. a. Aber am ersten Tage der süssen Brot’, Recitativo in Sol per tenore e continuo
b. Wo willst du, dass wir dir bereiten, Coro in Sol per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Er sprach: Gehet hin in die Stadt zu Einem, Recitativo in Sol/mi per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
d. Und sie wurden sehr betrübt, Recitativo in fa per tenore e continuo
e. Herr, bin ich’s, Coro in Fa/Do per coro, 2 violini, viola, organo e continuo
10. Ich bin’s ich sollte büssen, Corale in La bemolle per coro, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
11. Er antwortete und sprach, Recitativo in Do/Sol per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
12. Wiewohl mein Herz in Tränen schwimmt, Recitativo in mi/Do per soprano, 2 oboi d’amore, organo e continuo
13. Ich will dir mein Herze schenken, Aria in Sol per soprano, 2 oboi d’amore, organo e continuo
14. Und da sie den Lobgesang gesprochen hatten, Recitativo in si/Mi per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
15. Erkenne mich, mein Hüter, Corale in Mi per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
16. Petrus aber antwortete und sprach zu ihn, Recitativo in La/sol per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
17. Ich will hier bei dir stehen, Corale in Mi bemolle per coro, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
18. Da kam Jesus mit ihnen zu einem Hofe, Recitativo in Si bemolle/La bemolle per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
19. O Schmerz! hier zittert das gequälte Herz!, Recitativo e coro in fa/Sol per tenore, coro, 2 flauti traversi, 2 oboi da caccia, 2 violini, viola, organo e continuo
20. Ich will bei meinem Jesu wachen, Aria con coro in do per tenore, coro, oboe, 2 flauti traversi, 2 violini, viola, organo e continuo
21. Und ging hin ein wenig, fiel nieder auf sein Angesicht, Recitativo in Si bemolle/sol per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
22. Der Heiland fällt vor seinem Vater nieder, Recitativo in re/Si bemolle per basso, 2 violini, viola, organo e continuo
23. Gerne will ich mich bequemen, Aria in sol per basso, 2 violini, organo e continuo
24. Und er kam zu seinen Jüngern und fand sie Schlafend, Recitativo in Fa/si per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
25. Was mein Gott will, das g’scheh’ allzeit, Corale in si/Si per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
26. Und er kam und fand sie aber schlafend, Recitativo in Re/Sol per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
27 a. So ist mein Jesus nun gefangen, Duetto in mi per soprano, contralto, 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
b. Lasst ihn, haltet, bindet nicht / Sind Blitze, sind Donner in Wolken verschwunden, Coro in si/Mi per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
28. Und siehe, einer aus denen, die mit Jesu waren, Recitativo in fa diesis/do diesis per tenore, basso, 2 violini, viola e continuo
29. O Mensch, bewein’ dein’ Sünde gross, Corale in Mi per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi d’amore, 2 violini, viola, organo e continuo
Seconda parte
30. Ach, nun ist mein Jesus hin!, Aria con coro in si/fa diesis per contralto, coro, flauto traverso, oboe d’amore, 2 violini, viola, organo e continuo
31. Die aber Jesum gegriffen hatten, Recitativo in Si/Re per tenore e continuo
32. Mir hat die Welt trüglich gericht’t, Corale in Si bemolle per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
33. a. Und wiewohl viel falsche Zeugen herzutraten, Recitativo in sol per tenore, basso e continuo
b. Er hat gesagt: Ich kann den Tempel Gottes abbrechen, Recitativo in sol per contralto, tenore e continuo
34. Mein Jesus schweigt zu falschen Lügen, Recitativo in la per tenore, 2 oboi, organo e continuo
35. Geduld, wenn mich falsche Zungen stecheb, Aria in la per tenore, violoncello e organo
36. a. Und der Hohepriester antwortete und sprach, Recitativo in mi/Sol per tenore, basso e continuo
b. Er ist des Todes schuldig, Coro in Sol per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Da speieten sie aus in sein Angesicht, Recitativo in Do/Fa per tenore e continuo
d. Weissage uns, Coro in Do per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
37. Wer hat dich so geschlagen, Corale in Fa per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
38. a. Petrus aber sass draussen im Palast, Recitativo in re/Re per 2 soprani, tenore, basso e continuo
b. Wahrlich, du bist auch einer von denen, Coro in Re per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi d’amore, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Da hub er an, sich zu verfluchen und zu schwören sich verpflicht’, Recitativo in fa diesis per tenore, basso e continuo
39. Erbarme dich, meine Gott, Aria in si per contralto, violino solo, 2 violini, viola, organo e continuo
40. Bin ich gleich von dir geniche, Corale in La per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
41. a. Des Morgens aber hielten alle Hohenpriester Rat, Recitativo in fa diesis/Si per tenore, basso e continuo
