Hedwig Lachmann

Salome

 


foto © Michele Monasta

Richard Strauss, Salome

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 27 aprile 2025

 ★ ★ ★

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La Salome mediterranea di Emma Dante


Emma Dante firma una Salome visionaria al Maggio Musicale, ambientata in un Bosco di Bomarzo popolato da figure oniriche e simboliche. Regia intensa e coerente, dominata da un potente immaginario femminile. Lidia Fridman magnetica protagonista, diretta da Alexander Soddy in una lettura sontuosa e drammatica della partitura. Successo trionfale, con ovazioni per interpreti e direttore.

«Oh, no, ancora i pupi!» mi è scappato di dire a voce alta ad apertura di sipario prima ancora che attacchi la musica: in scena, infatti, sei mimi/ballerini in armature bianche e decori azzurri, come certe ceramiche del sud, hanno le movenze marionettistiche dei pupi siciliani.

Così inizia la Salome di Emma Dante in cui nessun particolare sfugge alla cifra stilistica della regista palermitana che imprime la sua personale e inconfondibile impronta a tutti gli spettacoli che mette in scena. Qui comunque riesce a confezionare uno spettacolo del tutto convincente e che conquista il foltissimo pubblico accorso, alcuni per la seconda o terza volta come mi è stato confessato, all’ultima replica del titolo inaugurale dell’87° Festival del Maggio Musicale.

Cinque anni dopo la Carmen alla Scala, a Strauss fu legato il suo Feuersnot a Palermo. Ora al debutto al festival fiorentino, il mondo visivo della Dante non ricrea la decadente e orientaleggiante opulenza dell’ambientazione di Wilde/Strauss: il suo è uno sguardo onirico su una vicenda inserita nel verde del Sacro Bosco di Bomarzo, col faccione di pietra dell’Orco la cui bocca spalancata funge da ingresso alla cisterna di Jochanaan ma anche alla prigione delle schiave di Herodes che vediamo affacciarsi dagli occhi del mascherone. Si tratta infatti dell’eterna vicenda della violenza degli uomini sulle donne oggetto delle brame del Tetrarca, le schiave appunto o la figliastra Salome, a sua volta vittima e carnefice. Gli uomini o sono gli indistinguibili soldati nelle loro armature o gli ebrei impegnati in futili beghe teologiche. Solo nel finale la scena ideata da Carmine Maringola vira verso un mondo più astratto: durante il monologo necrofilo di Salome dall’alto scendono dei teli macchiati di sangue e poi delle “liane” nere che richiamano i lunghissimi dreadlocks neri del profeta usati dai soldati come funi per trattenerlo.

In scena è presente solo il tavolo del banchetto di Herodes e della moglie, con una barocca esposizione di teste di animali (bue, maiale, pesce spada… quasi presagi della testa del profeta). La tovaglia è dello stesso tessuto dei sontuosi abiti della coppia (costumi firmati da Vanessa Sannino), un ricco broccato rosso, lo stesso colore dell’abito di Salome. Sono parte stessa del banchetto Herodes e Herodias e, con la loro immagine da Re e Regina delle carte da gioco, confermano la dimensione favolistica – il Basile de Lo cunto de li cunti è sempre dietro l’angolo… – della lettura della regista. La scena della danza dei sette veli è risolta in maniera efficace: Salome – che ha il fisico da modella di Lidia Fridman – è il pistillo di un fiore i cui petali sono i veli agitati da sei ballerine a cui si uniscono sei ballerini nella coreografia di Silvia Giuffré che alla sensualità unisce la violenza maschile sulle sei schiave. Sintomatica è la scelta di far portare la testa mozza a Herodias mentre la morte di Salome strangolata dalle trecce del profeta porta a un finale di grande impatto che conferma l’infallibile senso teatrale della Dante. Qui poi viene esaltata la straordinaria partitura che nelle mani di Alexander Soddy rivela tutta la sua straordinaria magnificenza.

Questo doveva essere il debutto italiano del direttore inglese se non ci fosse stata nel frattempo la sostituzione di Christian Thielemann per il Ring alla Scala, affidata all’ultimo momento a Soddy in alternanza con Simone Young. Soddy, che potrebbe essere il nuovo direttore principale dell’Orchestra del Maggio dopo Daniele Gatti, rivela anche qui la sua maestria nel gestire un’orchestra poderosa ma dal suono lucido, lussureggiante, ma implacabilmente aggressivo, quasi tellurico, nei momenti chiave. Grande è la tensione drammatica, precisi i cambi di atmosfera e grande attenzione è data alle peculiari sonorità timbriche di una musica che aveva sconvolto il pubblico del 16 maggio 1906 allo Stadt-Theater di Graz quando, cinque mesi dopo la prima di Dresda, a sentire Strauss dirigere il suo lavoro arrivarono, tra i tanti, Giacomo Puccini, Gustav Mahler, Arnold Schönberg, Alexander von Zemlinsky, Alban Berg e forse anche un giovane Adolf Hitler. Di certo Adrian Leverkühn, il personaggio del Doktor Faust di Thomas Mann… Tanta era l’attesa per quella degenerata opera bandita dai censori del Hofoperntheater di Vienna. Oggi neanche riusciamo a immaginare l’impatto scandaloso di questa “dissonante”, “cacofonica” creazione, ma Soddy riesce a sconvolgerci mettendo in luce le malsane e incandescenti pagine di questo capolavoro unico nel suo genere. Dimostrando in tal modo di essere tra i migliori interpreti del repertorio wagneriano e post-wagneriano.

Mirabile è anche l’equilibrio della buca orchestrale con le voci: nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Soddy sottolinea la grande sfida della Salome agli interpreti, con un’orchestra che deve suonare sempre forte, per cui è importante cogliere le tante opportunità offerte dalla partitura per far emergere le voci. Voci che in questa produzione fiorentina si rivelano pienamente adatte al compito. Arrivata a sostituire un’interprete precedentemente prevista, dopo alcune prove belcantistiche, Lidia Fridman dimostra di saper tener testa alla impervia tessitura del ruolo titolare grazie a una notevole proiezione, al timbro tagliente e a un fraseggio espressivo. Il tutto abbinato alla sua magnetica presenza scenica. Il personaggio della nevrotica giovane perde gli elementi infantili per assumere quelli di una femmina predatrice in risposta alle malsane attenzioni del patrigno. Dopo alcune performance non del tutto convincenti della cantante russo-italiana, questa ha messo tutti d’accordo e le ovazioni finali nei suoi confronti lo stanno a dimostrare.

Era stato Jochanaan a Napoli il mese scorso e anche a Firenze Brian Mulligan conferma la buona impressione allora ricevuta. Qui poi la regia gli restituisce quell’autorevolezza scenica che al San Carlo era mancata. Molto ben definiti vocalmente e attorialmente sono lo Herodes di Nikolai Schukoff e la Herodias di Anna Maria Chiuri mentre un po’ deludente è risultato il Narraboth di Eric Fennell. Marvi Monreal come Paggio, Arnold Bezuyen, Mathias Frey, Patrick Vogel, Martin Piskorski e Karl Huml (i Cinque Ebrei), William Hernandez, Yaozhou Hou, Frederic Jost, Karl Huml e Davide Sodini completano il bel cast.

