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Jeff Wall: Photographs

Invisible Man (2001)

Jeff Wall, Photographs

Torino, Gallerie d’Italia, 26 novembre 2025

Il brivido del dettaglio: dentro le “poesie in prosa” di Jeff Wall

La fotografia di Jeff Wall è stata definita in molti modi – “letteraria”, “pittorica”, “cinematografica” – e non a torto. L’ampia esposizione alle Gallerie d’Italia di Torino, dedicata all’artista canadese nato nel 1946, mostra con chiarezza le molte anime del suo lavoro attraverso ventisette opere, alcune in formato così vasto da diventare quasi ambienti. La figura umana, spesso a grandezza naturale, è la protagonista incontestata del suo universo visivo, il centro fisso attorno a cui ruotano costruzioni narrative, osservazioni sociologiche e riflessioni sulla rappresentazione.

Informant (2023)

La componente letteraria, in particolare, si rivela nel carattere descrittivo della fotografia: un medium che, come la scrittura, racconta. Lo si avverte in Informant (2023), dove una giovane in camice bianco chiama la polizia. Il titolo, quasi una didascalia espansa, chiarisce che la scena cita il «sesto capitolo, parte terza» di Últimas tardes con Teresa di Juan Marsé, momento in cui la farmacista Hortensia denuncia un furto. Wall inserisce anche una piccola immagine del poliziotto all’altro capo del telefono: un espediente inusuale nella fotografia ma familiare al cinema o al fumetto per rappresentare luoghi e tempi differenti in parallelo. Questo piccolo scarto formale introduce nell’immagine una tensione appena percettibile, la sensazione di un racconto che potrebbe dilatarsi oltre i margini della cornice.

Altri “incidenti di lettura”, come li definisce David Campany nel saggio in catalogo, animano opere quali After Spring Snow (2005), derivata da Yukio Mishima, Invisible Man (2001) da Ralph Ellison, o Odradek (1994) da Kafka. In particolare Invisible Man mette in risalto ciò che distingue letteratura e fotografia: la quantità di dettagli, quasi un eccesso di realtà, che nessuna descrizione, per quanto meticolosa, riuscirebbe a pareggiare. È l’“effetto realtà” della fotografia, la sua inclinazione a far sembrare un resoconto oggettivo spesso più ricco del necessario. Non sorprende che la mostra accompagni le opere monumentali – Invisible Man misura 174 × 250 cm – con ingrandimenti di dettagli altrettanto eloquenti, a sottolineare la natura costruita e stratificata della sua staged photography.

The Thinker (1986)

Sul fronte pittorico, Wall dialoga con una tradizione antica quanto la fotografia stessa, nata anche come rivale della pittura nei ritratti e nei paesaggi. Ma il suo approccio è personale, ironico, talvolta sovversivo. Emblematico Picture for Women (1979), ispirato a Manet, o The Thinker (1986), presente in mostra: una messa in scena ai limiti della caricatura in cui un uomo dagli abiti consunti, seduto su un tronco poggiato su blocchi di cemento in una landa industriale, imita la posa del Pensatore di Rodin. Osservando meglio, si scopre una spada conficcata nella sua schiena: un riferimento diretto, e sarcastico, al Monumento in commemorazione della vittoria dei contadini di Dürer (1525). L’eco pittorica diventa così un dispositivo di interrogazione critica, un modo per rinegoziare gli stilemi della storia dell’arte.

The Listener (2015)

Non meno importante è la dimensione cinematografica del lavoro di Wall, evidente in molte immagini singole o multiple. Qui gli scatti sembrano frammenti di film di cui ignoriamo la trama: proprio l’incertezza narrativa crea una risonanza più profonda. In The Listener (2015), un uomo pallido e biondo, a torso nudo, è inginocchiato a terra, circondato da alcuni uomini non apertamente minacciosi. La scena non mostra violenza, ma la tensione è palpabile, quasi più feroce di un gesto esplicito. Wall costruisce situazioni che “stanno per accadere”: l’energia sospesa è la vera protagonista.

Tra le opere più sorprendenti in mostra vi è The Gardens (2017), ambientata sulla collina torinese, a Villa Silvio Pellico. Tre pannelli giganteschi – ciascuno misura 250 × 380 cm – compongono il lavoro più monumentale di Wall. In questo trittico si dispiega una disputa silenziosa e tesa fra padroni e servitori, interpretati dagli stessi attori. L’apparente quiete del parco cela dinamiche sociali intrise di risentimento, sfiducia, coscienza di classe e privilegi: un conflitto che non trova soluzione, sospeso in un equilibrio fragile. L’opera si legge come un tableau vivant contemporaneo, dilatato e inquieto.

