Charles Duveyrier

I Vespri siciliani

Giuseppe Verdi, I Vespri siciliani

Torino, Teatro Regio, 6 luglio 2023

(esecuzione in forma concertistica)

I Vespri, 50 anni dopo per il Concerto di Gala

Il 10 aprile 1973 si apriva a Torino il Nuovo Teatro Regio, 37 anni dopo l’incendio che aveva distrutto la gloriosa sala settecentesca di Benedetto Alfieri. Il fuoco aveva salvato solo la facciata su piazza Castello e dietro quella facciata ora si celava uno degli edifici più audaci e tecnologicamente all’avanguardia tra i teatri italiani, opera del visionario architetto Carlo Mollino.

Per l’inaugurazione era stato scelto Les Vêpres siciliennes, il lavoro presentato nella sala Le Peletier il 13 giugno 1855, la prima opera in francese di Giuseppe Verdi, essendo la precedente Jérusalem l’adattamento per Parigi de I Lombardi alla prima crociata. Verdi si era premurato fin dall’inizio che il contratto prevedesse la firma di Eugène Scribe, il librettista per antonomasia del genere allora in gran voga, il grand-opéra. A Scribe si affiancherà poi Charles Duveyrier, drammaturgo, filosofo e ideologo del sansimonismo. Dopo le 62 repliche parigine, Les Vêpres siciliennes conobbero i successi europei e sudamericani nella versione italiana di Arnaldo Fusinato, «più esportabile». In Italia, per questioni di censura – il soggetto di un’insurrezione armata del popolo era fuori discussione –, l’opera dovette cambiare titolo e vicenda diventando Giovanna de Guzman (Teatro Regio di Parma) ambientata nel barocco portoghese, Batilde di Turenna (Teatro di San Carlo di Napoli) nel medioevo francese, ma anche Giovanna di Braganza e Giovanna di Sicilia! Solo con l’unificazione del paese nel 1861 l’opera poté riprendersi il titolo originale.

Per l’inaugurazione del Nuovo Regio l’allora sovrintendente Giuseppe Erba aveva avuto il colpo di genio di chiamare alla regia la mitica Elena degli anni ’50, Maria Callas, affiancata dall’inseparabile Giuseppe Di Stefano e per la parte visiva l’artista Aligi Sassu. Colpo geniale dal punto di vista mediatico e pubblicitario, la messa in scena destò invece qualche perplessità e la produzione non fu mai più ripresa. Per un altro storico avvenimento, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011, fu scelto ancora una volta lo stesso titolo ma nell’altrettanto discusso ma geniale allestimento di Davide Livermore che ambientava la vicenda ai tempi nostri con l’immagine della strage di Capaci come sfondo alla scena dell’arrivo di Giovanni da Procida. Tra l’altro, quella sarebbe stata l’ultima fatica del regista torinese nel teatro della sua città che da allora non ha ancora spezzato l’ostracismo nei suoi confronti – Livermore nel frattempo ha avuto modo di consolarsi con le prime alla Scala e le innumerevoli produzioni negli altri teatri sia in Italia che all’estero.

