Fëdor Dostoevskij

Il giocatore


★★★★☆

L’ossessione del gioco da Dostoevskij a Prokof’ev

Ennesima conferma: Dmitrij Černjakov nelle opere russe è molto più convincente che in quelle non russe. Anche questo Giocatore di Prokof’ev segue la regola, finora dimostrata senza eccezioni.

Prima vera opera del compositore ucraino, è basata sull’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij Игрок (Igrok), pubblicato nel 1866, il cui testo viene fedelmente citato, soprattutto i dialoghi, nel libretto del compositore stesso. Composto negli anni 1915-16 sarebbe dovuto andare in scena al Mariinskij nel febbraio del ’17, ma vari problemi e poi la Rivoluzione d’Ottobre ne cancellarono la presentazione e nel maggio 1918 Prokof’ev abbandonava il suo paese. Ritornato in patria dieci anni dopo vi aveva trovato un clima non più favorevole alla sua musica, tacciata di eccessivo modernismo, e il debutto avvenne quindi in una nuova versione alla Monnaie di Bruxelles il 29 aprile 1929 dopo L’amore delle tre melarance, il suo primo trionfo come operista, e L’angelo di fuoco. «La seconda versione, più essenziale, non si limita solo a ripulire e alleggerire l’orchestrazione, facendone emergere con piena lucentezza la continuità di strutture armoniche, ritmiche e sinfoniche, ma incide anche, se non soprattutto, sul canto. Qui le esperienze compiute nel frattempo, massimamente nell’Angelo di fuoco, si dimostrano decisive: nel senso che alla uniformità della declamazione intonata subentrano una più marcata accentuazione lirica, una più fluida e insieme penetrante espansione melodica, una più soddisfacente e intensa ariosità. L’esigenza di dare all’azione scenica una articolazione fluida, sciolta e all’orchestra una funzione di caratterizzazione drammatico-musicale si salda così con l’evidenza, il rilievo plastico del canto. È proprio questo impulso a fare del canto il veicolo centrale dell’espressione, quasi il polo magnetico che attira su di sé il complesso degli elementi scenico-compositivi, costituisce il tratto distintivo del teatro di Prokof’ev nel contesto dell’opera novecentesca». (Sergio Sablich)

La vicenda è ambientata in Germania nella fittizia località Roulettenburg il cui casinò attira molti giocatori. Atto primo. Il giovane precettore Aleksej, incaricato di giocare una certa somma dall’amata Polina, figliastra del generale, presso il quale egli presta servizio, le confessa di aver perso tutto. Nel frattempo giunge il generale, accompagnato da Mademoiselle Blanche, dal marchese e da Mister Astley: sono tutti in attesa di un telegramma da Mosca che finalmente annunci la morte dell’anziana e facoltosa nonna del generale, da tempo ammalata. Il generale infatti è fortemente indebitato con il marchese e vorrebbe sposare Blanche, di cui è innamorato. Aleksej, rimasto solo con Polina, le dichiara il proprio amore appassionato, ma la donna, indifferente, per capriccio gli impone di deridere pubblicamente la moglie del barone Wurmerhelm. Aleksej obbedisce e in modo grossolano apostrofa la baronessa, suscitando l’ira del barone.
Atto secondo. Indignato per la bravata di Aleksej, il generale decide di licenziarlo ma alla decisa reazione del giovane, che minaccia un pubblico scandalo, assume un tono di inspiegabile moderazione. In seguito Aleksej apprende da Mister Astley che il generale non desidera in alcun modo irritare il barone in prossimità delle sue nozze con Blanche, accusata proprio dalla baronessa di aver corteggiato il marito. Soltanto un biglietto di Polina, consegnato dal marchese ad Aleksej (che lo sospetta amante di Polina), ha il potere di dissuadere il giovane dai suoi propositi. Del tutto inattesa, con un seguito di valige e servitori, compare la nonnetta, più energica che mai anche se portata a braccia su una poltrona: si rende subito conto dello scompiglio provocato dalla sua comparsa, disereda il generale e con l’aiuto di Aleksej si appresta a recarsi alla sala da gioco.
Atto terzo. In una piccola sala adiacente alla roulette il generale si aggira sconvolto: la nonna sta perdendo una fortuna. Con l’aiuto di Blanche cerca di ottenere invano l’aiuto di Aleksej, unica persona in grado di distogliere la nonna dal tavolo da gioco. Ma Aleksej rifiuta. La nonna, dopo aver perduto una somma enorme, riparte per Mosca e invita senza successo Polina a seguirla. Blanche, vista la sfortuna del generale, decide di abbandonarlo e si allontana con il principe Nil’skij.
Atto quarto. Scena prima. Polina compare nella camera di Aleksej e gli rivela di essere stata volgarmente abbandonata dal marchese, che si sta recando a Mosca a riscuotere i suoi crediti con il generale e le ha lasciato una somma di denaro per ripagarla dei favori ricevuti. Aleksej, indignato, giura a Polina di vendicare l’affronto. Scena seconda. In preda a un febbrile agitazione, Aleksej gioca e vince senza sosta, fino a sbancare il casinò. Un gruppo di accaniti giocatori assiste incredulo alla scena. Scena terza. Aleksej, esausto e pieno di soldi, torna in camera e offre a Polina la vincita. Ma la giovane rifiuta con violenza il denaro e si allontana.