The Gardens : Denial (2017)

Tutte queste componenti convergono in Event (2021), l’immagine conclusiva di questa ideale selezione: una scena semplice, quasi anodina, ma densa di allusioni. Due giovani in smoking si affrontano in un ambiente lussuoso, forse un hotel pronto per una convention o una festa di matrimonio. Uno punta il dito contro l’altro: potrebbe essere il preludio a uno scontro fisico, o almeno verbale. I due uomini si somigliano – età, tratti, postura – come se la scena rappresentasse un conflitto speculare, un duello tra doppi. Il corridoio in prospettiva, i colori vivaci del tappeto contro la boiserie dai toni smorzati, il nero degli abiti: tutto è concreto, reale, eppure avvolto da un’aura di mistero e sospensione.

Jeff Wall definisce le sue immagini “poesie in prosa” e sostiene che «in questo stato di sospensione, lo spettatore provi piacere». Un piacere sottile, lontano dall’angoscia generata dall’attuale proliferazione di manipolazioni digitali e deep fake: un ritorno alla complessità della visione, alla capacità della fotografia – costruita, meditata, precisa – di far interrogare senza ingannare.

Event (2021)

Il sonno uccidesti

foto © Roberto Ricci, Teatro Regio di Parma

Damiano Michieletto e Paolo Fantin, Il sonno uccidesti

Parma, Galleria San Ludovico, 21 settembre 2025

Cristalli infranti e acqua nera: il Macbeth di Michieletto e Fantin

È possibile dare forma tridimensionale – o meglio, quadridimensionale, se includiamo il flusso inesorabile del tempo – a uno stato d’animo? È questa la sfida che Damiano Michieletto e Paolo Fantin si sono posti con Il sonno uccidesti, l’installazione concepita per la sezione Verdi Off del Festival Verdi di Parma, giunto alla sua venticinquesima edizione e quest’anno dedicato al dialogo tra il genio di Busseto e quello di Stratford.

In programma sono i tre progetti realizzati da Verdi su Shakespeare: Macbeth, Otello e Falstaff. Ed è la prima opera – qui rappresentata nella versione 1847 – che ha suggerito il tema a Michieletto e Fantin e al loro magic team di collaboratori con cui da due decenni realizzano non solo i più imperdibili spettacoli lirici, ma progetti di teatro di prosa (Goldoni, Gogol’, Valle-Inclán, Čechov) e installazioni artistiche (ai Giardini della Biennale di Venezia e al Forte di Marghera). 

«Methought I heard a voice cry “Sleep no more! Macbeth does murder sleep”» (Mi sembrò di sentire una voce gridare: «Non dormire più! Macbeth uccide il sonno»), dice Macbeth nella seconda scena dell’atto secondo della tragedia di Shakespeare e subito dopo ripete; «Still it cried “Sleep no more!” to all the house. Glamis hath murdered sleep, and therefore Cawdor shall sleep no more. Macbeth shall sleep no more.” (E gridò ancora “Non dormire più!” a tutta la casa. “Glamis ha ucciso il sonno, e quindi Cawdor non dormirà più. Macbeth non dormirà più”). Nella versione di Francesco Maria Piave per l’opera di Giuseppe Verdi i versi diventano: «Allora questa voce m’intesi nel petto: Avrai per guanciali sol vepri, o Macbetto! | Il sonno per sempre, Glamis, uccidesti! | Non v’è che vigilia, Caudore, per te!».

Il sonno uccidesti è dunque il titolo dell’installazione che Michieletto e Fantin presentano per tutta la durata del festival alla Galleria San Ludovico. Un progetto artistico che vede impegnati nella realizzazione l’arte iperrealistica di Leonardo Cruciano e la Imaginari Factory, casa di produzione di effetti speciali cinematografici.

Entrando nella ex-chiesa, ora galleria d’arte, veniamo accolti dal sound design immersivo di Michele Braga, mentre Alessandro Carletti col suo progetto luminoso ci mette di fronte a una cascata di schegge di cristallo che scendono dall’alto su un rettangolo d’acqua nera delimitato da luci al neon. 

Al centro di questo spazio sospeso giace Macbeth, iperrealistico fino all’inquietudine: immobile, affondato in una poltrona come in un relitto, le mani aggrappate ai braccioli, lo sguardo spento, i capelli disordinati, il papillon sciolto, un uomo in rovina. Intorno a lui precipitano i frammenti del castello che egli stesso ha costruito e distrutto: simbolo di un potere fragile come il cristallo, che si frantuma sotto il peso delle proprie ossessioni. Le luci, in minime e infinite variazioni, modulano un tempo bloccato, notturno, senza fine. Non vi è più respiro: il tiranno ha perso il sonno, e con esso la misura del reale. Macbeth è condannato a precipitare in un abisso di solitudine. Le vibrazioni sonore provenienti da altoparlanti posti sotto la vasca increspano la superficie a specchio del liquido. Un incubo di sangue nero.

