Bartolomeo Merelli

Zoraida di Granata

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Zoraida di Granata

Bergamo, Teatro Sociale, 16 novembre 2024

★★★

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#donizetti200: Zoraida di Granata, la sua prima opera seria

Schiacciata tra due capolavori della maturità quali il Roberto Devereux e il Don Pasquale, al festival Donizetti Opera la Zoraida di Granata mostra le sue acerbe qualità di primo dramma serio del compositore bergamasco: una storia del 1480 a ridosso della caduta della dominazione araba con la città di Granada lacerata dalla rivalità tra il clan degli abenceragi e quello degli zegri, vicenda già messa in musica da Giuseppe Nicolini (Abenamet e Zoraide, 1805), Luigi Cherubini (Les Abencerages ou L’Étendard de Grenade, 1807) e Gaetano Rossi (Zoraida, 1816).

Dopo il Cesare in Egitto di Giovanni Pacini (gennaio 1821), la stagione di carnevale del teatro Argentina avrebbe dovuto continuare con il nuovo dramma di Donizetti, ma a meno di due settimane dal debutto il compositore fu costretto a eliminare dei numeri e adattare la parte di Abenamet a un “musico”, cioè a un contralto en travesti, poiché durante le prove il tenore Amerigo Sbigoli era morto facendosi scoppiare un vaso sanguigno in gola – si dice per aver cercato di superare il tenore rivale Donzelli (Almuzir) in un acuto. Non essendoci un sostituto, la parte di Abenamet dovette essere drasticamente ridotta e adattata al poco noto contralto Adelaide Mazzanti. Anche se in ritardo, il 28 gennaio 1822 l’opera fu finalmente presentata e accolta trionfalmente diventando il primo grande successo del giovane musicista e opera di svolta per il Donizetti “serio”.

Nella ripresa del gennaio del 1824, Donizetti rivide la partitura ampliando il ruolo di Abenamet per mettere in mostra la bravura del contralto protagonista, Rosamunda Pisaroni-Carrara. Anche il libretto di Bartolomeo Merelli fu sottoposto a una drastica revisione da Jacopo Ferretti ed è questa la versione che, esattamente duecento anni dopo, viene presentata come la novità del Donizetti Opera, uno spettacolo che si era visto l’anno scorso a Wexford, ma lì nella prima edizione e con la voce di tenore. La seconda versione cambia metà dei dodici numeri previsti (1), ma è soprattutto nel finale dell’opera che differisce di più, essendo affidato ad Abenamet invece che a Zoraida, con una lunga scena drammaturgicamente più valida: qui il fatto di lasciare regnare un re usurpatore, che si è dimostrato per di più infame nelle azioni, è meno inammissibile di quanto avvenisse nello sbrigativo finale originale. Anche musicalmente l’opera termina in maniera più soddisfacente con quel rondò di Abenamet dal carattere smaccatamente rossiniano. Zoraide di Granata non porta solo il segno dell’influenza di Mayr: sullo stile compositivo di Donizetti ci sono i segni evidentissimi dell’emulazione da parte del giovane compositore dello stile del pesarese, tanto che la Zoraida sembra pronta per il Rossini Opera Festival…

La tradizionale successione recitativo-aria-cabaletta è alla base della struttura dell’opera che contiene momenti musicali salienti in una sapiente successione di arie solistiche e pezzi d’insieme che crescono di intensità man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta. Come nel Fidelio beethoveniano il secondo atto si apre con un uomo in catene che ricorda l’amore fedele della sua donna che viene poi a salvarlo. E c’è pure lo squillo di tromba che risolve la situazione all’ultimo momento!

Coprodotto con il Wexford Festival Opera, lo spettacolo viene adattato agli spazi del Sociale di Bergamo e l’Orchestra Gli Originali con i suoi strumenti d’epoca si dimostra ideale per le esigue dimensioni del teatro nella parte alta della città. Qualche imperfezione nei fiati non compromette la resa della compagine orchestrale il cui violino di spalla Enrico Casazza si fa ammirare nell’obbligato dell’aria del giardino di Zoraida così come Ugo Mahieux al fortepiano nell’accompagnamento dei recitativi. La direzione di Alberto Zanardi, assistente di Riccardo Frizza, assicura l’equilibrio tra buca e voci e una saggia scelta di tempi e volumi sonori. 

Rivelatosi ne L’ange de Nisida, il coreano Konu Kim era presente anche a Wexford e di lui non si può se non rimarcare la buona impressione in un ruolo di baritenore tutt’altro che facile. Permangono perplessità sulla dizione e su un eccessivo sfoggio dei generosi mezzi vocali non adatti all’acustica del piccolo Sociale. Non prorompente ma perfetta per queste dimensioni e piacevolissima è invece la voce di Cecilia Molinari, una performance la sua di cui si apprezzano presenza scenica, espressività, eleganza e la tecnica impiegata nelle agilità richieste dalla parte dell’Abenamet qui en travesti. Lo stesso si può dire per la Zoraida di Zuzana Marková la cui dizione ci fa dimenticare che si tratti di una cantante ceca seppure trapiantata in Italia. Tre allievi della Bottega Donizetti completano felicemente il cast: Tuty Hernández come Almanzor, Lilla Takács la chiava spagnola Ines e soprattutto Valerio Morelli, sonoro Alí. Preciso sia scenicamente che vocalmente il coro tutto al maschile dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò.

La regia di Bruno Ravella è sobria e coerente e l’allestimento efficace e convincente. La guerra è d’attualità oltre che nella realtà anche nella Zoraida e il regista ha buon gioco a trasportare le vicende dalla Spagna del 1480 all’epoca della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo devastata dalla guerra e qui ricreata dallo scenografo Gary McCann nel suo stile moresco. Il pregevole gioco luci di Daniele Naldi aggiunge un tocco ulteriormente drammatico. Di McCann sono anche i costumi: un rigido doppio petto per il tiranno Almuzir, mimetiche militari per gli uomini, un abitino azzurro e uno bianco per la protagonista. Sono gli anni Novanta, ma potrebbe trattarsi della contemporaneità, di un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente, con la figura della protagonista che cerca di tenere insieme qualcosa che sta crollando. La lettura di Ravella mette in luce l’inutilità della guerra: l’opera si conclude con una nota positiva, ma si capisce che molto è andato perduto.