Esito felicissimo per tutti gli artefici dello spettacolo con ovazioni per la protagonista e il direttore.

Salome

 

Richard Strauss, Salome

Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2025

 ★ ★ ★

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Una Salome nuova nell’impatto ecologico ma vecchia nella concezione 

L’altro ieri a Roma Alcina, questa sera a Napoli Salome. Un’altra donna incantatrice e altrettanto pericolosa, un altro caso di seduzione mancata. 170 anni separano la maga di Händel dalla ragazzina necrofila di Strauss, Una respinta da Ruggiero che aveva ammaliato con i suoi incantesimi, l’altra respinta da Jochanaan, profeta illuminato dal divino.

Altri 120 anni e siamo all’oggi, con una produzione non nuova per il San Carlo: è la ripresa infatti della messa in scena di Manfred Schweigkofler del novembre 2014, uno spettacolo nato tre anni prima per i teatri di Bolzano, Modena e Piacenza. E ci sarebbe stata anche la ripresa del 2021 se non ci fosse stato di mezzo il Covid a cancellarla.

Non era uno spettacolo particolarmente nuovo neanche allora, però. Negli anni successivi Van Hove, Castellucci, Warlikowski, Michieletto, Loy, Černjakov e Kosky, quest’ultimo proprio un anno fa a Roma, avrebbero fornito la loro versione. Quella di Schweigkofler non risulta particolarmente originale e delle sue intenzioni espresse nell’intervista pubblicata sul programma di sala ben poco rimane in una lettura che non è neppure illuminante sulla psicologia dei personaggi e sulle morbose relazioni con la principessa di giudea dei tre uomini: Jochanaan, Erode e Narraboth. La vicenda è trattata in maniera didascalica in un’ambientazione senza tempo: il disegno scenico di Nicola Rubertelli, illuminato dalle fredde luci di Claudio Schmid, mostra una scalinata racchiusa tra due alte mura, mentre uno specchio a 45° riflette dall’alto il palcoscenico – rivelando un disegno che ricorda una tela di Chagall – così come l’interno della cisterna, una prosaica botola con scaletta che porta al sotto palco. Un elemento questo dello specchio del tutto inutile nell’economia dello spettacolo se non quello di mostrare anche al pubblico della platea il pavimento della scena.

Se i registi predetti hanno tutti evitato in un modo o nell’altro l’immagine grandguignolesca della testa mozza – nascosta in una scatola per Warlikowski, trasformata in testa di cavallo per Castellucci… – Schweigkofler non rinuncia invece a mostrare il capo sanguinante per il facile raccapriccio del pubblico. Anche la danza dei setti veli, che ha spinto la fantasia degli altri metteur en scêne a soluzioni inedite, qui è invece banalmente eseguita da sette fanciulle, una per ogni velo… La morbosa sensualità della danza rimane però tutta nella musica, certo non nella ingenua coreografia di Valentina Versino in cui si inseriscono anche i movimenti della cantante, con risultati non propriamente esaltanti.

Nuovi rispetto alla produzione del 2014 sono i costumi, qui disegnati con tocchi orientali da Daniela Ciancio e confezionati con un nuovo materiale, lo ScobySkin, un tesssuto bio-based che non utilizza né alberi, né animali, né sostanze chimiche artificiali, ma è realizzato a partire da fogli di nanocellulosa ottenuta con un processo di fermentazione batterica a partire da scarti di frutta a chilometro zero. Un esempio virtuoso di riduzione dell’impatto ambientale in tutto il ciclo, dalla produzione allo smaltimento, come riporta il programma di sala.

La concertazione dell’opera è affidata al direttore musicale Dan Ettinger che della lussureggiante partitura più che la sensualità accentua i toni barbarici, brutali, con livelli sonori tali da coprire le voci in scena, ma grazie all’orchestra del teatro in gran forma, si dimostra molto abile a districarsi nella fitta rete tematica e nei subitanei cambi di ritmo e rendendo appieno i colori ora rutilanti ora lividi di questa musica.

La parte del titolo è affidata alla voce di Ricarda Merbeth che non ricrea esattamente la figura di un’adolescente viziata e manipolatrice, ma di una donna ossessionata fino alla follia dalla figura del profeta, probabilmente il primo uomo che ha risvegliato le sue pulsioni sessuali che non più represse esplodono nel raccapricciante finale. Cantante che ha sviluppato nel tempo una carriera molto diversificata, da soprano coloratura a soprano wagneriano, Ricarda Merbeth ha uno strumento poderoso espresso in un’impegnativa estensione, ma non riesce a ricreare la complessa personalità della figliastra di Erode e la sua presenza scenica sembra volersi rifare a modelli del passato quale la Theda Bara del film di Edwards del 1918, con gran roteare di mantelli e sguardi intensi, piuttosto che a più moderne interpretazioni.

Il baritono americano Brian Mulligan sarà nuovamente Jochanaan tra un mese per l’inaugurazione del prossimo Festival del Maggio Musicale fiorentino. Voce dal timbro chiaro e dall’elegante canto declamato, forse a causa della regia non ha l’autorevolezza che ci si aspetta dal personaggio e anche scenicamente la sua figura non emerge con la dovuta evidenza. Sarà anche per il fatto che tutto vestito com’è non si capisce come Salome possa innamorarsi del suo corpo: «Ton corps est blanc comme les neiges qui couchent sur les montagnes, de Judée, et descendent dans les vallées. Les roses du jardin de la reine d’Arabie ne sont pas aussi blanches que ton corps. […] Il n’y a rien au monde d’aussi blanc que ton corps. — Laisse-moi toucher ton corps !» (Il tuo corpo è bianco come le nevi che si stendono sui monti della Giudea e scendono nelle valli. Le rose del giardino della regina d’Arabia non sono bianche come il tuo corpo. […] Non c’è nulla al mondo che sia bianco come il tuo corpo. – Fammi toccare il tuo corpo!), come dice il testo originale di Oscar Wilde.

Erode è spesso connotato in maniera caricaturale, non qui dove Charles Workman ridà al monarca la sua dignità regale anche se la voce è spesso coperta dall’orchestra e si perdono le sottigliezze della sua interpretazione. Lo stesso avviene per l’Erodiade di Lioba Braun, ma qui c’è da prendere in considerazione una certa usura dello strumento vocale. Buone si dimostrano le parti secondarie di Narraboth con un lirico John Findon e del Paggio di Štěpánka Pučálková. Nella complessità della trama teatrale sono efficaci i membri del quintetto di litigiosi ebrei: Gregory Bonfatti, Kristofer Lundin, Sun Tianxuefei, Dan Karlström e Stanislav Vorobyov. Apprezzabili anche gli altri cantanti, tra cui due artisti del coro del teatro.