Per festeggiare il cinquantenario del teatro, l’attuale sovrintendenza ha organizzato una ricca messe di manifestazioni di cui l’esecuzione de I Vespri siciliani è il piatto forte. Sul programma di sala, nel brillante e caustico intervento del mai abbastanza rimpianto Carlo Majer, viene definita «cattiva traduzione di un buon libretto francese» la versione italiana de Les Vêpres siciliennes. E come dargli torto mettendo a confronto il minaccioso primo coro dei siciliani «a mezza voce» dell’originale che nella traduzione diventa quello che Majer chiama «maldestro tentativo di gramelot. […] Soltanto la Caballé, o un programma di scrittura automatica, o ancora una persona geneticamente sprovvista di gusto e autoironia potrebbero scodellare un distico come “Oh dì di vendetta, | men lento t’affretta”». Ciononostante, e in controtendenza con quanto avviene comunemente – le recenti produzioni della Carrasco a Roma e della Dante a Palermo erano entrambe nella versione originale mentre all’estero neanche ci si pone il problema –, qui viene adottata la versione italiana per questa esecuzione in forma di concerto affidata alla bacchetta di Riccardo Frizza a capo dell’orchestra del Teatro. Il risultato è tra i più felici musicalmente: «la variété somptueuse, la sobriété savante de l’orchestration», che tanto avevano colpito Hector Berlioz a Parigi, qui trovano perfetta realizzazione. I Vespri in Italia non hanno avuto una grande considerazione critica. Mila la considerava «un’opera a situazioni, anziché un’opera a personaggi […] fantocci convenzionali […] dopo caratteri così concretamente umani come Rigoletto, Azucena e Violetta». Ma lo stesso musicologo ammetteva che il «confronto, certamente svantaggioso, dei Vespri siciliani coi tre capolavori che li precedono non può avvenire sullo stesso piano. Valgono meno, eppure sono più avanti: manifestano la ricerca di un nuovo ideale drammatico, sono il primo passo lungo un itinerario artistico in fondo al quale si troveranno il Don Carlo e l’Aida». Con I Vespri Verdi diventa «un uomo nuovo», che sa adattarsi alle esigenze delle piazze straniere, particolarmente Parigi: dopo la settecentesca fortuna del melodramma italiano esportato a scatola chiusa, ora esigevano dagli operisti un impegno compositivo maggiore nella strumentazione e nell’armonia. Frizza ha ben chiaro tutto questo e fin dalla sinfonia, un brano di raffinata composizione che si stacca da tutte le precedenti ouverture per complessità formale e per il trascinante effetto sull’ascoltatore, comunica la sua volontà di realizzare al meglio le intenzioni del compositore, quello che poi avviene nel corso dell’opera nei momenti più strumentali in cui si ammirano i solisti di un’orchestra in stato di grazia e nella concertazione con i cantanti, in perfetto equilibrio con la compagine orchestrale. Tempi e volumi sonori sono sempre ben scelti e il giusto tono del grand-opéra non inficia la personalità di un compositore all’apice della sua carriera artistica.

Due personaggi maschili dalla voce grave dominano nell’opera: Guy de Monfort, governatore di Sicilia per Charles d’Anjou, re di Napoli, e Giovanni da Procida, medico della scuola salernitana e proscritto. Il primo è il capo degli oppressori, che però rivela doti di umana pietà quando scopre nel nemico Arrigo il figlio e impone il suo matrimonio con la duchessa Elena come mezzo di rappacificazione tra le fazioni rivali; il secondo si presenta come nobile esule che arriva al sacrifico della sua vita per la patria, ma si rivela anche cinico manipolatore sfruttando il matrimonio di pace come segnale per scatenare la rivolta popolare. Per due personaggi così complessi e articolati sono richiesti due interpreti di eccellenza che qui hanno avuto i nomi di Vladimir Stoyanov e Michele Pertusi. Il baritono bulgaro ha spiegato il suo sontuoso mezzo vocale per tratteggiare magistralmente in chiaro e scuro la personalità di Monfort con risultati eccellenti mentre il basso parmense ha confermato il miracolo di una carriera che non conosce gli anni e che ogni volta stupisce per intensità espressiva, eleganza della frase, ampiezza di registro e sonorità delle note basse. Il canto legato indissolubilmente alla parola trasforma ogni suo intervento in una lezione di recitazione e l’ha ben compreso il pubblico che ha tributato ovazioni al termine di «O tu, Palermo, terra adorata». 