Successo cordiale e applausi per tutta la compagnia. Chissà se questa proposta di Bergamo farà entrare Zoraida di Granata nei cartelloni degli altri teatri.

(1) Qui lo schema delle due versioni.

Alfredo il Grande

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Alfredo il Grande

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2023

★★★★★

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Grandissimo successo per una gemma ritrovata

Con il progetto #Donizetti200, che consiste nel rappresentare in ogni edizione un’opera composta dal grande bergamasco nello stesso anno di due secoli prima, il 2023 offriva la scelta tra due lavori: Il fortunato inganno e Alfredo il Grande. Il Festival Donizetti Opera quest’anno ha optato per il secondo titolo. Dopo Pietro il Grande Donizetti affrontava un altro personaggio storico passando dalla Livonia all’Inghilterra in un melodramma eroico che avrebbe segnato il suo debutto a Napoli, la più importante “piazza” operistica italiana del tempo. Quel 2 luglio 1823 l’opera non riscosse alcun successo e non ebbe repliche. Non piacque il verboso e improbabile libretto di Andrea Leone Tottola che ricalcava quello omonimo di Bartolomeo Merelli del 1819 per Simone Mayr, il maestro di Donizetti, a sua volta tratto dall’Eraldo ed Emma (1805) di Gaetano Rossi.

Atto I. Sull’isola di Athelney, nel Somerset, la regina Amalia, seguita dal generale Eduardo, sta cercando in gran segreto re Alfredo, in fuga dai danesi che Io cercano a loro volta dopo aver invaso l’Inghilterra. Pastori e contadini accolgono i due stranieri, di cui ignorano l’identità. In lontananza si ode una marcia militare e poco dopo si vedono sfilare sulle colline truppe danesi. Dopo aver ricordato la sventura dell’invasione, il pastore Guglielmo offre ospitalità ad Amalia ed Eduardo. Chiede soltanto di rispettare «il cupo dolor» di un altro sconosciuto, che da qualche tempo il pastore ha accolto nella sua casa. Nel frattempo, i danesi Atkins e Rivers hanno individuato i due inglesi in incognito. Seguono la regina Amalia e il suo accompagnatore fin da Londra, sperando che le loro ricerche possano condurli ad Alfredo. Lo sconosciuto e proprio lui, Alfredo. Ha visto anche lui le schiere danesi avvicinarsi ed è assalito nuovamente dal timore di essere catturato prima di poter organizzare una riscossa. Ma dopo aver scacciato quei sentimenti negativi si prepara a vendere cara la sua cattura. Senti avvicinarsi qualcuno, si dispone a celare la sua vera identità e a trattenere l’atroce sofferenza che gli è causata da questa forzata clandestinità. Amalia ed Eduardo vengono introdotti nella capanna di Guglielmo Da Enrichetta, una contadina inglese, e da altre sue compagne.Amalia è impaziente di incontrare l’altro ospite sconosciuto, perché spera di poter riconoscere in lui il re che sta cercando. Quando finalmente il suo sguardo si incrocia con quello del misterioso straniero, per entrambi la gioia di essersi ritrovati è immediata. Atkins, che li ha seguiti fino a lì, fingendosi un inglese si avvicina alla capanna di Guglielmo. Il piano suo e di Rivers ha funzionato: seguendo Amalia, hanno intercettato il re in fuga. Sempre sotto mentite spoglie rivela al re che i danesi lo hanno scoperto e lo invita a lasciare il villaggio e a rifugiarsi altrove. Guglielmo si offre allora di guidarli per un sentiero nascosto fra le montagne; ma Atkins, che ha potuto ascoltare tutto, li precede e tende loro un’imboscata con le sue truppe: attende il drappello composto da Alfredo, Amalia, le due contadine Enrichetta e Margherita, e lo sorprende con i soldati armi in pugno. Tutto sembra perduto, ma ecco comparire un piccolo esercito di soldati e contadini inglesi, guidati da Eduardo e Guglielmo. Sono determinati e agguerriti, e riescono a sventare l’assalto e la cattura del re. I danesi battono in ritirata.
Atto II. Rinvigorito dal soccorso e dal sostegno ricevuti, Alfredo decide che è giunto il momento di riprendersi il suo regno. E inizia da lì, dal Somerset. Chiede a Guglielmo di raccogliere tutti coloro che voglio combattere al suo fianco. Nel veder crescere il morale del marito, Amalia manifesta la sua contentezza. Entrambi fanno propositi di condividere la sorte che li attende e si dicono sicuri di una futura vittoria. Alcune contadine vengono a riferire che sono in arrivo truppe britanniche sull’isola. Alfredo saluta allora Amalia e va incontro ai suoi uomini, mentre le contadine circondano la regina cercando di placare la sua agitazione. Margherita raccoglie la preoccupazione di Enrichetta per lo stato di ansietà della sua regina e fuga l’ansia di lei, che alla fine prorompe in un canto rasserenato. Le truppe sono tutte schierate: da un lato i militari inglesi, dall’altro bande di pastori armati, tutti desiderosi di combattere per il loro re. Eduardo li scalda annunciando l’arrivo di Alfredo. Quando il re compare, le schiere lo salutano battendo con entusiasmo le spade sugli scudi, e cantano un coro di lode. Alfredo, da parte sua, motiva i suoi uomini alla battaglia con un’orazione carica di passione, dopodiché si mette alla testa dei soldati, con Eduardo al fianco, mentre Guglielmo conduce le schiere di pastori. E tutti marciano con passo accelerato. Atkins, con una sparuta pattuglia di soldati danesi, osserva dal folto di una selva i movimenti militari del nemico inglese e manifesta la sua disdetta per il mutamento di stato d’animo di Alfredo. Il destino sembra aver rapidamente rovesciato in perdite i trionfi, ha scaraventato i danesi dalle «stelle» agli «abissi», dove sembra caduta anche la temuta Reafan (la bandiera della vittoria danese). Poi, alzando lo sguardo, Atkins vede poco distante tra la vegetazione Amalia, sempre seguita dalla fida Enrichetta. E decide di catturarla e sfruttarla come ostaggio. Assalita, Amalia coraggiosamente resiste. Impugna uno stilo, e malgrado Enrichetta cerchi di farla desistere, affronta Atkins a viso aperto. In quell’istante Eduardo, che è stato incaricato da Alfredo di proteggere Amalia, nell’attraversare con un drappello di soldati la selva, scorge Atkins e i suoi danesi mentre circondano la regina. Si lancia con i suoi uomini all’attacco, mette in fuga i nemici e cattura Atkins. Rivers si trova a coprire un altro fronte. È smarrito. Non ha notizie di Atkins e vede le truppe danesi soccombere sotto l’irruenza di quelle inglesi. È preso dal panico e fugge. L’esercito inglese marcia e canta il suo trionfo, acclamando il re. Alfredo ha Amalia al suo fianco ed è circondato dalle altre persone fidate, Enrichetta, Eduardo, Guglielmo. La regina è sopraffatto dalla gioia, ma dopo un iniziale momento di smarrimento, si lancia in un inno alla pace e a un futuro di felicità.