b. Was gehet uns das an?, Coro in Si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Und er warf die Silberlinge in den Tempel, Recitativo in mi/Si per tenore, 2 bassi, organo e continuo
42. Gebt mir meinen Jesum wieder!, Aria in Sol per basso, violino solo, 2 violini, viola, organo e continuo
43. Sie hielten aber einen Rat, Recitativo in Sol/Re per tenore, 2 bassi, 2 violini, viola e continuo
44. Befiehl du deine Wege, Corale in Re per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
45. a. Auf das Fest aber hatte der Landpfleger, Recitativo in La/Si per soprano, tenore, basso e continuo
b. Lass ihn kreuzigen / Sie sprachen: Barrabam!, Coro in la/Si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
46. Wie wunderbarlich ist doch diese Strafe!, Coro in Si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
47. Der Landpfleger sagte: Was hat er denn Übels getan?, Recitativo in Si per tenore, basso e continuo
48. Er hat uns Allen wohlgetan, Recitativo in mi/Do per soprano, 2 oboi da caccia, organo e continuo
49. Aus Liebe will mein Heiland sterben, Aria in la per soprano, flauto traverso e 2 oboi da caccia
50. a. Sie schrieen aber noch mehr und sprachen, Recitativo in mi per tenore, basso e continuo
b. Lass ihn kreuzigen, Coro in si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Da aber Pilatus sahe, dass er nichts schaffete, Recitativo in fa per tenore, basso e continuo
d. Sein Blut komme über uns, Coro in si per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
e. Da gab er ihnen Barrabbam los, Recitativo in si/Mi per tenore e continuo
51. Erbarm’ es Gott! Hier steht der Heiland angebunden, Recitativo in Fa/sol per contralto, 2 violini, viola, organo e continuo, 
52. Können Tränen meiner Wangen nichts erlangen, Aria in sol per contralto, 2 violini, organo e continuo
53. a. Da nahmen die Kriegsknechte des Landpflegers Jesum zu sich, Recitativo in Si bemolle per tenore e continuo
b. Gegrüsset seist du, Judenkönig, Coro in re per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Und speieten hin an, Recitativo in re per tenore e continuo
54. Haupt voll Blut und Wunden, Corale in Fa per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
55. Und da sie ihn verspottet hatten, Recitativo in la per tenore e continuo
56. Ja! freilich will in uns das Fleisch und Blut, Recitativo in Fa/re per basso, 2 flauti traversi, viola da gamba, organo e continuo
57. Komm, süsses Kreuz, Aria in re per basso, viola da gamba, organo e continuo
58. a. Und da sie an die Stätte kamen, mit Namen Golgatha, Recitativo in Do/Fa diesis per tenore e continuo
b. Der du den Tempel Gottes zerbrichst, Coro in Fa diesis per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Desgleichen auch die Hohenpriester spotteten sein, Recitativo in Fa diesis/mi per tenore e continuo
d. Andern hat er geholfen, Coro in mi per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
e. Desgleichen schmäheten ihn auch die Mörder, Recitativo in Sol/do per tenore, organo e continuo
59. Ach, Golgatha, unsel’ges Golgatha, Recitativo in Sol bemolle per contralto, 2 oboi da caccia, violoncello, organo e continuo
60. Sehet, Jesus hat die Hand uns zu fassen ausgespannt, Aria con coro in Mi bemolle per contralto, 2 cori, 2 oboi da caccia, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
61. a. Und von der sechsten Stunde an ward eine Finsternis, Recitativo in Mi bemolle/Si bemolle per tenore, basso e continuo
b. Der rufet den Elias, Coro in do/Fa per coro, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Und bald lief einer unter ihnen, Recitativo in Fa/sol per tenore e continuo
d. Halt, lass sehen, ob Elias kommt, Coro in sol/re per coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
e. Aber Jesus schriee abermal laut, Recitativo in re/la per tenore e continuo
62. Wenn ich einmal soll scheiden, Corale in la/Mi per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
63. a. Und siehe da, der Vorhang im Tempel zerriss, Recitativo in Do/sol/do per tenore e continuo
b. Wahrlich, dieser ist Gottes Sohn gewesen, Coro in do per 2 cori, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Und es waren viel Weiber da, Recitativo in Mi bemolle/Si bemolle per tenore e continuo
64. Am Abend, da es kühle war, Recitativo in sol per basso, 2 violini, viola, organo e continuo
65. Mache dich, mein Herze, rein, Aria in Si bemolle per basso, 2 oboi da caccia, 2 violini, viola, organo e continuo
66. a. Und Joseph nahm den Leib, Recitativo in sol/Si bemolle per tenore e continuo
b. Herr, wir haben gedacht, dass dieser Verführer sprach, Coro in Mi bemolle per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo
c. Pilatus sprach zu ihnen: Da habt ihr die Hüter, Recitativo in Re/sol/Mi bemolle per tenore, basso e continuo
67. Nun ist der Herr zur Ruh gebracht, Recitativo con coro in Mi bemolle/do per basso, tenore, contralto, soprano, coro, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola organo e continuo
68. Wir setzen uns mit Tränen nieder und rufen, Coro in do per 2 cori, 2 flauti traversi, 2 oboi, 2 violini, viola, organo e continuo.