Ma Il sonno uccidesti non si limita a illustrare un personaggio: costruisce una dimensione sospesa in cui lo spettatore è chiamato a specchiarsi. «Macbeth è un corpo, una figura», afferma Paolo Fantin, «ma anche l’immagine di un’ossessione che tutti conosciamo: la pressione sociale verso la perfezione, la brama di dominio che diventa assoluta». L’installazione diventa così un rito collettivo: un varco che conduce al cuore oscuro del potere e, insieme, a quello di ciascuno di noi.

Paolo Ventura

Paolo Ventura

Torino, Galleria Marcorossi, 22 maggio 2025

Il teatro della vita

Intrigante la commistione tra pittura e fotografia (in questo caso staged photography) di Paolo Ventura. Il gallerista Marco Rossi gli dedica una mostra triplice che, in contemporanea e fino al 20 luglio in tre delle sue quattro sedi (Milano, Verona e Torino), presenta per la prima volta al pubblico il suo ultimo ciclo di opere.

Il titolo dell’esposizione, Il teatro della vita, evidenzia il tema di fondo del mondo dell’artista milanese che immortala con la sua macchina fotografica dei teatrini che narrano spesso una storia – Winter Stories, L’automa, Civil War, Lo zuavo scomparso, Il suonatore di trombone sono alcuni dei titoli dei suoi cicli. La fascinazione per il circo, i clown, i prestigiatori e il teatro di strada lo ha portato a collaborare nel 2015 con la Lyric opera di Chicago e la Houston Grand Opera per Carousel il musical di Rodgers & Hammerstein e con il Teatro Regio di Torino per Pagliacci (2017) e Cavalleria rusticana (2019).

A un teatro intimo e simbolico è riferito il ciclo Der Sturm, architetture urbane o domestiche popolate da marionette realizzate dall’artista stesso che si organizzano in tableaux vivants densi di riferimenti alla pittura e al cinema del primo Novecento e che fanno riflettere sui temi della maschera e dell’identità.

À bas Guillaume, ispirato al mancato incontro tra Ungaretti e Apollinaire nella Parigi del primo dopo guerra, è occasione per visualizzare atmosfere della capitale francese surreali, enigmatiche e dense di evocazioni storiche e letterarie.

I lavori più recenti di Ventura sono costituiti da collages fotografici di paesaggi urbani svuotati dalla pandemia di Covid e reinventati come scenografie sospese in un sottile equilibrio tra sogno e realtà, memoria e finzione.

Senza titolo – La luz de un lago

Romeo Castellucci, Senza titolo

Torino, Fondazione Merz,  12 ottobre 2024

El Conde de Torrefiel, La luz de un lago

Torino, Teatro Astra,  12 ottobre 2024

Il suono in scena

Il titolo è quello delle prime opere astratte che neppure nell’indicazione volevano cedere a un suggerimento visivo o concettuale, ossia Senza titolo. Si tratta della installazione performativa commissionata dalla Triennale di Milano, in contemporanea con Bérénice, con cui Romeo Castellucci inaugura la 29esima edizione del Festival delle Colline Torinesi.

Negli spaziosi locali della Fondazione Merz, il pubblico entrando in piccoli gruppi trova un tubo dorato sospeso nel nulla. Guardando meglio, su uno dei cavi a cui è agganciato il tubo si nota un filo elettrico e un piccolo microfono. Una persona entra da destra – saranno persone diverse per aspetto, etnia sesso, età, ma tutti accomunati dalla lunga capigliatura –  immerge i capelli in  una bacinella piena d’acqua, si avvicina alla barra e con movimento della testa la percuote con i capelli bagnati. Ne scaturisce un suono frusciante il cui volume dipende dalla forza con cui avviene il movimento, ma anche dalla lunghezza e dalla massa di capelli, suono che viene restituito riverberato nello spazio da altoparlanti. Dopo pochi minuti un’altra persona viene a sostituire la precedente in un gesto iterato da gente qualunque che si scopre performer con un inedito strumento. Da soli o a coppie, con un ritmo del tutto casuale scelto dai partecipanti, si consuma un rito sonoro di grande suggestione in cui il corpo, come sempre negli spettacoli di Castellucci, è elemento totalizzante. «È incredibile vedere come lo stesso gesto possa essere vissuto in maniera completamente differente», dice il regista, «e come questa sequenza di persone sia una sorta di ritratto dell’umanità che scorre in un unico comune movimento oscillatorio che può ricordare un gesto di protesta o di preghiera. Potrebbe far pensare alla preghiera del giunco dell’ebraismo ortodosso che si compie di fronte al muro del pianto. Mentre i capelli sono anche fiamme o colpi di frusta, un suono di campana su questo tubo vuoto che risuona quasi come un appello per chi ascolta. Più che uno spettacolo è dunque un’azione e una contemplazione perché lo sguardo viene privato dall’elemento della curiosità e della sorpresa o dell’informazione. Quindi si concentra e riduce. Se non fosse così complicata, questa parola si potrebbe dire che si purifica».