Mandandolo in scena per la prima volta in epoca moderna, il Festival di Bergamo offre a questo lavoro una prova d’appello e diciamo subito che il pubblico ha apprezzato sia la parte musicale sia quella visiva dello spettacolo, affidato a un non conosciutissimo Stefano Simone Pintor che ha saputo dare una lettura convincente a un’opera che rivela non pochi buchi drammaturgici. Proprio partendo da questo evidente difetto, Pintor ha ideato una messa scena che parte inizialmente da una esecuzione da concerto con gli spartiti in mano ai cantanti e al coro, per inserire a mano a mano i costumi dell’epoca, disegnati da Giada Masi. E allora le copertine in mano ai coristi diventano degli scudi con la croce rossa su fondo bianco. Partendo dalla figura del sovrano che promosse l’alfabetizzazione dei suoi sudditi, ecco i libri che piovono dall’altro nel video o sono sparsi in scena: la cultura contro la barbara violenza, la lettura contro il rogo delle biblioteche. 

Nella regia di Pintor i personaggi/interpreti si muovono con efficacia all’interno di una semplice struttura scenografica. Anche qui sullo stesso led wall de Il diluvio universale appaiono immagini reali, quali incendi, distruzioni e l’assalto a Capitol Hill (con il copricapo cornuto dello shamano che troveremo sulle teste dei danesi!), alternate a una grafica ironica ed elegante che utilizza i codici e le miniature dell’epoca. Ma la presenza delle immagini qui è molto meno invasiva e non distrae dalla musica come era invece successo nel Diluvio. 

Musica che si rivela sorprendente per bellezza e originalità: a momenti viene il sospetto che il Maestro Corrado Rovaris, che dirige l’Orchestra Donizetti Opera, si sia divertito a inserire pagine estranee, ma il fatto è che alcuni momenti richiamano un Rossini a venire – c’è infatti l’inno che troveremo nel Viaggio a Reims! – tanto è felice l’invenzione tematica e strumentale della partitura messa sapientemente in risalto dalla sua concertazione. Gli scatti ritmici delle marcette (alcune suonate da una grande banda in scena), i solenni toni degli inni, lo slancio delle cavatine, i colori degli strumenti, le gemme melodiche, la raffinata armonizzazione, tutto è reso con mano felice e l’equilibrio tra buca e voci sul palco viene mirabilmente realizzato. (1)

Al debutto di Alfredo il Grande nel 1823 nella parte eponima ci fu il celebrato baritenore bergamasco Andrea Nozzari. Qui Antonino Siragusa, cantante rossiniano per eccellenza, ne rileva la sfida senza problemi e dipana con sicuro squillo e infallibile tecnica la sua impegnativa parte. Al suo fianco Gilda Fiume (Amalia) è un torrente in piena di agilità, acrobazie, acuti e sovracuti, passaggi legati, note proiettate con potenza ma anche sensibili mezze voci nei momenti dolenti, il tutto espresso con timbro morbido e omogeneo nei passaggi di registro. La sua performance accende l’entusiasmo del pubblico che dopo il pirotecnico rondò finale decreta convinte ovazioni, estese anche agli interpreti secondari: Lodovico Filippo Ravizza, eccellente Eduardo; Adolfo Corrado, il possente barbaro Atkins; Antonio Garés, Guglielmo; Andrés Agudelo, Rivers. Enrichetta ha a disposizione un’aria eseguita con bello stile da Valeria Girardello mentre Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti, è Margherita. Non ultimo il valente coro della Radio Ungherese diretto da Zoltán Pad.

Quello che sembrava lo spettacolo meno attraente della rassegna bergamasca, dopo un dramma biblico e la versione francese di uno dei maggiori capolavori di Donizetti, non è solo un ripescaggio fortunato ma si è rivelato quello di maggior successo e uno dei migliori degli ultimi anni, tanto da convincerci che Alfredo il Grande abbia tutte le carte in regola per diventare un titolo di repertorio.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
Sinfonia
1. Introduzione Vieni Eduardo; Sventurata Britannia (Amalia, Eduardo, Enrichetta, Margherita, Guglielmo, Coro)
2. Cavatina S’inoltra alcun (Alfredo)
3. Coro Il lasso fianco chi vuol posar
4. Terzetto Sposo! … e fia ver (Amalia, Alfredo, Eduardo)
5. Finale Solingo è il sito, amici (Atkins, Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Alfredo, Guglielmo, Coro)
Atto II
[Prima del Duetto] Me avventurato! (Guglielmo, Enrichetta, Alfredo, Pastori)
6. Duetto Questa man che un dì sull’ara (Amalia, Alfredo, Coro di contadine)
[Dopo il Duetto] Dove, o compagna? (Enrichetta, Margherita)
7. Rondò Quando al pianto ed all’affanno?, Di pace in grembo (Enrichetta)
[Dopo l’Aria di Enrichetta] Anelaste, o Britanni (Eduardo)
8. Coro All’apparir dell’astro; Elettrica scintilla (Coro di truppe e pastori armati)
[Dopo il Coro] Si, vinceremo (Alfredo)
9. Aria Che più si tarda? All’armi!; Celeste voce ascolto; Al campo, alla vittoria!; Se questo, amico nume (Alfredo, Guglielmo, Eduardo, Coro)
[Dopo l’Aria] Ti basta, o fato iniquo? (Atkins, Amalia, Enrichetta)
10. Quintetto Traditor! Di un ferro ancora; Se al generoso Alfredo; Sommerso ne’ flutti di un mar tempestoso (Amalia, Enrichetta, Guglielmo, Eduardo, Atkins)
[Dopo il Quintetto] Ah, chi di Atkins mi reca qualche novella? (Rivers)
11. Coro Viva Alfredo! Il grande! Il prode! (Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Eduardo, Guglielmo, Contadine, Esercito inglese)
[Dopo il Coro] Al vostro braccio, o cari! (Alfredo, Amalia, Eduardo, Guglielmo, Margherita, Enrichetta)
12. Rondò Che potrei dirti, o caro; Torna a gioir quest’alma (Amalia, Coro)

