Guido Menasci

Pagliacci / Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Amsterdam, Het Muziektheater, 28 settembre 2019

★★★★★

(registrazione video)

Carsen fa Pirandello

Ad Amsterdam la stagione lirica è inaugurata da una produzione di Robert Carsen che si rivela una delle sue migliori. Si tratta di Pagliacci e Cavalleria rusticana, in quest’ordine, invertito rispetto a quello tradizionalmente adottato perché Carsen parte dal prologo di Pagliacci con la tirata di Tonio sull’autore che «al vero ispiravasi» e rivolto al pubblico «piuttosto che le nostre povere | gabbane d’istrioni, le nostr’anime | considerate, poiché noi siam uomini | di carne ed ossa», per puntare su una rappresentazione meta-teatrale che accomuna i due lavori e li collega.

 In Pagliacci la folla è il coro stesso che dalle prime file della platea diventa personaggio prima rispondendo con infantile entusiasmo agli «squilli di tromba stonata» dei teatranti di fiera e poi salendo in palcoscenico per seguire da vicino lo spettacolo delle maschere concluso dal doppio assassinio. Uno spettacolo senza commedia dell’arte, ma con elementi clowneschi: il naso rosso di Tonio, le scarpe smisurate, il trucco dei visi. I costumi sono di Annemarie Woods e le luci come sempre dello stesso Carsen e di Peter van Praet mentre la scenografia di Radu Boruzescu mostra due sipari rossi – i diversi livelli della rappresentazione – e un palcoscenico vuoto con sedie raffazzonate, stender appendiabiti e tavolini per il trucco. Il set della farsa all’interno dell’opera è una replica degli stessi camerini. Tonio è un tecnico di palcoscenico e fari, tralicci, quinte sono a vista a sottolineare la commistione tra vita reale e finzione scenica.

Dopo l’intervallo, Cavalleria inizia col “fermo immagine” del tragico finale di Pagliacci, i due cadaveri a terra e la folla sbigottita. Gli spettatori-performer indossano abiti identici a quelli di tutti i giorni e il loro direttore, Ching-Lien Wu, appare come sé stessa mentre dirige una prova. Santuzza non è stata disonorata socialmente, ma licenziato dal cast e Mamma Lucia è una direttrice di scena. Qui non c’è la Sicilia, non c’è colore locale. Solo il teatro, dove la finzione è talora più convincente della realtà e la distinzione tra l’uno e l’altra è una linea piuttosto sfocata. Più che il Verismo, Carsen ha in mente Luigi Pirandello che qualche decennio dopo avrebbe esplorato il sofferto rapporto tra attore e personaggio. La lettura di Carsen potrebbe sembrare audace, ma è la sua attenta regia con tanti particolari di grande teatralità e l’attenzione alla recitazione dei cantanti a rendere del tutto convincente l’azzardo.

Questo grazie anche alla direzione di Lorenzo Viotti, che ha sostituito il previsto Sir Mark Elder. La sua concertazione è ricca di sfumature e colori, più brillanti e con tempi spediti in Pagliacci, più sobri e con tempi dilatati in Cavalleria. Magnifica è la resa dell’Intermezzo e in ogni momento l’attenzione ai cantanti è suprema. In questo è aiutato da un coro superlativo e da solisti di grande interesse. Nella prima parte il Canio di Brandon Jovanovich conferma le doti attoriali del tenore americano accanto a una vocalità atipica che qui però risulta molto efficace per la grande proiezione, il fraseggio spezzato, gli acuti potenti. Il suo lavoro di immedesimazione rende il personaggio totalmente credibile e di grande impatto. Nedda ideale per il timbro lirico è quella del soprano Aylin Pérez. Il suo canto è senza sforzo, con mezzevoci e pianissimi suadenti, trilli puliti e un buon controllo anche nel registro medio e basso, ottenuto mantenendo lo stesso timbro uniforme. Roman Burdenko è un giustamente spregevole Tonio dalla voce imponente che si piega alle esigenze del ruolo. Marco Ciaponi (Beppe) è un magnifico Arlecchino, lirico e di bel fraseggio. Silvio di lusso dal timbro pieno e morbido quello di Mattia Olivieri, di avvenente fisicità nel sensuale duetto con Nedda.