Meno spessore ha il personaggio di Henri (Arrigo nella versione italiana), giovane siciliano, qui con la voce dal timbro luminoso, seppure un po’ povero di armonici, di Piero Pretti, cantante dotato di squillo potente e a suo agio negli acuti. Più che a rendere maggiormente empatico il suo personaggio, il tenore sardo ha puntato alla fluidità dell’esecuzione in cui ha dimostrato le sue indubbie doti vocali, il fraseggio appropriato, l’omogeneità della tessitura. Neanche Roberta Mantegna possiede un timbro ammaliante, anche se il vibrato aggiunge una sorta di trepidazione alla sua Elena, personaggio che passa da momenti di intensa drammaticità allo sfoggio vocale della “siciliana” del quinto atto, tutti correttamente eseguiti. Di ottimo livello di sono dimostrati gli altri interpreti tra cui abbiamo ritrovato Irina Bogdanova, Artista del Regio Ensemble, come Ninetta; l’elegante e autorevole Amin Ahangaran, Artista International Opera Studio Opernhaus Zurigo, come Sire de Béthune; il Comte de Vaudemont di Emanuele Cordaro; il Danieli di Francesco Pittari; il Tebaldo di Paolo Antognetti; il Roberto di Lodovico Filippo Ravizza e il Manfredo di Lulama Taifasi, altro Artista del Regio Ensemble. Impegnati come francesi, siciliani, cavalieri, giovinette e voci interne per il De profundis, i coristi del teatro istruiti da Ulisse Trabacchin hanno avuto vari momenti di gloria in un lavoro che li ha messo spesso in gioco.

La serata ha avuto un esito calorosissimo da parte di un pubblico che ha gremito il teatro nonostante la stagione non delle più propizie e confortando così il lavoro che attende la soprintendenza per riportare il Regio di Torino a un teatro di livello e di interesse internazionale.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

Palermo, Teatro Massimo, 20 gennaio 2022

★★★☆☆

(diretta streaming)

Siciliani al cubo i Vespri antimafia di Emma Dante

Siciliana la vicenda, siciliano il luogo di rappresentazione, siciliana la regista: Les Vêpres siciliennes inaugurano la stagione del Massimo di Palermo nel trentennale delle stragi di mafia e venticinque anni dopo la riapertura del teatro. Una forte messa in scena esalta la «beauté qu’on outrage» della città dell’ex conca d’oro: è la Palermo di oggi a fare da sfondo alle vicende che nel 1282 videro i palermitani rivoltarsi contro gli allora oppressori francesi. Oggi è la stessa città che si rivolta contro l’oppressione della mafia: Hélène porta un drappo con l’effigie di Paolo Borsellino invece del fratello e a questo si aggiungono in processione quelle dei santi laici che si sono opposti e sono caduti: Giovanni Falcone, Peppino Impastato e le tante altre vittime. L’aveva già fatto Davide Livermore nel 2011.

Durante la sinfonia una carrettata di pupi viene scaricata sul proscenio. Inerti, prendono poi vita prima che il sipario si apra sulla Fontana Pretoria (la scenografia è al solito affidata a Carmine Maringola) di cui occupano la scalinata con i loro movimenti da burattini, per poi finire agonizzanti tra i rifiuti che ne lordano la bellezza marmorea. Una ballerina sulle punte esegue il primo ballabile nel poco spazio lasciato libero da sacchi neri e oggetti abbandonati. I divertissement sono infatti distribuiti nei vari atti e ognuno è una denuncia contro la presenza e l’attività delle cosche. Dall’alto, assieme alla barca che porta Procida scendono anche le lapidi con i nomi delle strade e delle piazze che sono state il palcoscenico delle tante stragi mafiose. Immagini particolarmente forti e piene di significato qui nel capoluogo siciliano.

Ben venga che Emma Dante intrida il grand-opéra di sicilianità (o meglio palermitudine) riempiendo il palcoscenico di figure iconiche – teste in terracotta di Caltagirone, coppole, santa Rosalia, la barca “Rosalia” sospesa in aria, reti per la mattanza dei tonni che qui servono per lo sterminio degli invasori francesi alias mafiosi – e le prevedibili autocitazioni – donne che spargono acqua con i capelli, spose chiuse in sacchi neri di plastica, stuprate, tarantolate – ma manca una lettura psicologica dei personaggi e una cura attoriale degli stessi. “Particolari” i costumi di Vanessa Sannino con i siciliani in gonna e camicie di pizzo, Guy de Monfort come vestito da Versace, i guappi in tute di acrilico.