Zoraida di Granata

Gaetano Donizetti, Zoraida di Granata

Wexford, O’Reilly Theatre, 24 ottobre 2023

★★★

(video streaming)

Tosca incontra Fidelio che incontra Lohengrin

Nella primavera del 1821 l’impresario Giovanni Paterni, responsabile dei teatri romani, si era rivolto a Mayr per una nuova opera. Il maestro bavarese aveva indicato in sua vece l’allievo prediletto sottolineandone la fantasia e la «facilità di estendere le idee». Per il ventiquattrenne Gaetano Donizetti era un’occasione da non perdere. Il testo di Bartolomeo Merelli, lo stesso librettista dell’Enrico di Borgogna, era tratto dal libretto di Luigi Romanelli per Abenamet e Zoraide di Giuseppe Nicolini del 1805, una storia del 1480 a ridosso della caduta del sultanato di Granada, e quindi della dominazione araba con la città lacerata dalla rivalità tra il clan degli abenceragi e quello degli zegri, vicenda tratta dal Gonzalve de Cordue (1791) di Jean-Pierre Claris de Florian che era stata utilizzata da Nicasio Álvarez de Cienfuegos per la tragedia Zoraida del 1798. In musica era già stata intonata oltre che da Nicolini da Luigi Cherubini (Les Abencerages ou L’Étendard de Grenade, 1807) e da Gaetano Rossi (Zoraida, 1816).

A meno di due settimane dal debutto Donizetti dovette eliminare tre numeri e adattare la parte di Abenamet a un “musico” cioè un contralto en travesti: durante le prove il giovane tenore Amerigo Sbigoli, ingaggiato per il ruolo di Abenamet, morì per aver cercato di superare il tenore rivale Donzelli (Almuzir), facendosi scoppiare un vaso sanguigno in gola. Non essendoci un sostituto, il suo ruolo dovette essere drasticamente ridotto e adattato al poco noto contralto Adelaide Mazzanti.

Nonostante gli inconvenienti, l’opera fu accolta trionfalmente. Sul settimanale romano “Notizie del giorno” del 31 gennaio 1822 la recensione annunciava «una nuova e lietissima speranza per il teatro musicale italiano […] il giovane Maestro Gaetano Donizetti […] si è lanciato con forza nella sua opera seria, Zoraida. Unanimi, sinceri, universali sono stati gli applausi che ha giustamente raccolto dal pubblico presente». Così presenta il lavoro Bernardino Zappa su Opera Manager: «La focosità dei sentimenti, il calore mediterraneo e il clima di accese passioni si vestono di una musica esuberante e aggressiva, generosa di espansioni melodiche e di acrobazie belcantistiche. L’ambientazione esotica viene incrementata anche da un reiterato cromatismo discendente, come nella cullante romanza notturna di Zoraida (Rose che un dì spiegaste). Formidabile virtuosismo e copiosi abbellimenti di bravura si trovano infatti in tutti i pezzi allora più acclamati. L’opera venne ripresa due anni più tardi, sempre a Roma, con una profonda revisione del libretto e della musica. L’eleganza della nuova veste poetica, opera del raffinato Jacopo Ferretti, non raccolse tuttavia analoghi entusiasmi di pubblico». Nella ripresa all’Argentina nel gennaio del 1824, Donizetti aveva infatti rivisto la partitura, ampliando ancora una volta il ruolo di Abenamet per mettere in mostra la bravura del contralto protagonista, Rosamunda Pisaroni-Carrara.

Zoraida porta il segno dell’influenza di Mayr sullo stile compositivo di Donizetti, ma ci sono segni della crescente consapevolezza di Donizetti delle innovazioni introdotte da Rossini. Numerosi sono i momenti musicali salienti: il trio del primo atto che si sviluppa in un quartetto, due arie meravigliosamente introspettive nel secondo atto, una per Abenamet quando è incatenato in prigione e l’altra, una romanza, per Zoraida quando è in giardino.

Atto I. L’azione si svolge nel 1480. Granada è nuovamente assediata dagli spagnoli. Il sovrano moresco Almuzir desidera Zoraida, la figlia del precedente re che ha rovesciato. Ma Zoraida ama il generale Abenamet, capo degli Abenceragi. Per separare i due, Almuzir fa gettare in prigione il suo rivale, ma i seguaci del popolare Abenamet non abbandonano il loro capo. Gli viene detto di rinunciare al suo amore per Zoraida, altrimenti verrà giustiziato. Gli spagnoli si ribellano e l’esercito moresco non vuole andare in battaglia senza il suo generale. Il sovrano rilascia a malincuore il suo rivale e gli consegna la bandiera con cui Abenamet deve andare in battaglia. La vittoria spetta ai Mori, ma la bandiera è scomparsa. Abenamet viene rimesso in prigione, perché la perdita della bandiera è punita con la morte.
Atto II. Zoraida è pronta a sposare Almuzir, perché questo potrebbe salvare la vita di Abenamet. A quest’ultimo rimane un solo desiderio: vuole vedere ancora una volta la sua amata e poi togliersi la vita. I due si incontrano di notte nel giardino dell’Alhambra e Zoraida riesce a dissuaderlo dal suo folle desiderio. Ma Aly, un ufficiale di Almuzir, scopre i due e Zoraida viene accusata di aver favorito la fuga e condannata a morte. La sua unica possibilità è in un volontario che se combatterà vittoriosamente per lei, le verrà concesso il dono della vita. Appare un misterioso cavaliere con una visiera nascosta e uno stendardo. Ferisce l’infido Aly, che ha introdotto di nascosto la bandiera moresca nell’accampamento spagnolo, all’insaputa di Almuzir, per accusare Abenamet della perdita. Il popolo reagisce indignato. Abenamet si rivela il misterioso cavaliere e difende Almuzir dal popolo infuriato. La folla invoca allora la morte per il re ma Abenamet lo perdona e questi, pentito, benedice l’unione dei due amanti.