Burdenko ritorna nella seconda parte come Alfio, e forse se ne poteva fare a meno. Santuzza di eccezione è quella di Anita Rachvelishvili, tra le migliori in assoluto con una resa vocale e teatrale sconvolgente. Brian Jagde è un giusto Turiddu musicale, dalla bella linea di canto e mai eccessivo nell’interpretazione. Credibile e fascinosa la Lola di Rihab Chaieb, mentre Elena Zilio è la Mamma Lucia di sempre.

Cavalleria rusticana / Pagliacci



Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2024

★★★★☆

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È sempre bello anche tredici anni dopo lo spettacolo di Martone

Negli ultimi tempi non è stato sempre scontato vedere rappresentati assieme nella stessa serata Cav & Pag, come amano chiamare nei paesi anglosassoni l’accoppiata di Cavalleria rusticana e Pagliacci. Molte volte sono stati eseguiti singolarmente, soprattutto per ragioni di budget, altre volte in abbinate secondo criteri fantasiosi se non addirittura bizzarri. Così c’è stato il legame del tema femminista (Cavalleria con La voix humaine di Poulenc), l’ambientazione geografica (Cavalleria con La giara, il balletto su musiche di Casella) oppure per puro contrasto stilistico o cronologico (Pagliacci con L’incantesimo di Montemezzi o con Sull’essere angeli di Filidei). Questo per limitarsi ad alcuni degli esempi più recenti. Il Teatro alla Scala segue invece la tradizione, proponendo assieme i due lavori d’esordio di Mascagni e di Leoncavallo, comunemente considerati i più rappresentativi del movimento verista in musica.

Anche se solo due anni separano le due composizioni, quella di Leoncavallo (1892) ha dei caratteri di modernità più spiccati rispetto all’opera di Mascagni (1892) e il proporle assieme permette una volta di più percepire le differenze di stile e di propositi dei due lavori. Con la sua ambientazione siciliana l’opera di Mascagni veniva a interrompere una serie di composizioni intrise di cultura nordica quali l’Amleto di Faccio, Le Villi di Puccini, I Lituani di Ponchielli. Cavalleria sarà poi vista come una reazione al wagnerismo nell’Italia fascista di alcuni decenni dopo. Dalla novella del Verga del 1880 al dramma scritto dallo stesso per la Duse nel 1884 all’opera, la passionalità si accende sempre più in personaggi dai sentimenti elementari e violenti tradotti dal compositore in un linguaggio efficace che infatuerà, tra gli altri, Gustav Mahler, che la dirigerà a Budapest a soli sei mesi dalla prima al Costanzi di Roma e varie altre volte ad Amburgo e a Vienna. In Pagliacci invece, elemento di straordinaria modernità è lo scambio tra vita reale e teatro, l’ambiguità tra uomo e attore, tra finzione scenica e autenticità dei sentimenti, tematiche che confluiranno poi nel teatro di Pirandello.

Tanto è rutilante di colori la Sicilia di Dolce & Gabbana attualmente in mostra a Palazzo Reale, quanto scura e scarna è la messa in scena di Cavalleria di Mario Martone, lo spettacolo del 2011 ripreso da Federica Stefani che non è invecchiato per nulla e se allora venne contestato ora viene considerato uno dei migliori allestimenti del dittico verista. Sul palcoscenico vuoto ci sono soltanto le sedie del coro, una presenza di massa del popolo che è quasi un’eco del coro della tragedia greca. Con i visi che si voltano dall’altra parte quando c’è Santuzza, si capisce come Janáček amasse quest’opera: la sua Jenůfa trasporta in Moravia una vicenda simile e come nel lavoro di Mascagni anche lì il paese è un protagonista antagonista della figura principale. La dimensione tragica della storia è messa a nudo senza orpelli e l’ipocrisia della società è chiaramente indicata quando vediamo compare Alfio uscire dal bordello prima di andare dal barbiere. La scena diventa vuota quando Santuzza è abbandonata da tutti, anche Alfio fa segno di disprezzare la sua delazione e Mamma Lucia è troppo chiusa nel dolore per il figlio morto da darle retta.

Proprio la nudità della scena esalta la performance di Elīna Garanča, Santuzza lettone che cova sotto un comportamento controllatissimo un temperamento appassionato in cui la voce dal timbro di velluto svetta con facilità in acuti lancinanti. Una performance la sua che è stata oggetto di ovazioni da parte del pubblico. Brian Jagde è un Turiddu di grande squillo, ma si vorrebbe una maggiore espressività. Di Roman Burdenko, Alfio, non si può non confermare quanto già rilevato altrove: nell’opera italiana sconta una dizione perfettibile e una certa rozzezza espressiva che dà più fastidio in Mascagni di quanto avvenga in Leoncavallo. Francesca di Sauro è una fresca e seducente Lola mentre Elena Zilio si conferma la Mamma Lucia par excellence: la voce è quella che è, il parlato si sostituisce talora al canto, ma scenicamente è perfetta, minuta e con un gioco di mani e di sguardi che senza eccessi fanno capire tutto il dramma.