Le orecchie accarezzate dai suoni della installazione di Castellucci – mentre l’anno scorso furono messe a dura prova da Il Terzo Reich – sono invece assalite senza pietà dai decibel che El Conde de Torrefiel, nelle persone di Tanya Beyeler e Pablo Gisbert, riversa sugli spettatori del Teatro Astra subito dopo. La luz de un lago è il titolo di quanto si vede sul palcoscenico. Il teatro proposto dalla compagnia spagnola è un “teatro della mente” che non rinuncia comunque alla narrazione, qui affidata a una voce fuori campo, ma soprattutto a delle didascalie che come sopratitoli aiutano a comprendere quello che visivamente non viene neanche lontanamente suggerito. Neppure dal titolo dello spettacolo si può avere qualche informazione. Su schermi mobili vengono proiettate immagini sgranate in cui la danza forsennata di pixel colorati rimanda a immagini del tutto indecifrabili. La narrazione è quella di quattro storie matrioska contenute una dentro l’altra in cui i protagonisti di una sono gli spettatori di quella precedente. Andando all’inverso di quanto viene “non-rappresentato”, veniamo a sapere di non meglio specificati attivisti che nel 2036, all’inaugurazione della stagione della Fenice, gettano escrementi dalla galleria sugli spettatori di platea – non esattamente i foglietti tricolori della sequenza iniziale di Senso, il film di Visconti del 1954… Nel teatro veneziano va in scena la prima della nuova opera lirica Marianne e il mare, che tratta della vicenda della biologa transgender Marianne morta nell’oceano, donna che avevamo incontrato prima nella metropolitana di Parigi nel 2024 mentre leggeva un libro con la storia d’amore di due greci che nel 2008 si incontrano in un cinema di Atene per fare sesso mentre sullo schermo viene proiettato un film che ha come protagonisti tre giovani che si conoscono al concerto dei Massive Attack a Manchester nel 1995, vicenda che era stata raccontata per prima con un generoso sonoro per immergere gli spettatori prima nell’atmosfera del concerto rock e poi, seguendo i tre giovani, in una discoteca. Di tutto questo il pubblico viene informato unicamente dalle didascalie, per il resto in scena c’è il nulla, o meglio tre tecnici che per tutta la serata  spostano gli schermi per poi dipingerli di nero e farli sparire alla vista, cancellarli. Come il senso del teatro di questo spettacolo.

Vik Muniz

particolare di Leda e il cigno, da Leonardo da Vinci, 2009

Vik Muniz

Sansicario, Galleria Umberto Benappi, 20 luglio 2024

Dalla discarica alla galleria d’arte

Realizzare immagini con i rifiuti, fotografarle, farle diventare delle ambite opere d’arte, venderle e devolvere il ricavato ai catadores (ricercatori) che frugano nelle discariche delle metropoli del Sud America per estrarre materiali da riciclare.

Che cos’è l’arte? Trasformare la materia in idea. Questa è la missione di Vik Muniz, nato nel 1961 a São Paulo nel Brasile. Dopo aver studiato pubblicità, nel 1983 si trasferisce a New York dove inizia come scultore ma, affascinato dalle riproduzioni fotografiche delle sue opere, decide di focalizzare la sua attenzione sulla fotografia. Durante gli anni ’90, diventa famoso per il suo approccio sperimentale al processo fotografico parodiando immagini iconiche e celebri della cultura pop e della storia dell’arte e inizia ad accostare tra loro materiali di uso comune (come terra, ovatta, inchiostro, lana), rifiuti, oggetti rotti e prodotti alimentari (come zucchero, ketchup e sciroppo al cioccolato) per progettare i soggetti narrativi poi ripresi dalla macchina fotografica.

Vik Muniz e la sua Isis, donna che stira, dalla serie “Pitture di immondizia”, 2011

«Nel 2008, il mio lavoro di artista mi ha portato in una gigantesca discarica fuori Rio de Janeiro, chiamata Jardim Gramacho. Dopo aver operato per più di 30 anni, l’impianto, un tempo uno dei più grandi al mondo, aveva raggiunto la sua capacità massima e stava per chiudere definitivamente. Una discarica come quella di Gramacho è un buon posto per osservare come le cose che un tempo erano utili o significative possano scendere in un purgatorio materiale, dove tutto viene rimescolato in un disordine primordiale», dice Muniz, «Qui ho incontrato persone che vivevano immerse in questi sogni infranti; persone che selezionavano la spazzatura, cercando di salvare il valore materiale degli oggetti; persone che separavano e riciclavano quelle macerie caotiche, semplificandole fino al loro passato elementare per poi trasformarle in un’altra cosa desiderabile. Lavorare con questi individui mi ha dato una nuova consapevolezza dell’importanza dell’opera d’arte all’interno di un sistema universale di oggetti. Essere bloccati in un ciclo senza fine come Sisifo, il re della mitologia greca condannato a far rotolare per sempre un masso su per una collina, può far venire voglia a un artista di smettere di trasformare le idee in oggetti». Nei suoi “Dipinti di immondizia”, fotografa i raccoglitori individualmente nella discarica stessa e poi proietta le immagini catturate sul pavimento di un enorme magazzino nelle vicinanze. Poi lavora con i catadores per raccogliere oggetti riciclabili dalla discarica e utilizzare questi scarti per ricreare le immagini sul pavimento. Alla fine, emergono ritratti vibranti, complessi ed essenzialmente umani, che rivelano sia la dignità che la disperazione dei catadores che iniziano a reimmaginare le loro vite. Alcuni di questi ritratti si rifanno a immagini famose del canone della storia dell’arte. Muniz riesce nell’impresa di cambiare la vita di un gruppo di persone con la stessa materia con cui riescono a sopravvivere.