Anche qui, come nel Fidelio beethoveniano, il secondo atto si apre con un uomo in catene che ricorda l’amore fedele della sua donna che viene poi a salvarlo. E c’è poi pure la tromba che risolve la situazione. I dodici numeri musicali della prima versione (1) sono una sapiente successione di arie solistiche e pezzi d’insieme che crescono di intensità man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta. Si tratta anche di un’opera di grande importanza, poiché il suo successo portò Donizetti a ottenere un contratto con l’impresario Domenico Barbaja che gli aprì la strada verso Napoli e un apprendistato di otto anni che lo lasciò pronto a sfondare con Anna Bolena alla Scala nel 1830.

Scegliendo la versione del 1822, con Abenamet tenore, nella nuova edizione critica di Edoardo Cavalli della Fondazione Teatro Donizetti, il 72° Wexford Festival Opera, assieme al festival Donizetti Opera, continua al di là della Manica la riscoperta dei titoli meno conosciuti del compositore di Bergamo: nel 1952 fu il WFO a riportare alla popolarità all’estero L’elisir d’amore mentre molto recentemente sono stati u casi di Maria di Rohan (2005), Maria Padilla (2009), Gianni di Parigi (2011) e Maria di Rudenz (2016). 

Rosetta Cucchi, direttrice artistica del festival irlandese, ha intitolato “Women & War” il cartellone del 2023 comprendente tre titoli che raccontano di donne in guerra: L’aube rouge di Camille Erlanger, La ciociara di Marco Tutino e, appunto, Zoraida di Granata. La guerra è d’attualità oltre che nella realtà anche nell’opera e nella sua ambientazione e il regista Bruno Ravella ha buon gioco a trasportare le vicende dalla Spagna del 1480 all’epoca della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo, distrutta dalle bombe. Lo scenografo Gary McCann aggiunge un tocco di moresco agli archi e alle colonne di questo luogo devastato dalla guerra al quale il pregevole gioco luci di Daniele Naldi aggiunge un tocco ulteriormente drammatico. Di McCann sono anche i costumi: un rigido doppio petto per il tiranno Almuzir, mimetiche militari per gli uomini, un abitino azzurro e uno bianco per la protagonista. Sono gli anni Novanta, ma potrebbe trattarsi della contemporaneità, di un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente della guerra, con la figura di Zoraida che cerca di tenere insieme qualcosa che sta crollando. La lettura del regista Bruno Ravella mette in luce l’inutilità della guerra: l’opera si conclude con una nota positiva, ma si capisce che molto è andato perduto.

Nato a Casablanca da madre polacca e padre italiano, Ravella ha studiato in Francia e lavora a Londra. Assistente di Robert Carsen e David McVicar, è alla sua seconda regia donizettiana dopo un Elisir d’amore in formato ridotto della Hampstead Garden Opera, la sua prima produzione, nel 2008. Grande cura è riservata alla scansione delle scene e alla recitazione dei cantanti, giovani dalla carriera ben avviata com’è il caso di Claudia Boyle, soprano irlandese la cui Zoraida ha qualche asperità nel timbro e dizione perfettibile con problemi per le consonanti doppie, ma l’espressività della cantante bene rende il dramma del personaggio e le agilità richieste dal ruolo trovano una felice realizzazione. L’intensa caratterizzazione ha i momenti migliore nell’ultima aria «Se non piango, o Dèi clementi» o nella suddetta lunga scena con aria «Rose che un dì spiegaste» che precede l’incontro con l’amato Abenamet, un Matteo Mezzaro scenicamente un po’ rigido ma dal mezzo vocale generoso seppure con un timbro povero di armonici. Il perfido Almuzir trova nel coreano Konu Kim una efficace definizione della complessità del personaggio nella sua aria «Amarla tanto! E perderla!» intonata con grande espressività e voce possente. Già apprezzato a Bergamo ne L’ange de Nisida, la sua è la performance più convincente della serata. Molto bene anche gli altri interpreti: Julian Henao Gonzalez è il subdolo Almanzor; Rachel Croash una trepida Ines; ma soprattutto Matteo Guerzé, un nobile Alj Zegri. Ottima prova è fornita anche dal WFO Chorus, qui tutto al maschile, diretto da Andrew Synnott.

Alla guida dell’orchestra del festival, non sempre impeccabilmente intonata, Diego Ceretta concerta sapientemente alternando le pagine più liriche alle strette più travolgenti riuscendo a dare un reale senso drammatico a questo giovanile lavoro di Donizetti che lascia presagire in più punti i futuri capolavori.

(1) Ecco lo schema delle due versioni:
Versione del 1822
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2 – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Ah! cessate… al mio dolore
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4 – Cavatina di Abenamet Pace, tormenti atroci! – Zoraida… in van ti chiamo – Piangere, amar, nulla sperar
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7 – Finale I Come volando il folgore (Coro, Zoraida, Ines, Almanzor, Abenamet, Almanzor, Alj)
Atto II
N. 8 – Aria di Abenamet Questo dunque è il mio brando – D’un fato spietato – Dove sperar più fede
N. 9 – Aria di Zoraida Ah dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N.10 – Terzetto fra Zoraida, Abenamet e Almuzir T’amo, sì, t’amai costante – Fuggi pur, tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla!
N. 12 – Coro e Aria Finale di Zoraida Nel fior degl’anni tuoi – Se non piango, o Dèi clementi (Coro, Alj, Almuzir, Zoraida, Ines, Abenamet, Almanzor)

Versione del 1824
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2a – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Speme d’un raggio amico
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4a – Coro e Cavatina di Abenamet Tremendo, ed infallibile – Era mia… m’amò… l’amai…
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7a – Finale I Inni al forte guerriero invincibile (Coro, Zoraida, Abenamet, Almuzir, Almanzor, Alj, Ines)
Atto II
N. 8a – Coro e Aria di Alj Fior d’ogni bella – Sì vi tradì la sorte (Coro, Almanzor, Alj)
N. 8b – Duetto fra Almuzir e Abenamet Là nel tempio, innanzi al nume
N. 9 – Aria di Zoraida Ah! dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N. 10a – Terzetto fra Abenamet, Zoraida e Almuzir Ah no. Se tu non parti – Fuggi pur; tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla! (Coro, Almuzir)
N. 12a – Coro e Aria Finale di Abenamet Nel fior degl’anni tuoi – Quando un’alma generosa (Coro, Abenamet, Zoraida, Ines, Almuzir)

 

Le nozze in villa

Gaetano Donizetti, Le nozze in villa

★★★★☆

Bergame, Teatro Donizetti, 22 novembre 2020

(live streaming)

 Qui la versione italiana

Mariage sur gazon à Bergame

Après les deux opéras de la maturité qui encadrent Lucia di Lammermoor (Marino Faliero qui la précède et Belisario qui la suit), le Festival Donizetti présente le « drama  buffo » en deux actes Le nozze in villa, troisième titre du copieux catalogue du compositeur, deux cents ans après sa première lors du premier carnaval de Mantoue en 1819.