Omer Meir-Wellber, che aveva diretto l’opera a Monaco di Baviera nel 2018, attuale direttore musicale del Teatro Massimo, approccia con molto vigore la sinfonia, poi la sua direzione diventa un po’ incerta, oscillando tra il Verdi infuocato della trilogia popolare e il grand’opéra. Soprattutto accetta molti tagli, anche nei ballabili sparsi tra i vari atti e sfoltiti dell’Inverno, con l’Autunno trascritto per un trio di gusto klezmer formato da clarinetto, fisarmonica e contrabbasso, la Primavera ridotta al solo andante e anche l’Estate, eseguita nel punto previsto dalla partitura però accorciata. Il quartetto di solisti ha la sua punta più convincente nel Monfort del baritono Mattia Oliveri autorevole vocalmente e scenicamente. Anche Selene Zanetti, a parte un certo vibrato, sostiene lodevolmente e con temperamento l’impegnativa parte di Hélène. Erwin Schrott (Procida) sostituisce all’ultimo momento il basso Luca Tittoto indisposto con ottimi risultati e senza scadere nell’eccesso di gigioneria sempre in agguato con questo interprete. Deludente invece la performance del tenore Leonardo Caimi. Omogenea e di buon livello la folta schiera dei comprimari di cui ricordiamo almeno Carlotta Vichi (Ninetta), Matteo Mezzaro (Thibault) e Francesco Pittari (Danieli). Ottimo lavoro anche quello del coro diretto da Ciro Visco. Oltre ai ballerini del corpo di ballo del teatro coreografati da Manuela lo Sicco, sono in scena gli efficaci attori della Compagnia Sud Costa Occidentale.

Alcuni prevedibili dissensi sono stati coperti dai folti applausi del pubblico. Lo spettacolo è co-prodotto col Teatro San Carlo di Napoli, il Comunale di Bologna e il Real di Madrid, ma questo era il posto giusto per vederlo.

 

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 10 December 2019

   Qui la versione italiana

Verdi’s first French opera opens the operatic season in Rome

Three days after the Teatro alla Scala, Roman socialites put on their evening dresses and tuxedos for the opening of their opera season, a social event that nevertheless does not match the frenzy of the Milan prima. This year the Opera di Roma opened with Les Vêpres siciliennes, in the original French version which is not frequently seen in Italian houses.

Verdi lived in an environment influenced by French culture, drawing inspiration for many of his works from the French theatre and in the Grand Opéra he saw the chance to breathe new life into Italian opera. His thirty trips to Paris testify to this commitment…

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Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 10 dicembre 2019

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Il Verdi francese apre la stagione dell’Opera di Roma

Tre giorni dopo l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, anche a Roma si sfoggiano abiti da sera e smoking per l’apertura del suo Teatro, un’occasione anche questa mondana anche se non raggiunge la frenesia che pervade Milano il 7 dicembre. L’Opera di Roma apre con un titolo non tra i più popolari di Verdi e per di più nell’edizione originale francese, Les Vêpres siciliennes, versione non frequente nei teatri italiani.