Il documentario Lixo extraordinário (Spazzatura straordinaria, Waste Land il titolo inglese) mostra la produzione di opere d’arte con materiale raccolto dalla discarica di Jardim Gramacho tra il 2007 e il 2008 e ha ottenuto numerosi premi nei festival cinematografici internazionali.

Marat (Sebastião), da Jacques-Louis David, 2010

Biennale Arte di Venezia 2024

Osmar Mismar, Unidentified Lovers in a Mirror, 2023

Biennale Arte di Venezia (parte II, Arsenale)

Venezia, Giardini, 26 giugno 2024

Donne e queer

Adriano Pedrosa, il direttore della 60esima edizione della Biennale Arte di Venezia, è brasiliano e gay dichiarato. Evidente è la sua scelta verso artisti “stranieri” e appartenenti alle minoranze queer o femminili.

Le donne ancora devono lottare per diritti elementari in certi paesi, come è il caso dell’Arabia Saudita la cui artista Manal Al Dowayan nella su installazione combina la caratteristiche geologiche e sonore del deserto con le voci delle donne del suo paese. Monumentali sculture a forma di petalo prendono la forma delle rose del deserto, le concrezioni tipiche dei deserti sabbiosi come quello che lambisce la sua città Dharhan. Sulla superficie si leggono testi sulle donne saudite ricavati da media locali e internazionali: una cacofonia di pregiudizi che formano l’archivio di una rappresentazione distorta e limitata delle voci femminili. Shifting sands: a battle song è un richiamo alla solidarietà, un’esperienza designata a ispirare coraggio: «Spero che quest’opera d’arte arricchirà le donne», dice l’artista, «a guardare sé stesse e a portare la loro comunità a trovare la voce e lo spazio in questa nuova fase storica che per l maggior parte deve ancora essere scritta».

Manal Al Dowayan, Sussurra il vento e si leva la voce, 2024

Osmar Mismar, artista libanese, riscopre la tecnica musiva ponendo l’accento sulla modernità: che cosa sono le tessere del mosaico se non pixel di un’immagine digitale? E su questo gioca quando “scombina” le tessere dei volti dei suoi personaggi per renderli irriconoscibili. Sia che si tratti di due amanti che si abbracciano in un tondo, un’immagine esplicita di vita queer ritenuta innaturale in Libano, oppure di due giovani che proteggono con sacchi di sabbia un dipinto dalla furia della guerra rendendo così omaggio alle azioni eroiche dei guardiani di un museo archeologico in Siria.

Osmar Mismar, Ahmad and Akram Protecting Hercules, 2019-20,

Dal medio oriente alla Cina: Xiyadie (pseudonimo scelto dall’artista e che significa farfalla siberiana) recupera l’arte popolare della sua regione, ossia i ritagli di carta per documentare l’evoluzione della vita queer in Cina a partire dagli anni Ottanta ritraendo scene d’amore sullo sfondo di luoghi dove i pratica il cruising o in spazi domestici. In Sewn (Cucito) Xiyadie descrive la difficoltà di accettare la propria sessualità intrappolato in un matrimonio eterosessuale: i suoi pantaloncini gialli pendono da una gamba mentre cuce il proprio pene con un grande ago e con un filo fatto di sperma e sangue. La stanzetta è dominata da una porta e da un tetto tradizionali cinesi. Su una parete una fotografia del suo primo amore. Con Kaiyang (2021) Xiyadie presenta a Venezia il suo lavoro più ambizioso largo tre metri in cui ritrae il famoso bagno turco Kaiyang di Pechino. La sua utopia queer.

Xiyadie, Kaiyang, 2021

Biennale Arte di Venezia 2024

Wael Shawky, Drama 1882, 2024

Biennale Arte di Venezia (parte I, Giardini)

Venezia, Giardini, 25 giugno 2024

Colonialismi in scena: il cuore segreto della Biennale

Il titolo scelto da Adriano Pedrosa, il direttore della 60esima edizione della Biennale Arte di Venezia di quest’anno è Foreigners Everywhere (Stranieri ovunque), ma non si riferisce a quelli che dilagano rumorosamente nelle calli e nei campielli della città, ma alle minoranze ferite dal corso della storia: i neri, i diversi.