Nous ne savons rien de plus sur cet ouvrage : il n’existe pas de partition autographe, le livret de la première a disparu, les journaux de l’époque n’en rendent pas compte et il n’en est fait mention dans aucune lettre. L’œuvre ne semble pas avoir rencontré le succès, bien qu’elle ait été reprise à Trévise et à Gênes avant de disparaître de l’affiche…

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Le nozze in villa

Gaetano Donizetti, Le nozze in villa

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 22 novembre 2020

(live streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Elio e le nozze tese

Dopo le due opere della piena maturità che incorniciano la Lucia di Lammermoor, il Marino Faliero che la precede e il Belisario che la segue, il Festival Donizetti Opera presenta il “dramma buffo” in due atti Le nozze in villa, il terzo titolo del suo copioso catalogo (1), a duecento anni di distanza dalla prima mantovana del carnevale 1819. Di più non si sa: non c’è la partitura autografa, non ci è pervenuto il libretto della prima, non ci sono recensioni sui giornali dell’epoca né se ne parla in qualche lettera. Non sembra fosse stato un successo, ma l’opera fu ripresa a Treviso e a Genova prima di sparire dai cartelloni.

«La partitura è complessivamente un esercizio di routine per impratichirsi nell’uso delle formule compositive dell’epoca, dal quale esula l’ispirazione» è il severo giudizio dell’Ashbrook su questo lavoro su libretto di Bartolomeo (o Bortolomeo o Bartolommeo o anche Bartolameo…) Merelli tratto dalla commedia Die deutschen Kleinstädter (1801, tradotto in italiano da Tommaso de Lellis come I provinciali) di August von Kotzebue, lo stesso da cui era stato tratto il libretto dell’Enrico di Borgogna sempre del Merelli.

Atto primo. Trifoglio, il maestro del paese, sta impartendo una lezione. Viene a cercarlo Petronio, il podestà. Ha deciso che Trifoglio sposerà sua figlia Sabina. Il maestro è scettico, perché Petronio non ha consultato la figlia. Sabina è triste, guarda il ritratto di Claudio, un giovane conosciuto in città di cui è innamorata, ma malgrado le tante promesse il giovane ancora non si vede. Entra Anastasia, la nonna. Sabina nasconde il ritratto, ma nulla sfugge alla nonna e Sabina si inventa che l’immagine ritrae il re che tutti amano, e Anastasia si impossessa del ritratto. Entrano allora Petronio e Trifoglio: il podestà presenta il maestro alla figlia come il suo futuro sposo, e questi si lancia in una sgangherata dichiarazione. Intanto arriva un messaggio che avverte Petronio dell’arrivo di un signore altolocato, Claudio. Sabina ha un trasalimento: è lui. Anastasia ha un mancamento: il forestiero è quello del ritratto di Sabina, dunque il re si trova nella loro casa. Mentre Sabina e Claudio si giurano fedeltà reciproca, sono interrotti da Petronio che prepara l’accoglienza al presunto sovrano. Claudio chiede lumi e tra la disillusione generale Sabina è costretta a spiegare l’equivoco.
Atto secondo. Petronio è furioso ma non cambia idea: Sabina sposerà Trifoglio. Fervono infatti i preparativi per le nozze. Nel frattempo Claudio è alle prese con Trifoglio: ai dubbi che il primo cerca di instillargli, l’altro risponde che è convinto dell’amore della sua giovane sposa. Ma anche Claudio sta aspettando inutilmente Sabina. Finalmente ella giunge e i due, nascosti dal buio della sera, si promettono di nuovo amore. Si sente una chitarra. È Trifoglio che fa una serenata alla futura sposa. Sopraggiungono tutti gli abitanti della casa, accendono una lanterna e colgono in flagrante i due amanti clandestini. A questo punto Trifoglio vuole un chiarimento. Il contratto non è firmato, la voglia di sposar Sabina gli è passata e in ogni caso chiede della dote. Petronio sciorina un elenco infinito: titoli, carte, cinquantotto parrucche, un pallone aerostatico e sei dozzine di occhiali, ma neanche un soldo. Trifoglio allora rompe il fidanzamento. Sabina riflette su quanto sta accadendo: non avrà né Trifoglio, che non voleva, né Claudio che ama. Ma Claudio non s’è arreso. Petronio s’è incaponito a tener la figlia ai suoi comandi. Però Claudio sa come ammorbidirlo: non pretenderà alcuna dote. E Petronio è vinto: Sabina sposerà Claudio.

Il linguaggio musicale del «giovin bergamasco» è ancora quello dell’opera napoletana rivisto con lo spirito di Rossini, allora l’operista più conosciuto, anche se l’influenza maggiore non può non essere che quella di Mayr, il maestro di Donizetti. Non un capolavoro, Le nozze in villa è comunque piacevole ed è giusto che un festival come questo lo faccia conoscere al grande pubblico. Il problema della perdita del quintetto del secondo atto è stato risolto in maniera inedita affidandone la scrittura a Elio e Rocco Tanica (sì, quelli del gruppo Elio e le storie tese…) con risultati più che accettabili: si sente che il pezzo non è d’epoca per il gioco di armonie, ma non stona neanche troppo.

A capo dell’orchestra Gli Originali con strumenti d’epoca Stefano Montanari sceglie un diapason a 430 Hz per rispettare la scrittura di una partitura che legge con la vivacità e insieme il rigore filologico che gli vengono riconosciuti. Al fortepiano Montanari provvede a fornire con molto gusto anche qualche nota di complemento ed è evidente la sua cura nel non coprire i cantanti che per di più hanno la difficoltà di avere il maestro concertatore quasi sempre alle spalle – lo spettacolo è a 360 gradi e non c’è la frontalità del palcoscenico, ma questo non sembra un grosso intralcio per degli interpreti scaltriti come quelli presenti.