Applausi non fragorosi hanno salutato dopo il cruento finale gli artefici dello spettacolo. Molti spettatori sembravano ansiosi di passare al guardaroba.

Salome


 
foto © Fabrizio Sansoni

Richard Strauss, Salome

Roma, Teatro dell’Opera, 7 marzo 2024

 ★ ★ ★ ★☆

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Salome, un incubo nero

Che cosa hanno in comune Sarah Bernhardt, Theda Bara, Patrick Dupond e Montserrat Caballé? Che hanno interpretato l’inquietante personaggio di Salome rispettivamente a teatro, al cinema, in un balletto, all’opera.

Soggetto ambito dal cinema muto, prima ancora che Strauss presentasse la sua Salome, la “danza dei veli” aveva avuto innumerevoli versioni coreografiche, da Loïe Fuller a Ida Rubinstein a Mata Hari, mentre del dramma di Oscar Wilde da cui deriva si ricordano le discusse interpretazioni di Carmelo Bene e di Lindsay Kemp.

L’opera è stata spesso presente nei cartelloni del Costanzi – l’ultima volta fu nel 2007 – il teatro che ora ospita in coproduzione con l’Opera di Francoforte lo spettacolo in cui il regista Barrie Koski fornisce una prospettiva diversa dal solito: gli spettatori assistono allo svolgimento della nota vicenda come in un incubo notturno, dal fondo buio della cisterna di Jochanaan. «Wie schwarz es da drunten ist! Es muss schrecklich sein, in so einer schwarzen Höhle zu leben! Es ist wie eine Gruft…» (Come è scuro là in fondo! Deve essere orribile vivere in una grotta così nera… È come una tomba…), dice Salome nella seconda scena e infatti il palcoscenico è rigorosamente vuoto e buio. La scenografia di Katrin Lea Tag, che firma anche i costumi, è praticamente assente, le immagini sono bandite, solo Salome e quelli che interagiscono con lei sono illuminati da uno spot luminoso, un raggio di quella Luna onnipresente nel testo. Tutti gli altri personaggi sono solo voci. L’unico oggetto in scena è un gancio da macellaio che nel finale scende dall’alto nel buco del pavimento e risale con la testa del profeta. Un momento di tensione tremenda, quasi insopportabile con quel rullo dei timpani in fortissimo nell’orchestra.

Salome è frequentemente rappresentata ed è un lavoro su cui si è posata la polvere della tradizione. Il regista australiano-tedesco si impegna a eliminare anche il minimo granello di quella polvere sbarazzandosi primo di tutto del kitsch biblico nelle architetture scenografiche e nei costumi: le prime semplicemente non esistono, Kosky rinuncia a ogni forma di visualizzazione; i secondi sono contemporanei, doppio petto grigio su camicia nera per Erode, tailleur Chanel per la moglie, divisa militare per Narraboth e completo nero per il paggio.

Salome è in scena prima ancora che inizi la musica, quando nel buio si sentono rumori inquietanti provenire da ogni punto della sala del teatro. La donna appare con un enorme copricapo piumato che la trasforma in un’attinia/uccello del paradiso, fasciata in un abito lungo in luccicante lamé, abito che cambierà in continuazione rimanendo però nell’ambito dei tre colori simbolici, bianco (verginità), rosso (desiderio) e nero (morte), che sono anche i colori delle caratteristiche del profeta ammirate dalla donna: il bianco della pelle, il rosso delle labbra, il nero dei capelli. Nella sua messa in scena «testo e musica parlano da soli, sono così potenti da non poter essere illustrati», dice il regista. Qui non si viene distratti da seduzioni visive, tutto si concentra sui pochi personaggi illuminati dalla luce fredda ed essenziale di Joachim Klein. Vista e udito giocano con ambiguità in questo lavoro di Strauss in cui l’ingresso in scena dei due personaggi principali è teatralmente differito: di Salome sentiamo parlare dalle guardie che la descrivono e del profeta sentiamo la voce prima di vedere la sua figura. Ma Kosky sceglie invece di mostrarci subito la principessa che è quasi sempre in scena e ne fa il perno su cui ruota la vicenda, il motore attivo. Salome qui non è una figura passiva, vittima delle attenzioni del patrigno, come si è visto in altre produzioni. Per Kosky non si tratta di un dramma borghese, di una storia padre/patrigno-figlia. Il regista restituisce alla vicenda la sua carica intensa e scandalosa di storia d’amore, perverso sì, ma sempre amore. I duetti sono ad alta tensione erotica quando ai sempre più violenti insulti del profeta la principessa di Giudea risponde con crescente eccitazione. Anche Jochanaan viene in parte sedotto dalla ragazza che si avvinghia al suo corpo, ma è solo un momento e la repulsione per la «figlia di Babilonia» prevale nell’integerrimo profeta. 

La tensione culmina nella scena della “danza dei sette veli”, qui del tutto simbolica: la donna estrae dal suo sesso con crescente eccitazione una interminabile treccia di capelli, cresciuti dentro di lei da quella ciocca che lei aveva poco prima strappato al profeta. E mai come qui la sensualità quasi lasciva della musica è messa in evidenza, con quel crescendo nel ritmo e nel volume sonoro che allude a un orgasmo – trent’anni prima della Lady di Šostakovič! Molto efficace è anche la coppia Erode/Erodiade, una coppia quasi buffa in cui l’arroganza e la debolezza del primo si intrecciano con la cinica sicurezza della seconda che sa esattamente quello che vuole: la distruzione del profeta.

Le prime interpreti di Salome furono cantanti wagneriane – «Salome era vista come una continuazione del Tristan e la principessa giudaica la sorella isterica di Isolde», scrive sul programma di sala Antonio Rostagno – ma per la prima italiana al Regio di Torino il 22 dicembre 1906, il direttore, lo stesso Strauss, volle la bellissima Gemma Bellincioni, la Santuzza di Cavalleria Rusticana, che danzò di persona senza servirsi della controfigura, quella «pantomima dell’eros femminile, opposto alla moderazione della donna […] proposta nell’Italia giolittiana» (ancora Restagno). Vocalmente si passava così ad un’interprete del repertorio verista, dalla tecnica vocale imperfetta ma piena di temperamento. Curiosamente, il giorno prima, alla Scala di Milano, Toscanini dirigeva la stessa opera in una prova aperta a un ristretto pubblico. Come sarebbe interessante poter confrontare i due stili interpretativi, quello misurato e distaccato del tedesco e quello vigoroso e quasi aggressivo dell’italiano! 