Sul tema del colonialismo fanno i conti con il loro passato nazioni come la Spagna, l’Olanda, il Regno Unito, ognuno a modo suo, ma è la Spagna che recupera un mezzo espressivo che è quasi minoritario in questa rassegna dove dominano video, installazioni concettuali (Germania), sonore (Italia) o olfattive (Corea), ossia le tele dipinte. Come quelle appunto dell’artista Sandra Gamarra Heshiki con la sua Pinacotea Migrantes dove il concetto egemonico di pinacoteca occidentale si capovolge per esporre una serie di narrazioni che storicamente furono messe in silenzio. L’artista, una migrante lei stessa, peruviana ora vivente a Madrid, nelle sue indagini sul passato coloniale spagnolo e sulle sue ripercussioni attuali guarda ai dipinti europei del Seicento riappropriandosi degli stilemi pittorici tradizionali – il paesaggio, il ritratto, la bottega, l’illustrazione scientifica e botanica – per proporre opere in stato di non finitezza o restauro come metafora della ferita coloniale.

Sandra Gamarra Heshiki, Racismo Ilustrado III, 2023

Sfrutta il metodo pittorico tradizionale anche Louis Fratino, artista classe 1994, americano ma con stretti legami con l’Italia, che con riferimenti alla pittura della scuola romana tra le due guerre e Picasso trasforma la monumentalità di un Sironi in tenera freschezza giovanile. Dichiarandosi apertamente artista queer, il sesso nella sua totalità diventa un soggetto ricorrente nelle sue opere fatte di disarmanti corpi nudi che si avvinghiano, di sguardi intensi, di emozioni forti.

Louis Fratino, Eye Contact, 2019

Buona parte parte dei mezzi espressivi adottati dagli artisti scelti da Pedrosa esulano dalla tradizionale pittura e c’è un artista che riesce a stupire per la sua scelta. Si incontra nel padiglione egiziano ed è Wael Shawky il cui video Drama 1882 fa rivivere un momento cruciale della storia del suo paese, ovvero la repressione della rivoluzione nazionalista degli Urabi nel 1882. L’opera scandisce l’escalation di violenze di questo conflitto, innescato dall’uccisione di un guardiano di asini egiziano per mano di un maltese in uscita dal consolato inglese di Alessandria e dalla successiva insurrezione popolare in cui persero la vita circa trecento persone. Nonostante la maggior parte delle vittime del tumulto fossero egiziane, il caso venne preso a pretesto dall’impero britannico per attaccare l’Egitto, con l’alibi di difendere i suoi cittadini in loco. A un mese di distanza da questa sommossa di strada, l’esercito inglese bombardò Alessandria uccidendo più di duemila persone, per poi sconfiggere definitivamente l’esercito arabo nella storica battaglia di Tel El Kebir, che decretò l’occupazione della nazione, destinata a durare fino al 1956.

Shawky affronta il concetto di storia revisionista e di eredità coloniale in modo coinvolgente, tramite un musical, girato in un teatro storico di Alessandria, che rivive i momenti rivoluzionari della storia con un accattivante accompagnamento musicale e in uno scenario tra il fiabesco e il surreale di 45 minuti suddiviso in otto scene. Cantata in arabo classico da interpreti professionisti, l’opera segna una svolta per Shawky: «Di solito insistevo per eliminare il dramma dai miei film precedenti, quindi ho optato per burattini, marionette e bambini. Questa volta il dramma ha diversi significati: c’è il senso della finzione, legato all’idea di avere uno spettacolo, come il teatro. Lo sfondo si muove al rallentatore, come se fosse a strati. Alla fine l’opera è come un dipinto in movimento, con gli interpreti e la colonna sonora come elementi di questa composizione».

Senza dubbio la sua è una delle proposte più inventive e insolite della Biennale di quest’anno.

Pessoa – Since I’ve been me

Robert Wilson, Pessoa – Since I’ve been me

Firenze, Teatro della Pergola, 5 maggio 2024

L’omaggio di Robert Wilson al Portogallo che festeggia 50 anni di democrazia

Luce, spazio, tempo. Gli spettacoli di Robert Wilson nascono prima dalla luce, poi dagli spazi e dai tempi teatrali. Non fa eccezione l’ultima sua creazione ora in prima mondiale alla Pergola.

Pessoa – Since I’ve been me (Pessoa – Da quando sono io) è uno spettacolo multilingue commissionato e prodotto dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théâtre de la Ville di Parigi nel segno del progetto comune “L’Attrice e l’Attore Europei” e coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg. È un viaggio poetico nell’immaginario del poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935).