Vissuto in un ambiente influenzato dalla cultura francese, il compositore ha tratto dal teatro francese ispirazione per molte sue opere e anche quelle di soggetto scespiriano sono state conosciute attraverso le traduzioni francesi dell’epoca. Nel grand-opéra poi Verdi aveva visto la possibilità di svecchiare il melodramma italiano e i suoi trenta viaggi a Parigi testimoniano questo suo impegno. Verdi era andato una prima volta nella capitale francese nel 1847 per l’allestimento della Jérusalem (rielaborazione in chiave di grand-opéra de I lombardi alla prima Crociata) e nel 1855 ci era ritornato per una nuova produzione, Les Vêpres siciliennes appunto, primo di un progetto per “la grande boutique”, così Verdi chiamava l’Opéra di Parigi. In Italia il lavoro giungerà pochi mesi dopo, ma a causa della censura verrà rappresentato in una versione italiana con altro titolo e con la vicenda ambientata oltre le Alpi. Il soggetto originale di Scribe era infatti considerato troppo patriottico! Solo più tardi fu accettato nella versione correttamente tradotta I Vespri siciliani.

La produzione romana mette in campo Daniele Gatti, nuovo direttore musicale del teatro, e una squadra di eccellenti interpreti. Il maestro Gatti legge la partitura in tutta la sua magnificenza: l’orchestrazione dei Vêpres è molto più elaborata che non nelle precedenti opere di Verdi e la forma, dilatata a cinque atti, comprende pezzi di assieme e numeri corali di grande complessità, qui magistralmente risolte. Il tono scuro della vicenda è evidenziato dal direttore fin dalle prime note della sinfonia che è quasi un poema sinfonico in cui vengono esposti molti dei temi che saranno ascoltati in momenti cruciali dell’opera, quasi una sintesi drammatica dell’intera vicenda. Qui Gatti esalta i colori e la varietà dei timbri strumentali come farà in seguito nei pezzi pittoreschi della tarantella del secondo atto e della siciliana/bolero del quinto. Nella lettura di Gatti si nota il lavoro di approfondimento fatto con un’orchestra che non sempre ha brillato per la sua disciplina.

Tre dei quattro interpreti principali sono maschi in quest’opera, un tenore e due baritoni. Nella parte di Henri, il siciliano ribelle che scopre di essere il figlio dello spietato governatore francese, John Osborn incanta con una voce sempre duttile nel sottolineare gli opposti sentimenti che animano il giovane. Anche nei momenti più drammatici il cantante americano mantiene uno stile e un’eleganza ineccepibili. Un momento di grandissimo pathos è il suo duetto con il padre, qui un Roberto Frontali che recita con un’asciuttezza che rende ancora più efficace la parte. Il passaggio da inflessibile tiranno a quello di padre amorevole che ha ritrovato il figlio viene delineato con molta sensibilità. Quella di Procida è invece una parte molto più compatta, essendo l’odio e il desiderio di vendetta gli unici motori delle sue azioni, ma Michele Pertusi riesce comunque a rendere credibile il personaggio con una autorevolezza vocale sorprendente e una imponente presenza scenica. Schiacciata tra tanti uomini la figura di Hélène riesce ad emergere grazie alle vigorose pagine che Verdi scrive per lei e alla autorità vocale di Roberta Mantegna. Nel suo intervento del primo atto che diventa un sottinteso invito alla ribellione («Ne perdez pas courage! Veuillez être sauvés, et Dieu vous sauvera!») le agilità belcantistiche si affiancano al temperamento del soprano palermitano cui manca solo appena un po’ più di volume per essere ancora più convincente. Il timbro e il piacevole vibrato sono messi in evidenza anche nel bolero dell’ultimo atto («Merci, jeunes amies») che in questo allestimento perde qualsiasi connotato di felicità per sottostare alla lettura della regista argentina Valentina Carrasco che della vicenda sottolinea la violenza del potere sui deboli, soprattutto le donne.