Riccardo III

foto © Gianluca Pantaleo

William Shakespeare, Riccardo III

regia di Antonio Latella

Firenze, Teatro della Pergola, 4 dicembre 2025

Il bianco che acceca: il Riccardo III di Latella e la seduzione del male

Antonio Latella rilegge Riccardo III vestendo di bianco il male e privando il protagonista della storica deformità, scelta che però indebolisce il fascino tragico del personaggio. Forte la scenografia simbolica e l’idea del Custode onnipresente. Meno riuscito l’uso dei microfoni. Marchioni domina un cast diseguale in uno spettacolo suggestivo ma teoricamente sbilanciato.

È il bianco il colore del male? A giudicare dal nuovo Riccardo III di Antonio Latella, parrebbe di sì. Il regista ribalta l’immaginario cromatico e trasforma uno dei personaggi più spietati della cultura occidentale in una figura vestita di un candore accecante: un bianco che non assolve, ma smaschera; non purifica, ma corrode. Bianche sono le rose della casa di York, dunque bianchi i fiori del giardino in cui Latella ambienta la vertiginosa scalata del monarca sanguinario: un giardino non di delizie, ma di nequizie. Qui il male germoglia nella bellezza, non nella bruttezza: Dostoevskij direbbe che la bellezza salva il mondo; Latella gli risponde che può anche rovinarlo.

A esplicitare la chiave di lettura è lo stesso interprete protagonista, Vinicio Marchioni: «In genere si è portati a pensare che il male stia soltanto nella deformità e nella bruttezza. […] Da sempre nella storia dell’umanità c’è stata la necessità di trovare un capro espiatorio e nel caso del Riccardo III il personaggio si adatta perfettamente a questa esigenza rassicurante. […] Il vero problema, però, è quando il male diventa affascinante e narcisistico, quando riesce a convincere gli altri di non esserlo ed esprime tutta la sua potenza ammaliatrice». Parole che chiariscono l’intenzione del regista: cancellare l’ombra della deformità fisica e consegnarci un Riccardo tutt’altro che repellente, anzi seducente, attraente. È qui, però, che l’operazione inciampa.