Oltre la regia, Robert Wilson cura luci e scene, mentre la drammaturgia è affidata a Darryl Pinckey e i costumi sono disegnati da Jacques Reynaud. Scrive il regista: «L’idea che sia una produzione internazionale, che ci siano attori di paesi differenti, con background culturali differenti, e che sia uno spettacolo in varie lingue mi sembra giusta per Pessoa. Pessoa era un uomo fatto di tante “persone” diverse, un portoghese cresciuto in Sudafrica. Una maniera di approcciare questo lavoro è cercare di capire come trattare questo insieme di personalità. Nella mia testa c’è proprio un prisma con tutte le diverse personalità, i diversi aspetti di Pessoa».

Nel 2024 il Portogallo festeggia mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia nel Paese dopo anni di dittatura. Diventa quasi naturale pensare a Pessoa, l’enigmatico poeta dai molti eteronimi. L’utilizzo del multilinguismo è la chiave di interpretazione del lavoro del poeta che oltre al portoghese si esprimeva nella lingua della madre (inglese) e in francese per amore dei suoi prediletti letterati. L’italiano si è aggiunto come sigillo all’universalità europea dell’opera di Pessoa.

Gli spettatori vengono accolti a sipario chiuso dall’attrice portoghese Maria de Madeiros, regista di Capitães de Abril (Capitani di aprile), un film del 2000 sulla ribellione dei giovani ufficiali che posero fine alla dittatura di Salazar. L’attrice è vestita e truccata in modo da somigliare al poeta, ma ricorda anche Charlie Chaplin con la sua malinconia e leggerezza, le stesse facce dell’anima di Pessoa.

Con l’apertura del sipario entriamo in un tripudio di luci, colori e rumori fragorosi quando arrivano in scena le altre personalità eteronome nate dalla immaginazione del poeta (Alexander Search, Bernardo Soares, Vicente Guedes, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis), ossia il magnifico cast internazionale: Aline Belibi, francese; Rodrigo Ferreira, brasiliano; Klaus Martini, italo-albanese; Janaína Suaudeau, franco-brasiliana; Sofia Menci e Gianfranco Poddighe, italiani. I diversi quadri richiamano paesaggi o viaggi (una nave a vela di carta), che per Pessoa sono principalmente viaggi della mente, fino all’ironico e scatenato ballo finale in abiti da marinai americani. I versi del Livro do desassossego (Libro dell’inquietudine), da cui viene tratto il titolo dello spettacolo, sono inseriti in una gioiosa, comica, anarchica, clownesca giostra di battute aforistiche che vogliono esprimere la folle e tragica insensatezza della vita. La totale dedizione ed eccezionale bravura degli interpreti così come le invenzioni visive di Wilson vengono alla fine salutate da applausi convinti e insistiti.

Antologica d’incanto

Barbara Nejrotti, opere 2014-2024

Torino, MUSA, febbraio 2024

Puzzle d’ombra e luce

Nei magici infernotti del MUSA di Torino (via della Consolata, 11E) ci si trova a tu per tu con le opere di Barbara Nejrotti, dieci anni di lavori in cui vengono utilizzate tecniche diverse come il cucito, la pittura, il taglio, per restituire in modo essenziale e rigoroso un’idea o un’emozione su “tele tridimensionali” monocrome, per lo più bianche o nei colori primari.

È un’“arte dello spessore” ottenuta con punti infinitamente piccoli cuciti sulla tela per ottenere spessori che hanno la tridimensionalità dei bassorilievi. Ecco allora le famigliari forme dei puzzle che qui si abbracciano, formano un cuore, se ne stanno solitari, si uniscono con il classico “fil rouge” o si trasformano nella silhouette di un calice di vino con la goccia rossa che spicca sul fondo bianco. O quelle delle onde in cui sguazzano stilizzati nuotatori, o ancora la serie delle impronte. E qui particolarmente toccante è Orme 17002, un lavoro del 2017 dove le impronte di scarpe femminili accostate a quelle minuscole di un bambino richiamano una tenera idea di protezione materna nei primi passi nel mondo del piccolo.

Negli ultimi anni la ricerca dell’artista ha preso strade più astratte, non ci sono più i riferimenti naturali. Si entra in uno spazio depurato dove le ombre diventano le protagoniste dei quadri, talora le sole chiaramente visibili, come nel caso dei sottilissimi fili che tendono i lembi dei tagli nelle opere del 2023 intitolate Spazio Tempo, dove i fili stessi sono praticamente invisibili.

L’interazione con l’ombra è ancora più intrigante nelle opere con lo stesso titolo del 2022, tele coniugate soprattutto in bianco, ma in mostra ce n’è anche uno stupefacente in rosso. Semplici figure geometriche (triangoli e quadrati) si staccano dalla superficie della tela su cui viene segnata l’ombra che essi proiettavano al momento della creazione mentre un’altra ombra si viene ad aggiungere, quella reale della luce dello spazio espositivo in cui è collocata. Ecco in perfetta sintesi spazio e tempo. 