L’ambientazione passa dal 1282 della dominazione francese ai giorni nostri, con i vestiti moderni di Luis F. Carvalho e l’efficace gioco luci di Peter van Praet. Non convincenti le scenografie di Richard Peduzzi, consistenti in grigi volumi semoventi che non evocano facciate di palazzi palermitani. Grigia è anche la regia della Carrasco che insiste anche troppo sul tema della violenza sulle donne e sulla presenza del fantasma della madre di Henri e di altre figure femminili non meglio identificate. Alla regista riesce invece di risolvere il problema del balletto, immancabile al terzo atto in un grand-opéra. Momento di distrazione dal dramma, spesso si tratta di un divertissement del tutto avulso dalla trama dell’opera. Qui Verdi e i librettisti inseriscono i ballabili all’interno della festa nel palazzo del governatore, ma nella lettura attuale della Carrasco un balletto classico non avrebbe avuto senso. E sarebbe stato anche un peccato privarsi delle bellissime pagine scritte dal compositore. Ecco allora le spose oltraggiate del primo atto che ritornano e si lavano in scena, scherzando con l’acqua nei secchi, unico momento gioioso nella tragedia della vicenda e che si è collegato al ballo che segue con perfetta logica drammatica.

Questo però non è piaciuto a parte del pubblico che avrebbe preferito un balletto sulle punte e che ha applaudito calorosamente i cantanti ma ha riservato alla regista qualche dissenso.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

Monaco, Nationaltheater, 18 marzo 2018

★★☆☆☆

(live streaming)

I Vespri dei morti viventi

Le mummie della cripta dei Cappuccini di Palermo, il “día de muertos” della tradizione messicana, lo splatter macabro de La notte dei morti viventi di George A. Romero: tutto entra in questo allestimento del quasi omonimo Antú Romero Nunes di Les Vêpres siciliennes alla Bayerische Staatsoper, la versione originale in francese della prima opera scritta da Verdi per Parigi da noi quasi sempre presentata nella versione italiana I Vespri siciliani.

Il regista tedesco di padre portoghese e madre cilena dopo Der Vampyr di Marschner alla Komische Oper di Berlino gioca nuovamente la carta horror in questa messa in scena.  Il risultato però ricorda piuttosto una Festa di Halloween nel Village e il ridicolo è sempre dietro l’angolo con la madonna (la madre di Henri? Santa Rosalia?) in formaldeide, Procida che tira fuori da un sacco bistecche che getta a quelle bestie dei francesi o il can-can delle spose siciliane che, sottoposte alle violenze della soldataglia, ne escono insanguinate ma soddisfatte. O ancora, il risveglio dei cadaveri appesi durante il duetto di soprano e tenore – i soliti acrobati sul filo che sembra non possano mancare in una regia à la page.

Un popolo che non si ribella all’oppressore è un popolo morto, ha pensato il regista. Ed ecco che quindi i siciliani hanno tutti maschere di teschio, ma anche i francesi con divise napoleoniche hanno visi truccati grottescamente da morto. La Totentanz di Romero Nunes inizia con un telo nero, unica concessione delle scenografie di Matthias Koch, che si alza per rivelare un giovane per terra con il giubbotto arancione addosso, forse scampato al naufragio del «beau vaisseau» di cui canterà Hélène o un emigrante spiaggiato a Lampedusa. Se anche così fosse non ci saranno conseguenze né attualizzazione alle tragedie di oggi nella lettura di Nunes Romero. C’è anche una ballerina che accenna passi di danza sulle coreografie di Dustin Klein che punteggeranno altri momenti dello spettacolo, come l’ingresso di Procida vestito come un principe assiro (o è un santo nella sua teca reliquiario?). Il “balletto delle stagioni” qui è sostituito da una più breve elaborazione in stile techno: se i ballabili erano un corpo estraneo introdotto da Verdi solo per convenzione (e spesso assenti nelle versioni italiane), perché non portare l’idea all’estremo introducendo qualcosa di totalmente estraneo? I buu del pubblico di Monaco sembrano al momento dare una risposta. E quando ci si aspetterebbe l’ingresso di Grace Jones, entra invece Hélène in abito bianco a cantare la sua sicilienne (quella che in italiano diventa un bolero) prima del massacro finale in cui tutti schiattano, sola sopravvissuta è la figura col giubbotto salvagente.