Il giocatore è la descrizione di un’ossessione patologica essendo «incentrato sul gioco d’azzardo, che è autodistruzione, e ha un solo grande protagonista: la roulette, che gira con un vitalismo metallico, incessante come incessante è il movimento della ruota. Culmine drammatico dell’opera è proprio il quarto atto […] nella scena della sala da gioco, mentre la musica mima i vortici della pallina nel piatto (una pagina di straordinaria veemenza ritmica e vocale), i personaggi intorno sono un campionario di macchiette, straniati e rigidi come burattini. D’altra parte tutta l’opera è intrisa di satira amara sul mondo dei giocatori, un mondo dove tutto è falso, convenzionale, esagitato, inautentico. Solo il personaggio della nonna si stacca da questo mondo di fantocci: e la musica che la accompagna ha un sussulto di vitalità autentica, di imperiosa, categorica sincerità. Poi, quando la devastante passione divora anche lei, la sua musica si fa inquietante, più pacata, più sorda. (Fausto Malcovati)

L’allestimento è della Staatsoper under den Linden di Berlino, dove viene registrato il DVD, e coprodotto con la Scala dove sarà rappresentato lo stesso anno, 2008. La messa in scena di Černjakov non ricorre a un particolare konzept: il tema del gioco d’azzardo è già abbastanza forte. Il regista russo si limita ad aggiornare l’ambientazione: un hotel moderno, con la sua lobby, la sala da gioco, un salottino, alcune camere. Nella scenografia dello stesso Černjakov i vari ambienti, in cui predominano i colori bianco e blu, scorrono da destra a sinistra molto lentamente nei quattro atti in cui si dipana la vicenda. Aleksej, in parka e scarpe da ginnastica, è un disadattato senza futuro baciato per una volta dalla fortuna, ma i soldi che vince non gli portano la felicità e Polina, di cui è innamorato, in fondo lo disprezza e dopo essersi concessa a lui lo abbandona. Dopo una prima verbosa parte con gli astratti furori di Aleksej, l’arrivo della «nonnetta» imprime un ritmo all’azione che diverrà forsennato nella sala da gioco.

Interpreti di grande livello: Kristīne Opolais è una fascinosa Polina dalla vocalità sontuosa, Vladimir Ognovenko è il Generale in rovina finanziaria, Stefania Toczyska l’improvvida e avventata nonnetta. Aleksej è un intrepido Mischa Didyk che affronta con onore l’estenuante ruolo sebbene le continue occhiate al direttore (inconvenienti dei primi piani della ripresa televisiva!) tolgano un po’ di efficacia alla sua prestazione. (Da notare invece la maggior sicurezza della Opolais che in nessun istante sembra sbirciare verso l’orchestra).

E in orchestra abbiamo un valente Barenboim che mette bene in luce la dura e talora grottesca musica di un compositore osteggiato in Russia perché troppo occidentale e moderno, e non abbastanza apprezzato in Occidente perché troppo russo!

  • Il giocatore, Pitrėnas/Barkhatov, Vilnius, 12 febbraio 2020
  • Le joueur, Latham-Koenig/Pountney, Martina Franca, 24 luglio 2022
  • Il giocatore, Zangiev/Sellars, Salisburgo, 22 agosto 2024

Z mrtvého domu

Leoš Janáček, Z mrtvého domu  (Da una casa di morti)

New York, Metropolitan Opera House, 14 novembre 2009

★★★★★

Boulez e Chéreau ancora una volta insieme

Al buon vecchio Leoš dovevano piacere le imprese ardue. Le sue ultime tre opere sono tratte da testi che sembrano impossibili da portare in scena e musicare: una storia d’amore tra volpi (!), un intricato caso giuridico e infine il diario/romanzo di Fëdor Dostoevskij sulla sua detenzione in Siberia. Da una casa di morti (Z mrtvého domu, rappresentata postuma nel 1930) è il titolo dell’opera del compositore moravo, Memorie da una casa di morti (Записки из Мёртвого дома, Zapiski iz Mërtvogo doma1862) quello da cui è stato tratto.

Atto I. In un campo di prigionia in Siberia, una gelida mattina d’inverno porta la notizia che presto un aristocratico si unirà ai detenuti. L’uomo è Alexandr Petrovič Gorjančikov, un prigioniero politico, che il direttore della prigione fa interrogare e frustare. Gli altri prigionieri intanto hanno trovato un’aquila ferita e giocano con lei finché le guardie non li rimandano al lavoro. I prigionieri si lamentano della loro sorte e uno di loro, Skuratov, rammenta la sua vita a Mosca; un altro, Luka Kuzmič, racconta di quando aveva incitato una ribellione e ucciso una guardia nel campo di prigionia in cui si trovava prima. Terminata la fustigazione, Gorjančikov viene portato tra gli altri, quasi tramortito.
Atto II. Gorjančikov ha fatto amicizia con il giovane tartaro Aljeja, gli chiede della sua famiglia e si offre di insegnargli a leggere e scrivere. Terminato il lavoro, i carcerati si preparano per la festa e un prete benedice il cibo. Skuratov racconta il motivo per cui si trova lì: era innamorato di una giovane donna tedesca, Luisa, ma quando lei fu promessa a un anziano parente Skuratov aveva sparato al promesso sposo. Per la festa, i detenuti mettono in scena una commedia su Don Giovanni e una pantomima su una figlia di un mugnaio bellissima ma infedele. Dopo lo spettacolo, i prigionieri provano a provocare Gorjančikov, deridendolo per il fatto che i suoi privilegi aristocratici gli permettano di bere tè anche in prigione e nella lite che segue Aljeja resta ferito.
Atto III. Prima scena. Nell’ospedale del campo, Gorjančikov si prende cura di Aljeja, che è felice di aver imparato a leggere e scrivere. Accanto al suo letto, Luka sta morendo di tubercolosi. Šapkin racconta la storia del suo arresto, mentre Skuratov delira in preda alla pazzia. Durante la notte, anche Šiškov prova a raccontare la sua storia, ma viene continuamente interrotto dalle domande di Čerevin. Šiškov era innamorato di Akulka, la figlia di un mercante, che però era innamorata di Filka Morozov, che andava in giro dicendo di averla disonorata; durante la loro prima notte di nozze, Šiškov aveva scoperto che la giovane era ancora vergine, ma quando si rese conto che la moglie era ancora innamorata di Filka l’aveva uccisa. Luka muore e Šiškov si accorge solo allora che il malato era proprio Filka. I detenuti vengono interrotti da una guardia, che porta via Gorjančikov. Seconda scena. Il direttore della prigione, ubriaco, si scusa con Gorjančikov per le frustate e gli restituisce la libertà. Proprio mentre l’aristocratico lascia il campo, i detenuti liberano l’aquila ormai guarita, per poi essere rimandati dalle guardie ai lavori forzati.

«La trama è di fatto senza evoluzione, praticamente inesistente o informale: rappresenta la successione narrata di tante storie, indipendenti e diverse, a ognuna delle quali è riservato uno spazio differente nella partitura. Fatale che da un non-romanzo nascesse una non-opera. Il protagonista, Alexandr Petrovič Gorjančikov, giovane aristocratico condannato per le sue idee libertarie, svolge in gran parte dell’opera una funzione di spettatore. […] La vicenda inizia con il suo arrivo al campo e si conclude con la sua liberazione, esattamente come avviene a un’aquila ferita che, guarita alla fine dell’opera, spiccherà un volo verso la libertà negata agli ergastolani. Al destino del prigioniero politico è anche legato quello del malvagio comandante del campo, che interviene al suo arrivo, facendolo frustare senza alcun motivo, e alla sua liberazione, congedandosi da lui con una certa rozza caricatura di umanità, dovuta alla sua ubriachezza e al fatto di avere ormai perso la sua autorità. La poetica intercorrispondenza fra aquila e prigioniero politico è un’intuizione di Janáček. Nel romanzo L’aquila se ne va dal campo ancora ferita sbatacchiando l’ala sana. […] Inoltre in Dostoevskij non si fa menzione di maltrattamenti a forzati di origine nobile internati per i loro ideali libertari. Certamente la diversa e più moderna ottica del musicista verso la pratica della punizione corporale, lo ha portato a ricreare da spunti del romanzo una situazione nuova, ponendola strategicamente all’inizio dell’opera, in modo da rappresentare in tutto il suo orrore l’ottusità capricciosa dell’uso della violenza dell’uomo sull’uomo» (Franco Pulcini)

Per un’attenta lettura musicale dell’opera è sempre di riferimento il vecchio testo di Erik Chisholm sulle opere di Janáček che comprende anche una dettagliata analisi del monologo di Šiškov nel terzo atto.

Trent’anni dopo la memorabile impresa del Ring del centenario a Bayreuth, Boulez e Chéreau si incontrano di nuovo in occasione delle Wiener Festwochen del 2007 per uno spettacolo che sarà ripreso con successo ad Aix-en-Provence, Amsterdam, New York e Milano (qui con la magistrale direzione di Esa-Pekka Salonen).

Mettere in musica la spaventosa monotonia della vita carceraria tra mura opprimenti senza suscitare noia, anzi avvincere e commuovere è la scommessa vinta dal compositore prima e dal regista poi. Per quanto riguarda Janáček la musica della sua ultima opera entra in perfetta sintonia con la concretezza e il realismo della recitazione che qui tocca i massimi vertici con la guida del regista francese. Questo è uno dei pochi casi in cui non si riesce a distinguere l’apporto del compositore e del direttore d’orchestra da quello di chi ha messo in scena lo spettacolo, tanto sono dipendenti e intricati fra di loro.

Il regista francese esalta la solitudine, il dolore, l’umiliazione, la crudeltà, l’affetto, la nostalgia, l’alienazione, l’abbrutimento di queste anime morte alla libertà. Il finale dell’opera nella sua messa in scena è di quelli che ti tolgono il fiato per l’emozione. Assistere dal vivo alla rappresentazione al MET è stato un evento,  sconvolgente e indimenticabile. Come la lettura del testo di Dostoevskij.

Il maestro Boulez, accusato talora di analitica freddezza, qui bilancia magnificamente i momenti drammatici della vicenda musicale con una concertazione attenta dei ritmi incalzanti, spesso reiterati, alternati alle oasi di puro lirismo della splendida partitura resa molto bene dalla giovanile Mahler Chamber Orchestra.

Magnifici gli interpreti, praticamente tutti maschili, che toccano le varie corde espressive. Citiamo solo per brevità Peter Mattei (Šiškov), il delicato Aljeja di Eric Stoklossa, il possente Willard White come Goriančiko, ma è un far torto a tutti gli altri cantanti-attori. Contributo non trascurabile nelle due pantomime quello del coreografo Thierry Thieû Niang.