Le opere di Barbara Nejrotti non sono algidi esperimenti concettuali: i pieni e i vuoti delle sue tele sono quelli che riflettono i pieni e i vuoti delle nostre esistenze, quelli che definiscono i contorni del nostro vivere. Le sue sono proiezioni interiori.

Il Terzo Reich

Romeo Castellucci, Il Terzo Reich

Torino, Teatro Astra, 25 ottobre 2023

Le parole bombe di Castellucci

Tempi duri per gli amanti del teatro. Nel giro di poche ore il pubblico torinese è messo a dura prova prima sopportando i lamenti autoreferenziali e le provocazioni degli attori dello spettacolo della compagnia Peeping Tom; poi, passano 22 ore, ed è vittima della sadica tortura inflittagli da Romeo Castellucci con la sua installazione Il Terzo Reich.

All’ingresso della sala del Teatro Astra, dove si svolge il consueto Festival delle Colline Torinesi, vengono distribuiti dei tappi per le orecchie. Era successo anche per Bros, l’altro spettacolo di Castellucci l’anno scorso, ma allora non si erano resi necessari. Qui saranno provvidenziali. La serata inizia senza sorprese, con buio totale e rumori di scalpiccii in scena, ma non succede nulla. Viene accesa una candela, ma poi viene spenta. Per tanti lunghissimi minuti la scena continua a essere immersa nel buio, unica luce quella delle uscite di emergenza. Poi all’improvviso, quando è stata portata al limite la pazienza degli spettatori, accompagnata da un fortissimo rumore, appare una parola sullo sfondo. Svanisce. Ne appare un’altra, con lo stesso rumore. Poi un’altra, un’altra ancora, a ritmo sempre più incalzante, così come sempre più incalzanti saranno i suoni che i tappi nelle orecchie difendono dai timpani, ma non dalle viscere tartassate dalle frequenze sparate a pieni decibel. Il ritmo delle parole proiettate e dei suoni diventa sempre più parossistico. Sono frazioni di secondo, al limite della capacità retinica a percepire le parole che si susseguono a caso senza alcuna logica. Si tratta della sequenza dei 15000 sostantivi del vocabolario italiano che rappresentano tutti gli oggetti della realtà dotati di un nome. Sostantivi senza sostanza, che non tessono alcuna rete di significato tra loro: a tratti le parole si raggruppano per lunghezza o per avere lo stesso prefisso o una lettera in comune, e anche i suoni cambiano, ma sempre allo stesso insopportabile livello sonoro. Ogni parola una bomba. Si va avanti così per 50 minuti, quando il ritmo rallenta e alla fine tutto tace. Fine della corsa, ritornano le luci e nel silenzio il pubblico esce frastornato e con l’udito leso.

Questa è la nuda cronaca.

Che un artista come Castellucci non sia diventato all’improvviso un sadico torturatore è ovvio, ma che il risultato sia quello a cui abbiamo assistito è anche vero. Il titolo fa riferimento a La lingua del Terzo Reich del filologo Victor Klemperer che ha dimostrato quanto la lingua di un regime totalitario riesca a condizionare nel profondo il pensiero di un intero Paese. «Il Terzo Reich di Castellucci è l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza. Qui il linguaggio-macchina esaurisce interi ambiti di realtà, là dove i nomi appaiono uguali nella loro serialità meccanica, come fossero i blocchi edilizi di una conoscenza che non lascia scampo. Ogni pausa è abolita, occupata. La pausa, cioè l’assenza delle parole, diventa il campo di battaglia per l’aggressione militare delle parole, e i nomi del vocabolario così proiettati sono le bandiere piantate in una terra di conquista». Non c’è spazio per la scelta e il discernimento e il linguaggio diventa rumore bianco, caos. La performance, coprodotta con la Fondazione Merz, è stata presentata l’anno scorso alla Zisa di Palermo e prevedeva una coreografia iniziale che qui è mancata.

L’installazione è specchio degli strani tempi in cui viviamo e forse questa è l’unica risposta possibile alla realtà che ci circonda; dal teatro non possiamo onestamente più chiedere che ci faccia divertire. Ieri un festival di danza si è concluso con uno spettacolo in cui c’era tutto meno che la danza. Questa sera un festival teatrale ha ospitato un avvenimento senza attori, senza scene, senza drammaturgia, senza testo, senza la parola “parlata”. Un po’ di smarrimento da parte del pubblico pagante è comprensibile.

Immagine della lunga striscia di carta nera, con un estratto del flusso di parole proiettate su schermo nell’omonima opera dal vivo, contenuta nella Collector’s Edition del disco di Romeo Castellucci e Scott Gibbons, autore della colonna sonora