Dall’influocata ouverture in poi tutto è trascinante nella direzione di Omer Meir-Wellber che non lesina con dinamiche e volumi sonori coerenti con quanto avviene in scena. Dei cantanti nessuno è francese e si sente nelle dizioni che vanno dall’approssimato all’improbabile. Rachel Willis-Sørensen è una Hélène dal timbro drammatico e dalle facili agilità ma gelida nell’espressione. Il tenore Bryan Hymel indisposto è sostituito dall’italiano Leonardo Caimi che ha fatto del suo meglio – e ancora grazie fosse disponibile un Henri all’ultimo momento. Neanche George Petean, Guy de Monfort con la roncola in mano (!) e il volto sfigurato da un trucco orripilante, punta sull’espressività e il suo doppio ruolo di tiranno e padre amoroso resta in sospeso. Erwin Schrott, Procida dall’aria svagata, è un alieno che riceve dal pubblico ovazioni da stadio.

I vespri siciliani

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★★★★★

Titolo emblematico della storia recente del Regio di Torino

I vespri siciliani avevano infatti inaugurato nel 1973 il ricostruito Nuovo Teatro Regio di Torino con la regia di Giuseppe Di Stefano affiancato per l’occasione da una mitica Elena, Maria Callas.

Questa nuova produzione è nata invece nel clima delle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia ed è stata affidata al regista Davide Livermore per farne uno spettacolo-simbolo: «Nei Vespri Verdi racconta la Sicilia del Duecento (1), ma pensa all’Italia dell’Ottocento, anzi di più. Pensa all’Italia tout court: di ieri, di oggi e forse anche di domani. Lo spettacolo – difficile da cogliere subito in tutte le stratificazioni interpretative e i riferimenti d’attualità – è coetaneo al pubblico e rende plausibile e rivelatrice la trasposizione ambientale in una contemporaneità realistica e spettacolare, ma anche critica e allarmante. All’inizio vedremo rappresentato l’antefatto, cioè il funerale di Federico d’Austria, giustiziato da Monforte, come fosse in diretta televisiva […], così la cavatina di Elena, sua sorella, risulterà come una specie di commento a quella diretta e quando lei inciterà i siciliani alla rivolta la trasmissione sarà interrotta. Allo spettatore apparirà subito chiaro come viene gestito quel potere. L’apertura del secondo atto è un grande effetto scenografico e allo stesso tempo un colpo al cuore e alle più tragiche memorie recenti. Quando Procida rientrato a Palermo si commuove al ricordo degli eroi della sua terra, il palcoscenico si trasforma nel fotogramma visto mille volte del chilometro insanguinato di Capaci: voragine, auto sventrate e quasi ingoiate dal deserto scavato dalla dinamite. Sanguinosi ricordi».

E, di coerenza in coerenza, gli interni richiameranno lo squallore del Palazzo di giustizia di Palermo e di altre situazioni emblematicamente contemporanee.
 Il Vespro è in uno studio televisivo, pieno di gente col volto nascosto da maschere di gomma: se le toglieranno quando il palcoscenico sarà occupato da un piccolo Parlamento. Nel teatro politico di Verdi il pubblico e il privato s’intrecciano. Una prospettiva non pessimistica sull’uomo che fa il paio con la toccante conclusione visiva: la ricostruzione di una seduta nella sala di Montecitorio che prima di essere sommersa di tricolori ripassa collettivamente il primo articolo della Costituzione Italiana, certezza e speranza di autentica democrazia unitaria.

Les vêpres siciliennes, su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, aveva debuttato a Parigi nel 1855, ma già lo stesso anno ne era stata fatta una versione in italiano per il Regio di Parma con il titolo mutato per motivi di censura in Giovanna di Guzman e la vicenda trasportata in Portogallo (!) mentre al San Carlo di Napoli l’opera veniva rappresentata con il titolo Batilde di Turenna. In Italia è la versione nella nostra lingua quella che prevale e così è per questa edizione diretta dal direttore musicale del Teatro Regio Gianandrea Noseda con grande partecipazione e interpretata da un cast ragguardevole, dall’eccellente Giovanni da Procida di Il’dar Adrazakov allo strepitoso Arrigo di Gregory Kunde, dal Monforte di Franco Vassallo alla Elena di Maria Agresta.