Elegante e ironico come sempre, il baritono Omar Montanari presta la voce al Podestà Don Petronio. «Ombre degli avi miei» è l’aria con cui emula il rossiniano Don Magnifico de La cenerentola di due anni prima. Fabio Capitanucci è il poeta Trifoglio, qui un wedding planner alla Enzo Miccio in outfit coloratissimi. Anche lui offre una resa vocale convincente del suo pomposo personaggio a cui il librettista fa declamare versi strampalati quali «Oh tu, Cupidine | d’amore artefice […] Auricrinito Apolline | dal bel Castaglio margine […] alla Parrasia cima…». L’eccellente stilista Gaia Petrone è Sabina, in veste di fotografa di matrimoni, a cui il compositore dedica le pagine più virtuosistiche come la cavatina «Sospiri del mio sen» nel primo atto e l’aria con coro del secondo «Non mostrarmi in tale istante». Timbro piacevole e felici agilità sono le caratteristiche del giovane mezzosoprano. Agilità e puntature anche per il Claudio di Giorgio Misseri, che risolve brillantemente gli acuti nei suoi interventi tra quello di «Affetti teneri» accompagnato dal clarinetto. Manuela Custer porta la sua esperienza nell’ironica parte della Nonna. Assieme a Claudia Urru (Rosaura) e Daniele Lettieri (Anselmo) sono a loro volta impegnati nei tanti numeri di assieme, compreso il ricostruito quintetto “Aura gentil che mormori” e lo sbrigativo finale quando, come in un’opera barocca, tutti entrano in scena per cantare la morale «d’amore al dolce incanto | mai contrasto non vi fu | quando unite assiem si vede | grazia, fede, e gioventù», mielosa come i fondali delle foto degli sposi e falsa come l’erba della platea del teatro Donizetti nel divertente spettacolo affidato al regista Davide Marranchelli, che si avvale delle scene di Anna Bonomelli e dei costumi di Linda Riccardi. La platea è diventata un prato di erba sintetica su cui dei ragazzotti giocano a calcio prima di essere richiamati dal maestro Montanari che si fa dare la palla e inizia la sinfonia dell’opera mentre il parterre si riempie di cigni fatti con i palloncini, fotografi e spose sempre più nervose: l’ambiente per la lepida vicenda è infatti una di quelle location che si affittano per i matrimoni. Per rispettare le misure sanitarie tutti si tengono a debita distanza, indossano i guanti e usano la mascherina quando non cantano, ma compensa le limitazioni la scioltezza degli attori-cantanti molto ben istruiti dal regista che attualizza ironicamente gli elementi della farsa.

Con Le nozze in villa termina gloriosamente il Festival Donizetti Opera che è riuscito in tempi calamitosi come quello che stiamo vivendo a rispettare quasi completamente il programma previsto, un risultato sorprendente e che fa onore alla città di Bergamo, che tra l’altro è stata tra le più duramente colpite dalla pandemia. Sono esempi come questi che offrono un po’ di ottimismo per il nostro sventurato paese.

(1) Di Una follia, la farsa che segue l’Enrico di Borgogna, sono andati perduti sia il libretto sia la partitura.

Enrico di Borgogna

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fotografie © Skill&Music

Gaetano Donizetti, Enrico di Borgogna

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2018

Donizetti #1

Dopo la “scena lirica” Il Pigmalione, l’Enrico di Borgogna è dunque la prima vera opera del copioso catalogo donizettiano, una settantina di opere complete più una ventina in una seconda revisione. Al ritmo di due produzioni l’anno il Festival Donizetti di Bergamo ha ancora la possibilità di offrire per molti decenni qualche interessante scoperta dei lavori del suo illustre concittadino. Quest’anno è la volta dell’Enrico di Borgogna che va in scena al Sociale esattamente duecento anni dopo il suo debutto al Teatro Vendramin San Luca di Venezia nel  novembre 1818.

Tratto da Der Graf von Burgund di August von Kotzebue, singolare drammaturgo e impresario teatrale di fine Settecento, il testo di Bartolomeo Merelli mantiene ben poco dell’originale e bene ha fatto la Fondazione Donizetti a stampare sul suo 53° quaderno, nella traduzione di Lorenzo Schabel, anche il testo del dramma del Kotzebue per un utile confronto col libretto.

Atto I. Nei boschi della Borgogna, mentre i pastori inneggiano all’alba, il solitario Pietro piange sulla tomba della moglie Agnese, invano rallegrato dai suoi vicini di casa. I pastori sanno che egli nasconde un segreto, che però si rifiuta di svelare: il vecchio Pietro infatti teme sempre per la sicurezza del figlio Enrico, che, nel frattempo si aggira per i boschi alla ricerca dell’amata Elisa, di cui non ha più notizie da tempo. La calma boschereccia viene interrotta bruscamente da una vecchia conoscenza di Pietro, Brunone, proveniente dalla corte di Arles con importanti notizie: Ulrico, l’usurpatore del trono di Borgogna, è morto, e regna il figlio Guido; il momento è quindi propizio per rovesciare la tirannide e far tornare il legittimo erede, nientemeno che Enrico, figlio del defunto re Alberto. Brunone e Pietro svelano la verità a Enrico, che riceve la spada del padre: i tre giurano vendetta contro i nemici e muovono alla volta di Arles. Qui nel frattempo, mentre Guido interroga il buffone Gilberto sui pareri del popolo sul suo governo, Elisa si strugge nella malinconia: promessa sposa dal padre morente a Guido, ha dovuto abbandonare e fuggire l’amato Enrico. Nonostante il giuramento fatto al padre, Elisa non può nascondere il disprezzo che nutre verso Guido e non esita a rinfacciarglielo ad ogni occasione, incurante delle minacce dello spasimante. Guido affretta la cerimonia. Elisa viene quasi condotta a forza all’altare, ma il suo svenimento improvviso blocca la marcia nuziale: nella folla riunita fuori dalla chiesa riconosce Enrico, giunto con Pietro. Guido si accorge del turbamento della promessa sposa, e ordina ai due stranieri di lasciare la città al più presto.
Atto II. Mentre Brunone e Pietro convincono i nobili borgognoni a vendetta contro Guido, Enrico si strugge di gelosia e tramite il buffone Gilberto riesce ad entrare nella reggia. Elisa continua a rinfacciare a Guido il suo rifiuto a sposarlo, anche di fronte alle minacce di morte. Enrico riesce a incontrare Elisa sola nelle sue stanze e l’accusa di infedeltà. La donna riesce comunque a spiegare all’amato della promessa fatta al padre e i due si riconciliano. Proprio in quel momento arriva Guido, che fa arrestare Enrico e minaccia di punire anche Gilberto, per cui Brunone chiede invano pietà. Nemmeno la rivelazione di Pietro circa la vera identità di Enrico ferma il tiranno: Guido fa arrestare gli intrusi e separa a forza i due amanti. La prigionia di Enrico dura comunque poco: i nobili si ribellano, liberano i prigionieri. Guido, tradito e abbandonato, si prepara ad affrontare la sorte. Enrico, acclamato e portato in trionfo, può finalmente sedere sul trono paterno.

Così scrive l’Ashbrook: «L’opera può essere chiamata semiseria soltanto perché contiene un ruolo buffo (Gilberto), ma in realtà è un’opera eroica, prevedendo un ruolo di musico per il protagonista [il mezzosoprano Fanny Eckerlin] ed essendo il ruolo buffo del tutto marginale. Ciò che più colpisce in Enrico è la sostanziale identità del tema della cabaletta del primo atto con la famosa melodia di Anna Bolena “Al dolce guidami”. L’opera è svantaggiata da un libretto che oscilla fra l’enfatico e il ridicolo. Più ampie rispetto al Pigmalione, le forme musicali sono tuttavia convenzionali nel disegno. Le melodie vocali sono generalmente fluide, ma mancano di spicco, con frequenti passaggi di coloratura (per tutti i registri) di carattere più virtuosistico che introspettivo. L’influsso di formule rossiniane si nota in molti punti, come per esempio nel rondò di Enrico “Mentre mi brilli intorno” con i suoi simmetrici gruppetti di semicrome contigue». Non c’è solo Rossini però dietro l’Enrico, anche al maestro Mayr il giovane Donizetti deve qualcosa. Continua l’Ashbrook: «Questa partitura contiene i primi esempi di ensemble donizettiani, il migliore dei quali è il vigoroso terzetto alla fine della prima scena». Lo studioso americano così conclude il suo giudizio: «Enrico è un misto di talento e di inesperienza, senza però essere un dramma interessante».

Come “dramma” in effetti interessante non è e geniale è stata l’idea della regista Silvia Paoli di mettere da parte l’improbabile vicenda e concepire invece lo spettacolo come una rappresentazione, giocata tra ironia e nostalgia, della prima veneziana in cui la prima donna, la debuttante Adelina Catalani, ebbe un mancamento per davvero nel punto in cui con «scenica scienza» doveva svenire alla vista del suo Enrico alla fine del primo atto. Così molti dei pezzi del secondo atto furono tagliati e dopo le poche repliche l’opera non fu mai più ripresa fino al 2012.

Sul palcoscenico del Sociale di Bergamo ecco quindi costruito un teatrino di legno il cui frontone riporta a chiare lettere il nome del San Luca. Montato su una pedana rotante permette, a noi spettatori, di vedere la scena da dietro, dai lati e dal davanti. Come nelle Convenienze e inconvenienze teatrali assistiamo al backstage e alla rappresentazione stessa, con l’affanno dell’impresario, le bizze dei cantanti, i loro dispetti e i goffi cambiamenti di scenari, qui ironicamente ricostruiti nel gusto dell’epoca, con alcuni particolari buffi quali le tacche dei giorni che passano segnate da Elisa sulla tappezzeria della parete della sua camera. Durante l’ouverture assistiamo alla distribuzione delle parti: quella di Enrico rimane vacante ed ecco che ne viene incaricata, nolente, una cantante donna. Ecco spiegato il ruolo en travesti del personaggio titolare!

Molti sono i momenti di puro divertimento dovuti al contrasto tra la musica saltellante e i versi trucibaldi del librettista, come nella scena della congiura: «Cupo orror qui sol risiede… | deh! tu copri co’ tuoi vanni | notte amica il gran dissegno… | il sospetto de’ tiranni | nel tuo sen non volga il piè». Non manca il tipo in costume da orso che, vanitoso, si intromette ad aumentare lo scompiglio in scena nei momenti più convulsi. Si pensa a Mozart nella prima aria di Enrico che «scendendo dalla montagna con una rete di pescatore» sospira l’amata lontana: «Care aurette che spiegate | lievemente i vanni d’oro, | deh! Volate al mio tesoro, | poi mi dite ove s’aggira… | se sospira ancor per me». Per poi trovarci invece nel Tancredi rossiniano con «Ma tornerà!… Lo rivedrò!… | M’abbraccierà!… L’abbraccierò!…». Gilberto è una specie di Leporello, completo di tirata misogina: «È la donna un gran volume, | che stracciato ha il frontispizio; | è ben stolto chi presume | dar dell’opera giudizio | se pria all’indice non va».

La partitura di questa prima gemma donizettiana è messa in luce da Alessandro De Marchi e dalla sua Academia Montis Regalis schierata nella buca rialzata quasi a livello della platea, mentre giù sotto il palcoscenico rimangono timpani e ottoni per il rumoroso finale. Messe in conto le eventuali imperfezioni di intonazione dovute agli strumenti antichi, De Marchi dipana le accattivanti melodie con mano leggera ma ritmo adeguato e concerta magistralmente i divertiti interpreti.

Pienamente a suo agio Sonia Ganassi, Elisa sospirosa in scena quanto aggressiva tra le quinte; Francesco Castoro è Pietro, il vecchio padre, qui però un tenore dal timbro un po’ leggero; Luca Tittoto presta la sua nobile voce di basso e la sicura presenza scenica al personaggio di Gilberto; basso-baritono è Lorenzo Barbieri, signorile Brunone; un po’ isterico il Guido di Levy Sekgapane, ma vocalmente agile. Infine nel personaggio in breeches di Enrico, Anna Bonitatibus è vocalmente efficace come sempre. Con l’apporto scenico di Andrea Belli, gli ironici costumi settecenteschi di Valeria Donatella Bettella, le luci di Fiammetta Baldisseri e il vivace coro Donizetti Opera, istruito da Fabio Tartari, in veste carbonara in lotta contro l’oppressore del momento (gli Asburgo), la serata si è conclusa festosamente con grandi applausi dal pubblico divertito.

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