Marc Albrecht, indiscussa autorità nel repertorio tardo-romantico, sceglie una terza via. Salome è un’opera che spalanca una finestra su un paesaggio musicale completamente nuovo e la sua lettura mette in luce, oltre un secolo dopo, la grande modernità della scrittura straussiana e approfitta dell’occasione offerta dall’Opera di Roma per ridare nuova vita a questa «musica da camera scritta per cento musicisti», tanti sono i particolari strumentali presenti nella partitura. Il suo è un approccio analitico che però tiene sempre conto delle esigenze espressive del testo e nella sua direzione si alternano con sapienza sia il dramma sia la sensualità, senza che una prevalga sull’altra. Molta attenzione è riservata all’equilibrio tra le voci in scena e l’orchestra, soprattutto nel caso della Salome di Lise Lindstrom, che sostituisce l’originalmente prevista Sara Jakubiak, che ha voce sicura negli acuti ma non nel registro medio-basso. Il suo particolare timbro un po’ acerbo esalta il carattere previsto dal regista: una bambina più che una donna, capricciosa ma che sa quel che vuole e lo ottiene, quasi una femminista in anticipo sui tempi. Con la duttilità della voce e una forte presenza scenica il soprano americano delinea alla perfezione la complessità del personaggio.

Non ha problemi di proiezione vocale invece lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, basso-baritono che accentua il tono umano del profeta con un fraseggio espressivo e una grande attenzione alla parola. Il sempre peculiare tenore John Daszak mette in scena un Erode non grottesco, come spesso viene raffigurato, ma tormentato non solo dalla paura ma anche dalla temibile moglie, una efficace Katarina Dalayman. Un magnifico Joel Prieto dà voce all’unico personaggio umano della vicenda, quel Narraboth giovane e appassionato che presto si suicida ed esce così di scena. Eccellente anche il Paggio di Karina Kherunts mentre nella folta schiera degli altri personaggi, in ombra visivamente ma ben presenti vocalmente, si distinguono Michael J. Scott, Christopher Lemmings, Marcello Nardis, Eduardo Niave, Edwin Kaye (i cinque litigiosi ebrei), Zachary Altman e Nicola Straniero (Soldato e Nazareno), Alessandro Guerzoni (Un uomo di Cappadocia) e Giuseppe Ruggiero (Uno schiavo). Ottima prova quella fornita dall’Orchestra del Teatro per bellezza di timbro strumentale, duttilità e precisione nei momenti più complessi.

Il pubblico ha salutato con molta soddisfazione la parte musicale e i suoi interpreti ma ha espresso qualche sparuto dissenso per la parte visiva. Togliere la polvere va bene, ma lasciateci i sette veli, sembrava voler intendere qualcuno senza rendersi conto di aver invece assistito a uno spettacolo quasi memorabile per forza teatrale e carico di una tensione che non ha un momento di stanchezza.

Salome

Richard Strauss, Salome

Amburgo, Staatsoper, 29 ottobre 2023

★★★

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Secondo capitolo della disfunzione famigliare

Fin dove si può spingere un regista nella sua lettura di un’opera lirica? Fin dove può trascurare particolari non trascurabili della vicenda, dell’ambientazione? La domanda è stata posta innumerevoli volte, ma diventa ancora più attuale dopo la Salome di Amburgo che Dmitrij Černjakov ambienta nel tempo presente durante la festa per il compleanno di Erode, dove uno degli invitati è Jochanaan il quale non lascia mai la sala se non alla fine e con la testa ben salda sul collo. E anche il giovane Narraboth se ne va con le sue gambe. Non ci sono morti, non c’è sangue, non ci sono spade nel ricco salone dove Erode tiene esposta la sua colleziona di teste di tutti i materiali. Černjakov utilizza il testo come punto di partenza per un’esplorazione del lato oscuro della vita borghese, dove orribili segreti sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti sono complici nel perpetuare l’oscurità.

In questa famiglia non c’è più nulla di giusto, la comunicazione non avviene più da tempo, il vuoto è riempito da feste come questa cena di vanità di una società decadente di nouveaux riches. Dopo l’Elektra di due anno fa sempre qui ad Amburgo, Černjakov sviluppa ulteriormente la sua lettura dei drammi di Strauss creando così una dilogia della disfunzione famigliare e delle tendenze autodistruttive di personalità morbose, squarciando il velo su veri e propri abissi umani in questa rappresentazione della ricca borghesesia. Invece di tracciare confini gerarchici, il regista fa sedere tutti alla stessa tavola: Erodiade tra Narraboth e gli Ebrei, accanto a lei un soldato, gli Ebrei, i Nazareni. Anche Jochanaan prende posto a capo tavola come l’ospite di riguardo ma anche corpo estraneo a quel mondo volgare e glitterato. Con le spalle al pubblico il regista ottiene l’effetto della voce proveniente dai lontani sotterranei senza però perdere neanche una parola.

Salome arriva tardi alla festa, come se avesse deciso solo all’ultimo momento. Ha messo una gonna di seta sotto una t-shirt punk, scarpe da ginnastica e un piumino. Erodiade va per abbracciarla, ma la figlia la respinge bruscamente. L’esuberante abbraccio con il patrigno Erode è per Salomè una pura presa in giro: è abituata da tempo alla sua lussuria e con la danza ciò diventa abbondantemente chiaro per tutti coloro che non l’hanno ancora capito. Naturalmente, non c’è la “danza dei sette veli”, Salome se ne sta lì in piedi completamente estranea lasciando che il patrigno guardi: per Erode il massimo del piacere non è la lenta rimozione dei veli, ma il vestire la figliastra a proprio piacimento, come una bambola. I costumi di Elena Zaytseva vestono Salomè come un clown triste dal viso bianco, Erode in un completo di seta rosa a fiori, gli altri invitati in modo estremamente appariscente o assurdo.

In un ambiente del genere, l’unico modo per Salome di fuggire è quello di fantasticare su uno degli ospiti – l’intellettuale solitario e occhialuto con la giacca di velluto a coste – per il quale prova un’attrazione tanto maggiore quanto più lui la respinge. Non è attrazione sessuale, l’uomo rappresenta l’unica via di fuga da quel mondo che lei tanto odia. Quando canta «I tuoi capelli sono come uva, come grappoli d’uva nera» si rivolge a un vecchio col riportino, proiettando su di lui un’immagine che si trova solo nel profondo delle sue fantasie di evasione. Man mano che la serata procede, Salome perde ulteriormente il senso della realtà, fantasticando di qualità che non esistono (il bianco della pelle, il nero dei capelli, il rosso delle labbra) e di baciare una testa che non è presente.