Il DVD appartiene alla collana “Viva Verdi” della RAI distribuita in edicola.

(1) Atto I. L’azione si svolge nel 1282. Mentre i soldati francesi invasori festeggiano in una piazza di Palermo, Elena, duchessa e sorella del duca Federigo d’Austria, dichiara espressamente il desiderio di voler vendicare il fratello. I soldati francesi la invitano a cantare. Elena canta un’aria che incita alla rivolta i siciliani. Scoppia una sommossa, ma l’arrivo del governatore Monforte atterrisce i siciliani. Subito dopo arriva Arrigo, che, non riconoscendo Monforte, esprime il suo odio per il governatore nonostante questo abbia dato ordine di liberarlo. Monforte si svela, e offre ad Arrigo di diventare ufficiale dell’esercito francese. Arrigo rifiuta inorridito, e sprezza il consiglio del governatore di star lontano da Elena.
Atto II. Giovanni da Procida, patriota siciliano, è appena sbarcato. Viene raggiunto dai suoi fedeli soci, tra i quali Elena ed Arrigo, che discutono con Procida sul modo con cui indurre i Siciliani alla rivolta. Arrigo rivela il proprio amore ad Elena, che dice di ricambiarlo, ma deve pensare prima a vendicare il fratello. Appaiono i soldati di Monforte che prelevano Arrigo e lo portano dal governatore. Intanto, i soldati francesi hanno rapito le dodici future spose di alcuni palermitani durante le nozze. Istigati da Elena e Procida, i siciliani giurano vendetta mentre da lontano echeggiano le risa dei nobili francesi che s’avviano alla festa a casa di Monforte per la sera.
Atto III. Nel palazzo, Monforte rilegge una lettera inviatagli da una donna siciliana, che, costretta a diventare sua amante, lo informa di essere il padre di Arrigo. Convocatolo, il governatore dice al giovane di essere suo padre. Durante la festa, viene fatto un ballo. Arrigo si imbatte in Elena e Procida che gli confidano che Monforte verrà ucciso seduta stante. Arrigo, mentre Elena si avventa sul governatore, gli fa scudo col proprio corpo. I cospiratori rimangono attoniti per il tradimento di Arrigo. Elena e Procida vengono rinchiusi in prigione.
Atto IV. Arrigo, vicino alle prigioni, convocata Elena, le rivela il motivo del suo gesto. La donna cambia atteggiamento e lo perdona, confessandogli il suo amore. Anche Procida, comprende e lo perdona. Subito entra Monforte, che ordina l’esecuzione dei cospiratori. Elena e Procida danno l’addio alla patria. Un coro di monaci intona il De profundis. Arrigo supplica Monforte di non ucciderli. Monforte lo farà solo se lo chiamerà padre. Alla fine, proprio prima che il boia uccida i cospiratori, Arrigo si arrende e lo chiama col fatidico nome. Monforte grazia tutti e ordina il matrimonio tra Elena e il figlio, i vespri dello stesso giorno.
Atto V. Elena riceve le amiche nel giardino, felice del futuro matrimonio e si incontra con l’amato Arrigo. Procida gli si fa vicino e le dice che ci sarà una sommossa al suon delle campane. Elena si ribella, ma Procida l’accusa di star dalla parte del governatore. Arrigo, confuso, tenta di convincere Elena a sposarlo, ma lei è dubbiosa. Entra Monforte, e unisce i due giovani nel sacro vincolo del matrimonio. Risuonano le campane dei vespri ed Elena, inorridita, tenta di avvertire Monforte, ma i siciliani, guidati da Procida, irrompono nel giardino e lo uccidono.