La direzione di Giampaolo Bisanti non convince del tutto, trascinante e teatrale non si conforma alla sobrietà della scena di Martone e le sottigliezze strumentali di Mascagni – sì, ci sono – si perdono: senza fare riferimento a Karajan, basta ascoltare il giovane Lorenzo Viotti nella produzione di Amsterdam come riesce ad arrivare a risultati di grande bellezza qui non toccati nonostante un’orchestra ancora più prestigiosa. Anche l’Intermezzo scorre via senza lasciare traccia. Le cose vanno leggermente meglio in Pagliacci, dove le forti tinte sono più accettabili.

Lo scenografo Sergio Tramonti, la costumista Ursula Patzak e il light designer Pasquale Mari hanno avuto più da fare nel lavoro di Leoncavallo: il viadotto che domina la scena, la lurida roulotte e le automobili richiamano un teatro più realista dove Martone fa traboccare la realtà oltre il sipario, quasi annullando la distanza tra la scena e gli spettatori: il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i Contadini, Silvio trepida in sala e il pubblico della pantomima è un’estensione sulla scena di quello della platea, con gli stessi abiti eleganti. Nella regia di Martone due soli gli errori, uno all’inizio e uno alla fine. All’inizio il sipario si apre per farci vedere la scena e poi si richiude (!) per il prologo di Tonio e alla fine la cinica battuta «La commedia è finita!» è tolta a Tonio, l’anima nera della vicenda, e data a Canio. D’accordo che è di tradizione, ma si tratta solo di compiacere il tenore, non ha senso drammaturgico, è Tonio che ha fin da subito ha dichiarato «L’autore ha cercato invece di pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispirasi».

A parte Roman Burdenko, di cui s’è detto, nella seconda parte dello spettacolo tutti nuovi sono gli interpreti. Fabio Sartori è uno specialista del ruolo di Canio a cui offre uno squillo e una proiezione sonora di tutto rispetto. Il personaggio è intriso di un rancore che scaccia la lacrima da «Vesti la giubba» e riempie di violenza il suo «Ah! … sei tu? Ben venga!» prima di ammazzare Silvio. Nedda nostalgica per una vita che avrebbe voluto diversa è quella di Irina Lungu, che sfoga la sua linea lirica nell’aria in cui invidia gli uccelli liberi che «Stridono lassù». Mattia Olivieri è il Silvio ideale per giovanile baldanza e avvenenza fisica, che non guasta e giustifica ampiamente l’infatuazione di Nedda. Che poi il suo mezzo vocale disponga di un colore e di una ricchezza di sfumature invidiabili non fa che confermare l’impressione. Con Jinxu Xiahou, simpatico Peppe, i Contadini Gabriele Valsecchi e Luigi Albani, artisti del coro, si completa il cast dei solisti. Coro come sempre in gran spolvero quello diretto da Alberto Malazzi. Grande successo di pubblico accorso a riempire ogni singolo posto del teatro.

Cavalleria rusticana / Pagliacci

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ROYAL OPERA

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Londra, Royal Opera House, 10 dicembre 2015

★★★★☆

(live streaming)

Cav & Pag a Londra

Double bill lo chiamano nei paesi anglosassoni. E cosa c’è di più tipico dell’accoppiata Cavalleria rusticana e Pagliacci? Di atipico qui a Londra alla Royal Opera House c’è l’allestimento di Damiano Michieletto, che lega drammaturgicamente le due diverse vicende: nello stesso paesino del sud in cui si è consumato il dramma rusticano, la sera,  nel teatrino parrocchiale, c’è la rappresentazione di una scalcinata compagnia drammatica, che sappiamo come finirà. Già nell’opera di Mascagni vediamo Beppe incollare i manifesti che annunciano Pagliacci e Nedda distribuire i volantini dello spettacolo. Qui la donna incontra per la prima volta Silvio, il garzone della panetteria di mamma Lucia, ed è durante lo straziante intermezzo che i due si innamorano e si scambiano il primo bacio. Nell’analogo intermezzo orchestrale dell’opera di Leoncavallo vediamo invece Santuzza, dopo che ha confessato al prete di essere incinta, allontanarsi assieme a mamma Lucia. Il desiderio di Turiddu («s’io… non tornassi… voi dovrete fare  da madre a Santa») è stato esaudito.