Privato della sua storica storpiatura, Riccardo perde quel paradossale magnetismo che Shakespeare gli ha cucito addosso: l’abilità di ammaliare nonostante l’aspetto ripugnante. Il fascino disturbante di figure come lo straordinario Ian McKellen nella celebre versione teatrale e poi cinematografica diretta da Richard Loncraine nasceva proprio dal conflitto fra repulsione e carisma, fra deformità e lucidissima intelligenza. Latella rinuncia a questo cardine drammaturgico, e con esso rinuncia a una parte essenziale dell’impianto tragico: il personaggio, così, rischia di non irradiarsi più nelle sue contraddizioni, e le premesse teoriche — per quanto interessanti — rimangono sulla carta, senza trasformarsi in necessità scenica. Lo spettacolo parte lentamente, poi il ritmo aumenta, ma la costruzione del protagonista resta sbilanciata: elegante, sì, ma depotenziata.

La scenografia di Annelisa Zaccheria è dominata da un tronco d’albero cavo, varco attraverso il quale Riccardo fa il suo primo ingresso. È l’utero maledetto da cui la madre Elisabetta rimpiange di aver generato un tale figlio; è la porta d’accesso a un mondo naturalistico eppure innaturale, dove al cinguettio degli uccelli si intreccia il sibilo del serpente, e con essi l’ombra del cinghiale e del rospo — animali da sempre legati all’immaginario del personaggio. Sul fondo, teli traslucidi separano l’aldilà dal regno dei vivi, evocando un oltremondo pronto a inghiottire chi cade vittima della sua ambizione. Ai lati del palcoscenico, gli attori attendono in vista la loro entrata, nei costumi settecenteschi di Simona D’Amico: una scelta suggestiva, ma che indulge a un eccesso didascalico quando veste di rosso Richmond, come a precisare a ogni costo la sua appartenenza alla casata della rosa rossa.

In questo impianto visivo volutamente statico, scolpito dalle luci implacabili di Simone de Angelis, a emergere è la parola shakespeariana, restituita nella sciolta traduzione di Federico Bellini. Il testo diventa la materia incandescente dello spettacolo: i monologhi, a cominciare da quello celeberrimo in cui Riccardo enuncia il suo “scontento”, funzionano come confessioni a cuore aperto di un uomo che parla direttamente allo spettatore. Mentre i duetti sono spesso un corpo a corpo emotivo: sconvolgente la scena con Anna, a cui Riccardo ha appena ucciso il marito ma che riesce comunque a sedurre; lacerante il confronto con la madre, dove il rancore familiare diventa destino.

Dove Latella convince di più è nella figura del Custode della Torre: un personaggio potenziato, trasformato in assistente onnipresente del protagonista. È lui a predisporre materialmente gli orrori, a segnare verbalmente («Muori!») il momento del trapasso delle vittime, fino a diventare il fulcro del colpo di scena finale. Una scelta felice, che conferisce compattezza all’intelaiatura narrativa e offre al pubblico un angelo (o demone) della morte sempre in agguato. Peccato che il giovane interprete, pur convincente, abbia una dizione talvolta impastata.

A complicare ulteriormente il quadro c’è poi l’uso dei microfoni, che appiattisce le timbriche e rende le voci quasi indistinguibili — un problema non secondario in una tragedia che vive di parola, ritmo e vocalità. Accanto alla presenza magnetica di Vinicio Marchioni, che alterna scatti d’ira a un’insinuante cortesia, si muove un cast numeroso e diseguale: Silvia Ajelli, Anna Coppola, Flavio Capuzzo Dolcetta, Sebastian Luque Herrera, Luca Ingravalle, Giulia Mazzarino, Candida Nieri, Stefano Patti, Annibale Pavone e Andrea Sorrentino offrono una prova complessivamente solida ma con momenti alterni, per intensità e tenuta drammatica.

Lo spettacolo, coprodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria e dal LAC Lugano Arte Cultura, dopo lo Strehler di Milano approda ora a Firenze. Da qui proseguirà un fitto percorso che lo porterà già questo mese al Carignano di Torino, poi al Duse di Bologna, al Piccinni di Bari e al Mercadante di Napoli.