Questo approccio di Černjakov potrebbe sembrare forzatamente voyeuristico, ma è il punto di forza di una messa in scena perturbante e che si avvale della straordinaria performance attoriale di Asmik Grigorian che era sembrata insuperabile cinque anni fa a Salisburgo con Castellucci, e invece la sua potenza espressiva qui è ancora maggiore e lo scavo nel personaggio più profondo, il dramma di una solitudine incommensurabile che esplode in momenti di furia distruttrice. Enorme è il contrasto tra la figura fragile sul palco e la voce che emana dal corpo di questa giovane donna che si impadronisce voracemente del registro grave e cerca nel profondo di sé le risorse per fortissimi all’apice della scala sonora. Non solo esegue ogni nota senza errori, ma non c’è nemmeno un briciolo di trepidazione e l’energia che emana è sbalorditiva. Ma Černjakov l’ha voluta anche per le sue qualità di attrice che si sarebbe agevolmente piegata all’originalità della sua proposta. E così è stato. Se con Maria Callas il mondo della vocalità nell’opera è irreversibilmente cambiato settant’anni fa, ora con Asmik Grigorian stiamo assistendo a una rivoluzione altrettanto significativa e il pubblico l’ha perfettamente capito: calato il sipario, dopo una lunga pausa il sipario si è finalmente alzato e con esso il pubblico di fronte alla cantante, sola e ancora stordita, tributandole lunghe ovazioni. E il pubblico raramente sbaglia.

Ritornano Violeta Urmana e John Daszak, la Clitennestra e l’Egisto dell’Elettra, qui Erodiade ed Erode di grande presenza scenica e con i particolari strumenti vocali che li contraddistinguono: il mezzosoprano (dalla Lituania anche lei come la Grigorian) con la sua forza espressiva e il suo temperamento; il tenore inglese con il suo idiomatico timbro e gli sbandamenti di intonazione che se non altro caratterizzano maggiormente il personaggio. Kyle Ketelsen, un Jochanaan autorevole e convincente, si conferma l’artista elegante e raffinato che sappiamo. Oleksiy Palchykov un Narraboth lirico e giustamente disperato, mentre Jana Kurucová offre la sua bella voce al paggio di Erodiade. Oltre che ottimi cantanti si dimostrano anche preziose presenza in scena i cinque Ebrei, i due Nazareni e i due soldati.

Non pare sia piaciuto a tutti Kent Nagano, artista che è stato spesso definito un direttore freddo, analitico, ma che qui sembra un’altra persona, è come se avesse sempre represso una viscerale potenza che è esplosa tutta insieme ora in un direzione che si è dimostrata lontana dai cascami decadentistici, pervasa invece da bagliori accecanti pur senza mai essere troppo frenetica.

La domanda che ci si poneva all’inizio trova la sua risposta nella forte impressione che rimane dopo un simile spettacolo, che rimarrà nella memoria per molto tempo. Sì, ne vale la pena.

Anche l’anno prossimo è previsto un titolo straussiano con la regia di Černjakov. Ancora non si sa quale. Io ci sarò comunque. Attualmente Salome è disponibile gratuitamente su Arte.

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Helsinki, Suomen Kansallisooppera, 7 aprile 2022

(video streaming)

La nudità del profeta

Conosciamo lo stile con cui Christof Loy affronta il melodramma mettendo in scena soprattutto i rapporti psicologici tra i personaggi. Se poi c’è una famiglia disfunzionale, come quella di Erode Antipa, un soggetto del genere il regista tedesco non poteva certo farselo scappare.

La sua Salome è ambientata ai nostri giorni, in un ambiente tutto bianco: un grande salone dalle pareti curve, con due porte ai lati. Nella scenografia di Johannes Leiacker gli unici elementi sono una poltrona di pelle e un masso grigio in mezzo alla stanza. Semplice il compito per il costumista Robby Duiveman: in questo mondo maschile tutti portano un completo nero, anche Salome, che all’inizio vuole conformarsi al modello maschile poi se ne emancipa e nel finale veste un abito da sera e gioielli. Trasformazione al contrario per Jochanaan, da profeta nudo (letteralmente) a borghese in completo nero. L’unica che veste sempre da donna è Erodiade.

Messi a nudo i rapporti interpersonali, Loy esalta la recitazione in un magistrale gioco di sguardi e gesti, un gioco attoriale superbo. Impagabili sono le reazioni dei cortigiani alla follia di Salome e alle sue provocazioni che sfociano in tentativi di violenza di gruppo in una frenesia di movimenti in perfetta sintonia con la musica, e non è l’unico momento in cui in scena vediamo azioni in totale adesione con la partitura di Strauss. La danza dei sette veli qui è una messa in scena dei tesi rapporti tra i tre personaggi, con Salome che ancora una volta provoca i due uomini, Erode e Jochanaan, per poi concedersi alla fine al tetrarca. Il lungo monologo necrofilo sulla testa mozza di Jochanaan qui è una scena di seduzione nei confronti del profeta, vivo e tirato a lucido, con il quale alla fine scappa: gli ordini di Erode, quello di decapitare l’uomo e di uccidere la donna, restano dunque ineseguiti, espressione della totale impotenza di un personaggio che ha perso i tratti caricaturali con cui viene abitualmente presentato: Erode qui è un giovane con i baffetti e i capelli impomatati alla Clark Gable, affetto da precoce morbo di Alzheimer e apertamente attratto sessualmente dalla figliastra. La parte, che sovente è assegnata a cantanti in fin di carriera, qui è affidata a Nikolai Schukoff, voce potente e presenza perfettamente coerente con le intenzioni registiche. Scenicamente efficace, ma non vocalmente invece, l’Erodiade di Karin Lovelius.

Vida Miknevičiūtė (Salome) è un altro di quei soprani lituani che si aggiunge alla folta schiera di grandi cantanti forniti dal paese baltico. Una non grande varietà di fraseggio è compensata dalla grande proiezione vocale e dalla sicurezza negli acuti. Eccellente la presenza scenica della biondissima interprete, ma è la catterizzazione dei personaggi a essere portata a un livello altissimo in questa produzione. Dopo l’Euryanthe dello stesso Loy c’è un’altra prova adamitica per Andrew Foster-Williams. Il basso-baritono inglese non ha la statura vocale per il personaggio di Jochanaan, i suoni sono fissi o all’opposto traballanti e l’intonazione non sempre perfetta e manca dell’autorità che ci si aspetta dalla figura del profeta, ma è perfettamente aderente alla lettura borghese del personaggio voluta dal regista. Narraboth è un ottimo Mihails Čuļpajevs e globalmente positiva è la prova dei tanti altri interpreti secondari, quasi tutti finlandesi. Hannu Lintu alla guida dell’orchestra del teatro si fa notare per la nitidezza sonora che non copre mai i cantanti, ma i momenti di tensione, quasi da thriller, dell’opera sono sempre ben resi.

Il video dello spettacolo può essere visto qui.

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 19 février 2021

 Qui la versione italiana

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Salomé comme Hamlet selon Michieletto à la Scala

La Salome de Richard Strauss est un opéra on ne peut plus  nécrophile : le nom Tod (mort) et l’adjectif tot (mort) reviennent pas moins de vingt fois dans le court livret qui suit fidèlement le texte d’Oscar Wilde. Avant même que Salomé n’embrasse la bouche du cadavre du Baptiste, on entend parler d’une lune qui « ressemble à une morte », de quelqu’un qui glisse sur le sang d’un cadavre, de morts ressuscités… et la dernière ligne du livret n’est autre que « Man töte dieses Weib ! » (« Tuez cette femme ! »). Sans oublier la référence aux anges de la mort, ponctuellement rendus visibles avec leurs ailes noires par Damiano Michieletto, sur la scène du Teatro alla Scala où l’on peut enfin voir ce spectacle, annulé il y a un an en raison de la pandémie (du moins en streaming puisque le théâtre est toujours fermé au public)…

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Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 19 febbraio 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

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Salome come Amleto: c’è del marcio in Galilea

Opera quanto mai necrofila la Salome di Richard Strauss: il sostantivo Tod (morte) e l’aggettivo tot (morto) ricorrono ben venti volte nel breve libretto che ricalca fedelmente il testo di Oscar Wilde.

Prima ancora che Salome baci la bocca del cadavere del Battista, sentiamo di una Luna che «sembra una donna morta», c’è chi scivola sul sangue di un cadavere, di morti risuscitati… e l’ultima battuta è nientemeno che «Man töte dieses Weib!» (ammazzate ‘sta donna!). E non dimentichiamo il richiamo agli angeli della morte, puntualmente portati in scena con le loro ali nere da Damiano Michieletto sul palcoscenico del Teatro alla Scala dove finalmente si può vedere lo spettacolo annullato un anno fa per le note vicende pandemiche, anche se solo in streaming e a teatro chiuso al pubblico.

La lettura del regista veneziano è quanto mai fedele al testo, che rilegge in chiave simbolica e psicanalitica (sono gli anni di Sigmund Freud quelli in cui Strauss compone l’opera) la vicenda biblica dei figli di Erode il Grande, ossia Erode Antipa (tetrarca della Galilea tra il 4 a.C. e il 39 d.C.) ed Erode Filippo (tetrarca di Iturea, Traconite e Golan tra il 4 a.C. e il 34 d.C.). Alla morte di quest’ultimo – la storia si situa dunque tra il 34 e il 39 d.C. – Erode Antipa ne aveva sposato la moglie che aveva dato precedentemente alla luce una figlia, Salome, la quale è quindi figliastra dello zio. Esattamente come Amleto. E anche qui ci sono sospetti che il primo marito sia stato fatto fuori dal secondo, sembra suggerire Michieletto, che per prima cosa ci mostra l’albero genealogico della famiglia affinché sia chiaro che è sui rapporti famigliari che si basa la sua lettura: Salome rivede sé stessa bambina con il padre che le regala una bambola prima di metterla a letto, e la figura della bambina ritornerà a più riprese nel corso dello spettacolo. Questa è una chiave di lettura certo non inedita, ma cara al regista che l’ha applicata ad altri suoi spettacoli quali Guillaume Tell e Macbeth.

L’allestimento si basa sui colori menzionati nel testo: il bianco, il nero e il rosso. Il primo è il colore della reggia di Erode, un ambiente di un candore abbagliante nella tersa scenografia di Paolo Fantin, incorniciato da fredde luci al neon; il nero è quello della terra della prigione di Jochanaan e della Luna che scende dall’alto; il rosso ovviamente è quello del sangue di Narraboth e della testa del Battista che cola nel bacile d’argento. Il fondo della scena si apre per i ricordi d’infanzia ridestati dalla voce del Profeta o per il banchetto di Erode e non manca la cisterna circolare tagliata nel pavimento da cui emerge Jochanaan. Durante la “danza dei sette veli” la protagonista rivive il suo rapporto col padre e contemporaneamente quello probabilmente incestuoso col patrigno, impersonato da figure maschili con maschera che alla fine la vestono con un abito bianco da cui pendono lunghi fili rossi, abito che ascende al cielo. Con la morte di Jochanaan il sacrificio sarà compiuto. L’agnello sgozzato, il sangue versato dal calice, tutto rimanda alla figura del Battista. Un altro forte rimando figurativo è quello della sua testa aureolata e raggiata come nel quadro di Gustave Moreau L’apparition (1877). Ancora una volta la magia del collaudato team di Michieletto – Paolo Fantin scenografo, Alessandro Carletti luci, Carla Teti costumi – rende questo uno spettacolo visivamente coerente e intrigante.

Sul piano musicale c’è da segnalare la grande prova di Riccardo Chailly che arrivato a sostituire Zubin Mehta aggiunge Strauss alla sua lettura delle opere di fine ‘800 e inizio ‘900 (Verdi, Puccini, Giordano) con questo lavoro che ha già in sé tutta la modernità a venire, dal taglio della vicenda, alla strumentazione, alla densità sonora che passa da momenti di magniloquente turgidità ad altri di estrema rarefazione, da quelli di una morbosa sensualità ad altri secchi e quasi rumoristici. Il tutto è magnificamente realizzato grazie a un’orchestra in grande spolvero che occupa la platea in tutta la sua estensione con prevedibili problemi di distanza che qui però sono magistralmente risolti.

Degli interpreti previsti l’anno scorso non c’è ovviamente traccia: debutta alla Scala il soprano russo Elena Stikhina, voce non enorme ma più che sufficiente ad affrontare la temibile tessitura della protagonista che delinea con espressività e felice presenza scenica, ma la sua performance non riesce a far dimenticare quella a Salisburgo di Asmik Grigorian. Nello Jochanaan di Wolfgang Koch è difficile trovare la diafana magrezza – «Com’è consunto! È come una statua d’avorio» – che fa innamorare la fanciulla, ma sembra non sia un requisito facile da reperire in un cantante che deve avere un volume sonoro consistente per la parte, come è il caso del basso-baritono tedesco che ritorna nel ruolo dopo Monaco. Meno petulante di come viene spesso presentato è l’Herodes di Gerhard Siegel ascoltato a Torino due anni fa e meno megera e sfiatata del solito la Herodias di Linda Watson, entrambi perfetti scenicamente. La parte lirica dello sventurato Narraboth è efficacemente interpretata da Attilio Glaser mentre Lioba Braun presta il suo caldo timbro mezzosopranile al Paggio, qui la governante di Salome, inerme testimone delle nefandezze di questa famiglia quanto mai disfunzionale.

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Amsterdam, het Muziektheater, 18 giugno 2017

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Una Salome moderna e lineare

Neanche più al MET Salome viene ambientata ai tempi biblici e nei luoghi della Galilea – già nel 1989 qui a New York Nikolaus Lehnhoff l’aveva trasferita ai tempi di Oscar Wilde: i metteur en scène di oggi preferiscono attualizzarne la storia per dare frisson più forti al pubblico, che non è più quello facilmente scandalizzabile del 1905.

Rientra quindi nella normalità la scelta del regista Ivo van Hove, dello scenografo Jan Versweyveld e del costumista An D’Huys di presentarci la cruda vicenda come se fosse di oggi, in un palazzo del potere come ce ne sono ovunque nel mondo, in una famiglia disfunzionale come tante. Dietro un grande semicerchio tenuto sempre in ombra si apre in una calda luce dorata una stanza lussuosamente arredata in cui passano uomini in uniforme o vestiti elegantemente, ambasciatori stranieri e camerieri affaccendati con vassoi e bicchieri. Là si svolge un incontro politico ad alto livello, qua la vicenda di una famiglia borghese. In mezzo al palcoscenico una botola si spalanca sulla cisterna in cui è tenuto prigioniero Jochanaan. La luna, che è quasi un personaggio in questo dramma e viene citata fin dalle prime battute, compare splendente a sinistra per poi ingrandirsi e scurirsi salendo sull’orizzonte fino a scomparire in una inquietante eclisse.

In una delle prime versioni della Salome di Gustav Moreau il corpo della donna che danza sembra coperto di tatuaggi, ma è probabilmente effetto dei ricami del velo che la copre. Veri sono invece i tatuaggi – e una canottiera cela opportunamente alla vista la svastica (ora coperta) a causa della quale aveva dovuto abbandonare il festival di Bayreuth nel 2012 – di Evgenij Nikitin, improbabile profeta che sembra appena sceso da una Harley-Davidson e che invece dei capelli neri («Hai i capelli come grappoli d’uva, ciocche di nera uva, nelle vigne di Edom […] Nulla nel mondo è nero come i tuoi capelli» dice Salome) sfoggia una bionda e ingrigita coda di cavallo. Neppure il resto dei lineamenti e del corpo corrispondono, ma si sa, la ragazza vede quello che vuole vedere. Vocalmente il timbro chiaro e potente del baritono russo è giusto quando canta fuori scena, quando appare in figura è un po’ meno credibile. Il regista ci fa capire che l’ascetico uomo del deserto è tutt’altro che immune al fascino della donna e reagisce con la violenza delle sue invettive religiose proprio per celare le pulsioni erotiche che lo tormentano. Pulsioni che rispondono ai sogni erotici di Salome, che vediamo proiettati durante la sua danza, con la donna che si immagina di piroettare col profeta anche quando afferra qualcuno del suo pubblico.

Per il resto la lettura di Van Hove è lineare e fedele alla vicenda – c’è anche “l’anello di morte» del tetrarca e la danza è eseguita dalla protagonista. Unica libertà è il piatto d’argento sul quale non viene presentata solo la testa di Jochanaan, ma tutto il suo corpo sanguinolento su cui si struscia morbosamente Salome, qui Malin Byström, soprano dalla voce più chiara di quanto ci si aspetti e dal registro basso non molto proiettato, ma dalla sicura tecnica e dal giusto fisico. Figlia ribelle di una famiglia anomala, il personaggio delineato dall’artista è una giovane ragazza che prende col tempo coscienza della propria femminilità, ma il soprano svedese ha una freddezza e una sensualità non molto coinvolgenti, anche se il pubblico è prodigo di applausi. Del resto del cast sono da ricordare le efficaci prove di Lance Ryan (un Herodes per una volta non isterico e sopra le righe e sempre cantato), Doris Soffel (Herodias, parte in cui si è con successo presentata molte volte nel passato), Peter Sonn (Narraboth) e Hanna Hipp (paggio). Ottimi i cinque Giudei e i due Nazareni. La lettura di Daniele Gatti è pulita, mai magniloquente e dalla tersa liricità, ma spinta da un crescendo drammatico teatralmente ben calibrato.

Gustave Moreau, Salome, 1876

Salome

Richard Strauss, Salome

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 6 luglio 2019

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Salome e i conti della Germania col suo passato

Questa volta la fidata scenografa Małgorzata Szczęśniak non ha costruito un lucido ambiente ipermoderno per la produzione di Krzysztof Warlikowski: siamo invece nella libreria di una ricca famiglia ebraica durante il Terzo Reich, le pareti sono occupati da scaffali di legno fino al soffitto in cui alcuni ripiani sono crollati sotto il peso dei volumi e un vecchio servitore in livrea azzurra riordina. Il sipario si chiude e si riapre, ma invece delle prime note dell’opera di Strauss, un signore vestito da madre in gramaglie intona “Nun will di Sonn’ so hell aufgeh’n», il primo dei Kintertotenlieder di Mahler, per il ristretto pubblico di invitati  mentre un uomo con la maschera tipica del cattivo giudeo si aggira come un clown grottesco arraffando catene d’oro. La musica è registrata e la voce che scoltiamo è quella di Kathleen Ferrier diretta da Bruno Walter nel 1949. All’improvviso il concerto viene interrotto da forti rumori fuori scena, come se volessero abbattere la porta d’ingresso, e inizia la vicenda di Salome.

Assediata dai Nazisti, nel ghetto di una qualche città, una piccola comunità inscena l’episodio biblico della “corte di Erode” e alla fine, quando ormai ogni speranza di salvezza è vana, commette un suicidio collettivo con un veleno fornito nientemeno da Narraboth, morto da un’ora, mentre anche Jochanaan è vivo e vegeto e fuma una sigaretta in attesa che irrompano i Nazisti.

A differenza degli italiani, i tedeschi continuano a fare i conti col loro passato e anche nell’opera il rimando critico all’antisemitismo è frequente, per lo meno da parte di registi stranieri – non ultimo quello dell’ebreo Barrie Kosky nel sancta sanctorum di Bayreuth con I maestri cantori wagneriani. Warlikowski qui gioca le sue carte senza preoccuparsi della razionalità del racconto e come spesso accade fa prevalere il suo Konzept, forte quanto imperscrutabile. La regia comunque non snatura la musica e il momento della “danza dei sette veli”– chissà che cosa si sarà inventato ‘sto diavolo di polacco? – scivola via senza scalpore: Salome danza, e anche bene, affiancata da un maturo ballerino con la maschera della morte, una Totentanz poco lasciva che comunque soddisfa il tetrarca. Ovviamente tutte le componenti orientaleggianti dell’ambientazione sono assenti e alla logica del metteur en scène si piega il Narraboth non più capo delle guardie bensì semplice invitato innamorato della principessa «così pallida che sembra l’ombra di una rosa bianca in uno specchio d’argento». Una curiosità: questa Salome di Warlikoski è la prima a non eccedere in truculenza nella scena del bacio. La testa mozza di Jocahanaan non si vede mai, rimane nella scatola di metallo, e non una goccia di sangue sporca il vestito di Salome, già rosso di sé.

Trionfatore della serata è Kirill Petrenko che alla guida della magnifica orchestra del teatro riesce a infondere allo spettacolo quella luce che manca nella regia. Due soli esempi della sua magistrale lettura: le livide sonorità da brivido quando si accenna alla cisterna in cui è rinchiuso il profeta che spunta dal pavimento che si è aperto a metà dividendo definitivamente Narraboth da Salome. E poi il mai prima notato tono da operetta quando nel finale Salome canta «Nichts in der Welt | war so weiß wie dein Leib. | Nichts in der Welt | war so schwarz wie dein Haar. | In der ganzen Welt | war nichts so rot wie dein Mund» (1) su una suadente melodia che sembrerebbe uscita dalla Vedova allegra di quello stesso anno, il 1905.

Altrettanto trionfale è l’accoglienza per la Salome di Marlis Petersen. Non sono poche le interpreti (anche recenti, come Asmik Grigorian, la Salome di Castellucci a Salisburgo) che hanno raggiunto vette elevate, ma il soprano tedesco ha una freschezza vocale perfetta per il personaggio, con un registro acuto di intensità e luminosità non comuni e intensa espressività.

Due grandi caratteristi sono Wolfgang Ablinger-Sperrhacke e Michaela Schuster e con loro Herodes e Herodias sono perfettamente definiti. Autorevolissimo Jochanaan è quello di Wolfgang Koch e Narraboth di lusso Pavol Breslik. Ottimi anche il paggio, qui una giovane donna, Rachel Wilson, e il resto di “giudei, nazareni, soldati, schiavi”.

(1) Non c’era nulla al mondo bianco come il tuo corpo. Non c’era nulla al mondo nero come i tuoi capelli. Nel mondo intero non c’era nulla di così rosso come la tua bocca.

Salome

© Salzburger Festspiele / Ruth Walz

Richard Strauss, Salome

Salisburgo, Felsenreitschule, 28 luglio 2018

★★★★☆

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La tragedia dello sguardo negato

Il marchigiano Romeo Castellucci – «provocative Italian stage director» secondo il New York Times che così lo definisce dopo la rappresentazione del suo Shakespeare a Wall Street – lavora solo all’estero, qui sarebbe troppo provocative: «ho lavorato in tutte le Fondazioni liriche, tranne che alla Scala» dice sconsolato il regista. A Salisburgo invece c’è chi paga 430€ per vedere la sua Salome e le recite sono tutte ausverkauft.

Nel silenzio riempito solo dal frinire di cicale, sullo smisurato palcoscenico della Felsenreitschule si apre il sipario nero su cui sono proiettate le parole “TE SAXA LOQUUNTUR”, il motto di Salisburgo. Le 96 arcate scavate nella roccia sono state tappate così da formare un immane muro di pietra che si riflette sul pavimento di specchio dorato. Avanzano due personaggi vestiti di nero e coi visi dipinti a metà di rosso, sembrano  imbavagliati o appena emersi da un bagno di sangue. Uno di essi è Narraboth, che con la limpida e lirica voce di Julian Prégardien intona «Wie schön ist die Prinzessin Salome heute nacht!» (com’è bella stanotte la principessa Salome) sulle note fluide dei legni («ziemlich fliessendes Zeitmass», con tempo piuttosto scorrevole prescrive la partitura) e il tremolo dei violini secondi, mentre gli altri archi, divisi in 10 sezioni (!), alcuni con sordina altri senza, sostengono una sola nota. Inizia così, con questa raffinatissima semplicità una delle più sconvolgenti opere del Novecento, qui sotto la direzione di Franz Welser-Möst che lascia ai Wiener Phiharmoniker la libertà di esprimere la bellezza dei suoni dei loro strumenti dando una lettura di questa partitura che prefigura tutta la musica che seguirà.

La drammaturgia di Castellucci, autore anche di scene, costumi e luci, inizialmente non sconvolge la vicenda, aggiunge solo alcuni particolari rivelatori: al muro sono appese fruste e finimenti per cavallo e quando nel pavimento si apre la botola circolare che rinchiude il profeta i soldati si portano un fazzoletto alla bocca per ripararsi dal fetore che esala dal sotterraneo. Salome entra correndo spaventata dallo sguardo che il patrigno ha posato su di lei e l’abito bianco è macchiato di sangue, come se avesse appena avuto la sua prima mestruazione. Il confronto di Salome con Jochanaan è visualmente netto: lei tutta in bianco con una corona dorata sul capo come la statua di una Madonna in processione, lui nero come la pece con piume di corvo in testa, una pelliccia nera e su uno sfondo altrettanto nero da cui si fa fatica a discernerne le fattezze. Altro che l’«immagine d’avorio» del libretto!

Salome qui è un’esile figura e la sola a non avere quella specie di maschera che si scioglie sotto il sudore. Non è la viziata e morbosa smorfiosa che si ostina ad avere il suo “regalo”, è una ragazza che ha perso l’innocenza ed è più vittima che carnefice, l’unico essere con un po’ di umanità in un mondo senza sentimenti. E alla fine la beffa, il sogno infranto: non viene portato il capo, bensì solo il corpo nudo e acefalo del profeta e il bacio tanto desiderato è nel vuoto. Salome si immerge nell’acqua di una cisterna in attesa della morte ordinata dal Tetrarca.

Anche l’altro momento topico della vicenda, la danza dei sette veli, è trattato da Castellucci in maniera da sconvolgere tutte le attese: Salome si rannicchia svestita e legata in posizione fetale sul trono del patrigno, un cubo dorato, del tutto immobile fino a che un cubo, fatto della pietra uguale a quella dello sfondo della scena, cala dall’alto a inglobarla. Il regista qui gioca non solo con le aspettative del pubblico, ma sul concetto di visione negata, come quando Salome si lamenta: «Ah! Perché non mi hai guardato, Jochanaan? Sopra i tuoi occhi ponesti la benda di colui che contemplava solamente il suo dio. Ecco! Il tuo dio l’hai visto, Jochanaan, invece me, me, non m’hai guardata mai. M’avessi tu guardato, certo m’avresti amata!».

Molti sono i momenti in cui la visionarietà di Castellucci mette a prova l’intelligenza e l’intuizione degli spettatori: la pozza di latte, il cavallo nero la cui testa mozzata sostituisce poi quella del profeta, la rock band silenziosa in scena, i pugili immobili eccetera, ma il successo della serata è assicurato dalla presenza nella parte del titolo del soprano lituano Asmik Grigorian, che fa palpitare i cuori per la sua sensibile e intensa caratterizzazione del personaggio di cui sottolinea la fragilità e la diversità rispetto a tutti gli altri. Vocalmente luminosa e a suo agio nelle asperità di una parte che la tiene quasi sempre in scena, senza denunciare mai la fatica esalta la modernità della scrittura vocale con il ricorso a momenti di quasi sprechgesang e dissonanze. Bisogna ascoltare come ripete la sua richiesta al Tetrarca articolando ogni volta in modo diverso le consonanti e le vocali di «den Kopfs des Jochanaan!».

John Daszak e Anna Maria Chiuri sono due interpreti di cui non si è mai ammirata certo la bellezza del timbro, ma anche se coerenti con i personaggi, i suoni poco intonati di Erode e le asprezze di Erodiade qui sono talora al limite dell’accettabile. Vocalmente imponente ma un po’ rozzo lo Jochanaan di Gábor Bretz mentre del Narraboth di Julian Prégardien, qui senza barba, si è già detto per quanto riguarda la purezza della linea e la soavità del timbro. Eccellenti gli altri interpreti che si affollano in scena.