In Cavalleria Michieletto fa il miracolo di farci commuovere non solo alla fine dell’opera, ma addirittura dopo appena mezzo minuto: la sua messa in scena inizia infatti con il cadavere insanguinato di Turiddu in mezzo alla via e il grido muto di Mamma Lucia, che si accascia sul corpo del figlio. Un’emozione che non ti lascerà più per il resto della rappresentazione, che si rivela un angoscioso flashback.

Un elemento girevole (il set scenografico è del solito geniale Paolo Fantin) offre i due ambienti in cui si svolge il dramma: l’esterno con la folla, la processione, la festa di Pasqua, e l’interno della panetteria per il dramma domestico in cui le due donne, Santuzza e Lucia, si fanno forza a vicenda in quel mondo dominato dal testosterone maschile. Lucia è divisa tra l’amore per Turiddu e l’affetto per Santuzza, la figlia che non ha avuto, mentre la giovane è dilaniata tra l’amore calpestato ma ancora vivo e la disperazione della vendetta. Come in tutte le regie di Michieletto c’è grande cura per la recitazione e l’interazione dei personaggi: Santuzza ha l’angosciata e a stento trattenuta espressività di Eva Maria Westbroek, Mamma Lucia è una intensa Elena Zilio, forse talora manierata, ma icona imprescindibile di ogni rappresentazione di Cavalleria.

I tocchi del regista veneziano sono sparsi qua e là: come la statua della madonna che si anima per puntare il dito contro una Santuzza oppressa dal senso di colpa mentre assiste in disparte alla processione, o la pasta in cui mamma Lucia affonda le mani con una sensualità che da tempo non conosce – che ne è del marito? Nulla infatti ci dice il Verga di gnà Nunzia, come si chiama nella novella.

Lo stesso mirabile gioco attoriale si ha in Pagliacci. Simile è la scenografia: anche qui un elemento girevole mostra i vari ambienti del dramma e permette a Michieletto una prodezza quando verso la fine dell’opera, tramite delle controfigure dei personaggi, assistiamo al backstage della rappresentazione nella rappresentazione, una mise en abîme finora non tentata nel teatro lirico. Si dà così maggior plausibilità al teatrino talora stucchevole delle maschere e al tragico finale con due morti sul palcoscenico e fuggi fuggi dell’atterrito pubblico.

Affiancati i due lavori permettono di notare somiglianze e differenze: entrambe opere prime, entrambe esempi non superati di Verismo in musica. Certo non dal Mascagni di Isabeau o della Parisina, ma neanche dal Leoncavallo de La bohème o di Zazà. La musica dell’opera del compositore napoletano sembra più “moderna” di quella di Mascagni, ma quest’ultimo con Cavalleria aveva sconvolto il sonnacchioso mondo musicale dell’Italietta fine secolo con un’opera che si era rivelata un capolavoro al limite dello scandalo e che in pochissimo tempo aveva varcato le Alpi ottenendo riconoscimenti ovunque – l’austero Eduard Hanslick gli aveva dedicato un saggio entusiastico. Sulla scia del successo di Cavalleria vennero rappresentati nei teatri della penisola drammi a fosche tinte dai Mala Pasqua!, Mala vita, Vendetta sarda, Un mafioso… Sì, l’Italia era veramente unita!

Il dramma di Leoncavallo anticipa il teatro di Pirandello nel gioco tra scena e vita, sentimenti finti e sentimenti veri, uomini e maschere. Musicalmente si ha un collage stilistico cha va dalle melodie cantabili, quasi romanze, agli intermezzi sinfonici, ai cori, ai minuetti e alle gavotte “all’antica”, ai colori foschi del “cattivo” di Tonio, alle armonie cromatiche quasi wagneriane del duetto d’amore tra Nedda e Silvio, all’uso dei motivi conduttori.

Pappano sembra aver compreso tutto quanto, tanto è conscia, trascinante e al contempo cesellata nei particolari la sua direzione. Purtroppo non si trova adeguato smalto nel cast. Se quello femminile dà buona prova – già si è detto della Westbroek che ha colore e accento adatti per Santuzza e della immarcescibile Zilio, Carmen Giannattasio disegna una Nedda scenicamente indimenticabile e vocalmente pregevole, Martina Belli una Lola dall’indubbio sex appeal – note meno favorevoli si hanno per il reparto maschile, a iniziare dal sopravvalutato tenore lèttone Alexsandrs Antonenko (ma non era bastato il suo penoso Calaf dell’anno scorso alla Scala a mettere le cose in chiaro?) dalla voce potente ma monocorde e dagli acuti spiazzati nell’intonazione sia come Turiddu che come Canio. Non meglio il baritono greco Dimitri Platanias, grezzo Alfio e poi più accettabile Tonio. Greco è anche Dionysios Sourbis, Silvio di bella presenza scenica ma dal timbro infelice e dal vibrato insopportabile.

Cavalleria rusticana

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Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Napoli, Teatro di San Carlo, 15 luglio 2012

Metti una recita di Cavalleria Rusticana al Teatro di San Carlo a Napoli in una calda serata di luglio. Ancor più calda l’emozione. Pippo Delbono, che firma la regia dello spettacolo, a sipario chiuso e con l’o  rchestra schierata in buca, presenta a modo suo lo spettacolo:

«Buonasera. Scusate l’intromissione. Sono il regista di questo spettacolo. Prima di cominciare volevo raccontarvi due piccole storie legate alla Pasqua, la festa ricorrente di quest’opera. Un giorno camminavo in un paese abbandonato in Sicilia. Un paese che era stato distrutto da un terremoto molti anni prima. In quel paese tutto era rimasto uguale, fermo, immobile come se il tempo si fosse fermato là, in quell’attimo del terremoto. I palazzi conservavano ancora intatti i segni di un’eleganza antica ma erano sprofondati nella terra. E in quel piccolo paese distrutto dal terremoto avevo trovato un piccolo agnello pasquale di stoffa, nascosto tra le macerie. Ora quell’agnellino di stoffa lo conserva come una reliquia Bobò, il mio vecchio piccolo attore sordomuto rimasto per cinquant’anni rinchiuso nel manicomio di Aversa e che da molti anni vive con me. Libero. E poi un’altra storia, legata alla Pasqua. Una sera di poco tempo fa, mentre stavo preparando la Cavalleria Rusticana, ero con mia madre. Guardavamo dalla finestra il fuoco della Pasqua nella piazza della Chiesa del piccolo paese dove sono nato. Qualche giorno dopo mia madre se ne è andata. Per sempre. E quella sera in quella veglia pasquale in quel fuoco io e lei vedevamo la resurrezione, vedevamo la vita, la morte. Vedevamo la nostra separazione. Ricordo una poesia che studiavamo da piccoli a scuola:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato. (1)

Grazie e scusate ancora questa mia intromissione»

Ed ecco che il sipario si apre e il ‘paese più straziato’, nella scenografia di Sergio Tramonti un’immensa camera rossa povera e sontuosa allo stesso tempo, appare in tutto il suo angosciante incombere. «Un lamento d’amore terribile, eccitante e doloroso. Il nucleo della Cavalleria è quello stato interiore che corrisponde alla passione quando diventa distruttiva. Per questo lo spettacolo sarà ambientato in una stanza rosso sangue che può sembrare un inferno o una chiesa, e che in realtà è un luogo della mente, la parte più oscura e pericolosa di noi». E quando il regista si fa personaggio e comincia ad aprire tutte le porte laterali da cui, improvvisa, esplode la luce, regala suggestioni immediate a un’atmosfera visionaria e decisamente surreale.

Nulla resta a evocare gli aranci olezzanti, le allodole cinguettanti tra i mirti in fiore, i campi con le spighe d’oro del libretto. C’è già tutto il dramma che sarà, non importa che sia un dì di festa. Nella poesia di Ungaretti la perdita e il lutto sono fortemente presenti e si ricollegano magicamente alla scena finale con Delbono che si avvicina alla madre di Turiddu – qui un’affranta Elena Zilio – e le porge la mano, un appiglio per non lasciarsi risucchiare dal mare delle lacrime, dal dolore della tragedia appena compiuta. Margherita, la mamma di Pippo, è mancata da poco. Un’altra straziante intrusione della realtà biografica del regista nei suoi spettacoli.

Poco meno di trenta minuti dello spettacolo diretto da Pinchas Steinberg, ripreso da una telecamera fissa, sono disponibili in rete.

(1) Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso