Joseph Gregor

Daphne

Richard Strauss, Daphne

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 25 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

La ninfa assiderata

Per Daphne, l’op. 82 di Richard Strauss messa in scena da Romeo Castellucci per la prima volta a Berlino, altro che assolata Grecia classica! Sul palcoscenico della Staatsoper unter den Linden nevica in continuazione anche se il Secondo Pastore afferma che «Die Herde trieb ich zum Fluß. | Nach des Tages Glut» (ho portato il gregge al fiume dopo il giorno assolato»! Invece del sole («sole, fecondo splendor» canta ancora Daphne) c’è una nebbia raggelante e i pastori sono dei cacciatori in giacche a vento e cappucci di pelliccia. L’enigmatica installazione rende raggelante la “tragedia bucolica” che Strauss scrive nei suoi ultimi anni, la sua tredicesima opera.

Basata sulla figura mitologica della Dafne delle Metamorfosi di Ovidio e con elementi tratti da Le Baccanti di Euripide, era stata inizialmente intesa dal compositore come parte di un dittico comprendente Friedenstag, l’op. 81 in un atto anch’essa su libretto di Joseph Gregor, ma la lunghezza che aveva nel frattempo assunto la Daphne gli fece cambiare idea e l’opera vide la luce da sola nell’ottobre 1938 alla Semperoper di Dresda diretta da Karl Böhm a cui era stata dedicata mentre Friedenstag fu preceduta dal balletto Le creature di Prometeo con musiche di Beethoven nel luglio di quello stesso anno.

La casta Dafne canta un inno di lode alla natura: ama la luce del sole come gli alberi e i fiori, ma non ha interesse per le storie d’amore umane. Non vuole ricambiare l’amore dell’amico d’infanzia Leukippos e si rifiuta di indossare gli abiti da cerimonia per l’imminente festa di Dioniso, lasciando a Leukippos l’abito che ha rifiutato. Il padre di Dafne, Peneios, dice agli amici di essere certo che gli dèi torneranno presto tra gli uomini. Consiglia di preparare un banchetto per accogliere Apollo. Proprio in quel momento appare un misterioso mandriano. Peneios manda a chiamare Dafne perché si occupi del visitatore. Lo strano mandriano dice a Dafne di averla osservata dal suo carro e le ripete le frasi dell’inno alla natura che aveva cantato prima. Le promette che non dovrà mai separarsi dal sole e lei accetta il suo abbraccio. Ma quando lui inizia a parlare d’amore, lei si spaventa e scappa. Alla festa di Dioniso, Leukippos indossa il vestito di Dafne e la invita a ballare. Credendolo una donna, la ragazza accetta, ma lo strano mandriano interrompe la danza con un tuono e dice che è stata ingannata. Dafne risponde che sia Leukippos che lo straniero sono travestiti e lo straniero si rivela il dio del sole Apollo. Dafne rifiuta entrambi i pretendenti e Apollo trafigge Leukippos con una freccia. Dafne piange con Leukippos morente. Apollo è pieno di rammarico. Chiede a Zeus di dare a Dafne una nuova vita sotto forma di uno degli alberi che lei ama. Dafne si trasforma e gioisce della sua unione con la natura.

«Con il suo candore, l’aggraziata figura di Dafne aggiunge un ennesimo ritratto di ulteriore varietà alla galleria straussiana di personaggi femminili. Dalle morbosità di Salome ai dubbi di Madeleine, Strauss pone sempre al centro dei suoi interessi drammaturgici lo scandaglio dei misteri della psicologia femminile. La lunga consuetudine con Hofmannsthal lo aveva abituato a rileggere i miti classici in chiave simbolica, intridendoli di quelle sfumature introspettive che suonano sempre moderne per la loro inedita verità umana. La Fremdheit, ossia il senso di estraneità provato da Dafne verso le persone che la circondano, è una nozione propria del pensiero contemporaneo, che viene qui a intrecciarsi alle riflessioni sul rapporto natura-civiltà, fin dal primo monologo della protagonista. Sorella di fiori, vento e alberi, anelante a una fusione panica con la natura che la circonda, Dafne conosce in questa libera rivisitazione del mito classico una metamorfosi interiore che precorre quella fisica. Dall’inconsapevole egoismo con cui respinge Leucippo, giungerà a provare un’infinita pena per la sofferenza inflittagli, cogliendo il mistero dell’amore dall’abisso della morte. I temi della rinuncia e della compassione, già cari a Schopenhauer, si riallacciano anche al precedente teatro straussiano, che Hofmannsthal aveva saputo intridere di spunti filosofici, ora dissimulandoli come nel Rosenkavalier, ora trasfigurandoli in un alone fiabesco come nella Frau ohne Schatten. Dafne irradia sugli altri personaggi il fascino della sua personalità, racchiusa nel tema di esordio, luminoso e insieme sfuggente: una sorta di fregio liberty, le cui linee sinuose preconizzano il destino arboreo della fanciulla. L’intera partitura è intessuta delle frequenti riproposizioni di questo motto, così come il testo è percorso da allusioni premonitrici (“La tua bocca di fiore”, dice Leucippo a Dafne; e la madre Gea: “Sei un fresco germoglio”). E quando Apollo si commuove al dolore della fanciulla, abbandona il suo tono abituale – fra l’eroico e il parsifaliano – per adottare l’arabesco melodico dell’amata, a riprova della consonantia cordis tardivamente acquisita. Nelle intenzioni di Gregor, Daphne avrebbe dovuto concludersi con un grande coro di commento alla metamorfosi; ma Strauss giudicò che un simile finale da ‘cantata scenica’ non sarebbe stato pertinente al clima spirituale dell’opera, e preferì suggellarla nel segno della purezza liliale di Dafne, la cui voce lascia riecheggiare il tema curvilineo dissolvendolo in vocalizzi, con l’arcana fissità dell’avvenuta metamorfosi. La cornice pastorale lascia risplendere finezze di strumentazione: i legni si intrecciano in impasti sempre rinnovati, con una gentilezza di tono che fa pensare alla spuma delle onde cui le due ancelle dicono di assomigliare. Con Leucippo penetra nell’opera una componente faunesca: il suo furore dionisiaco e il suo flauto pastorale sembrano davvero usciti da un quadro di Böcklin; eppure anch’egli sarà risucchiato nell’universo vegetale di Dafne, accettando per amor suo di fingere movenze femminili. Del resto la scena del travestimento ripropone un tema caro a tutto il teatro straussiano, ereditato dal modello delle stuzzicanti ambiguità delle Nozze di Figaro. Un elemento naturalistico molto ben caratterizzato è quello del calpestio degli armenti, ritratto da un brontolìo dei timpani e da increspature cromatiche degli archi; in tal modo si introduce una nota di concreta quotidianità in una vicenda di minimi trasalimenti psicologici, di sentimenti in boccio, tanto fragili e inconfessati da non venire riconosciuti se non quando la tragedia li annienta con prepotenza. Nei declamati, l’arte di Strauss consolida gli esiti di Arabella; e se nelle parti affidate a Dafne si percepisce ancora un profumo Jugendstil (le volute che ornano la conclusione della prima aria della protagonista), la danza bacchica rievoca la ritmica fremente di Elektra. Alla scrittura sostanzialmente diatonica della partitura (soprattutto nelle frasi innodiche e distese di Apollo, in specie quando svela la propria natura divina con l’arioso “Jeden heiligen Morgen”) si sovrappone a poco a poco un cromatismo trepidante, che culmina nella metamorfosi, nel compimento dell’anelito arboreo di Dafne, trasfigurazione in volute sonore del febbrile attorcersi di vegetazioni liberty». (Elisabetta Fava)

Anche se i bucolici fiati del preludio annunciano l’imminente “Festa della vite fiorita”, in questa produzione noi vediamo un’Arcadia sconvolta dai cambiamenti climatici, dove nevica ininterrottamente mentre l’aurora boreale brilla all’orizzonte. L’orgiastica danza tra i principi contrastanti dell’apollineo e del dionisiaco qui è una battaglia a palle di neve dei ballerini nelle loro tute da dopo sci. Ma per Dafne fa ancora troppo caldo e si libera degli abiti per rimanere in indumenti intimi agitandosi intorno al magro scheletro di un albero, l’ultimo esemplare che stenta a sopravvivere in questo ambiente desolato. Non desta sorpresa che la ninfa sia così attratta da lui, ma lei alla fine lo sradica e questo pende tristemente nell’aria come il frontespizio di The Waste Land di T.S. Eliot, uno dei pochi elementi, assieme a un bassorilievo, che facciano riferimento alla storia, al tempo che passa, perché altrimenti qui tutto è congelato in un tempo immoto. Nel finale la ninfa non si trasforma in alloro, ma si spalma di fango e scompare nella buca in cui stava la pianta. E sul pilastro a sinistra, su cui troneggia un contenitore di sangue finto, la scritta LUI si è nel frattempo trasformata in LEI. Come negli spettacoli di Castellucci non pochi sono gli enigmi posti e non risolti, rimanendo sempre primario l’aspetto visivo qui esaltato dal mirabile gioco luci curato dallo stesso regista che disegna anche la magra scenografia. Castellucci porta il mito antico nella realtà di oggi sconvolta dai cambiamenti climatici, ma il lavoro di Gregor/Strauss sembra andare da tutt’altra parte.

Cacciata dal palcoscenico, la rigogliosità della natura trova sfogo nella buca dell’orchestra con la direzione di Thomas Guggeis che rende la lussureggiante partitura con mano esperta anche se non con risultati trascinanti: l’aspetto dionisiaco non emerge e la lenta metamorfosi strumentale finale non è esaltata dalla sua bacchetta.

Cinque i personaggi in scena: René Pape, il padre Peneios, utilizza al meglio strumenti vocali non ancora usurati; Anna Kissjudit, la madre Gaea, è una sorta di Erda wagneriana dalla profonda voce di contralto; per i due ruoli tenorili di Apollo e Leukippos Strauss richiede una tessitura e una tenuta vocale impervie e sia Magnus Dietrich che Pavel Černoch, ma soprattutto quest’ultimo, non si dimostrano del tutto all’altezza della prova; Vera-Lotte Böcker ha una fresca voce lirica che esalta la giovanile presenza del personaggio ma meno il suo risvolto drammatico.


Die Liebe der Danae

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★★☆☆☆

L’ “operetta” di Strauss

È del 1908 Danae, la tela realizzata da Gustav Klimt e appartenente ora a una collezione privata: una figura di fanciulla rannicchiata in posizione fetale è immersa nel sonno ed è racchiusa in una forma ellittica formata dai suoi capelli fulvi, da un velo prezioso e da una pioggia d’oro. Che cade tra le sue gambe…

Chissà se Hugo von Hofmannsthal conosceva il dipinto, fatto sta che nel 1920 propone a Richard Strauss il canovaccio di una nuova opera intitolata Danae o il matrimonio di convenienza di argomento appartenente al mito dell’antica Grecia, trattato però in maniera impertinente, à la Offenbach, ma il progetto viene accantonato. A distanza di anni Strauss rispolvera l’embrione operistico affidandone il testo a Joseph Gregor (Hofmannsthal era scomparso nel 1929) e il libretto risente della frattura fra le mete artistico-simboliche dell’ideatore e gli orizzonti più modesti del prosecutore. Strauss lavorò alla partitura nel periodo 1937-1939 per poi soccombere alla malattia, che causò un rinvio di diversi mesi e l’opera fu finalmente terminata il 28 giugno 1940.

La sfortuna di Die Liebe der Danae (L’amore di Danae) prosegue nelle peripezie incontrate al momento di essere messa in scena: inserita nel cartellone del Festival di Salisburgo per l’anno 1944 e ormai allestita e provata sotto la bacchetta di Clemens Krauss, l’opera non poté essere rappresentata perché, in seguito al fallito attentato a Hitler, il festival fu immediatamente sospeso, tutti i teatri chiusi e il compositore per il suo ottantesimo compleanno dovette accontentarsi della prova generale aperta al pubblico. La vera prima dovette attendere perciò il dopoguerra, ma quando lo stesso Krauss la diresse nel 1952, sempre a Salisburgo, Strauss era già morto da tre anni.

Atto primo. La vicenda narra di Polluce, re di Eos, che sull’orlo della bancarotta finanziaria spera di risolvere la situazione accasando la bella figlia Danae a un buon partito. E chi è meglio di quel re Mida che può trasformare in oro quel che vuole? La ragazza non è insensibile al prezioso metallo giacché ricorda la pioggia d’oro con cui aveva provato tanto piacere in sogno e che sappiamo trattarsi di uno degli innumerevoli travestimenti del re dei numi. Prima di Mida arriva però Crisofero, il portatore d’oro, in realtà lo stesso Mida travestito da servo, e i due si innamorano. Con il nome di Mida arriva invece Giove stesso che saluta Danae come sua sposa.
Nel secondo atto facciamo la conoscenza di quattro regine, tutte ex-amanti dell’impenitente nume: Leda, Europa, Semele e Alcmene, le quali rimproverano a Giove il sotterfugio adoperato per conquistare Danae. Giove spiega loro che è servito a salvarla dalle ire di Giunone. Ma scopre anche che Mida è innamorato della donna e per gelosia lo punisce decretando che da quel momento Mida trasformi in oro qualunque cosa che sfiori anche contro il suo volere. Così al primo amplesso dei due giovani Danae si trasforma in una rigida statua d’oro. Giove la riporta in vita solo per farle scegliere tra l’amore del nume e quello del povero asinaio che era Mida. La donna preferisce il secondo rinunciando al destino immortale promessole dal primo.
Il terzo atto vede i due amanti ridotti in miseria, ma felici. In cielo intanto si ride delle disavventure amorose del dio soppiantato da un asinaio, mentre sulla Terra Giove, ancora creduto Mida, deve affrontare gli inferociti creditori e Polluce stesso che vengono trattenuti dall’aggredirlo solo da una pioggia di monete ideata da Mercurio. Giove va a trovare Danae nel suo misero tugurio e si intenerisce vedendo che la donna è ancora innamorata e difende la sua scelta. Si allontana benedicendo l’unione dei due giovani.

La musica di Danae è della struggente intensità dei Vier letzte Lieder, ma deve molto anche a Wagner, soprattutto nella figura di Giove che richiama quella di Wotan. «L’immagine aerea della pioggia d’oro si traduce in fluttuanti arabeschi sonori, in scintillii iridescenti che avvolgono la vicenda in un alone liberty, in un decorativismo fulgido e raffinato; trapelano reminiscenze delle vertigini amorose del Rosenkavalier, frasi piene di desiderio, ma quasi sempre filtrate dallo schermo di una suprema eleganza. Solo Giove si abbandona veramente nel secondo atto, durante la conversazione con le quattro regine, a una perorazione infiammata, in cui trapela però una componente wagneriana abbastanza sottolineata; proprio a Giove è riservato comunque uno squarcio lirico commosso nella scena finale del colloquio con Danae, in cui il ricordo nostalgico dell’amore di Maia ispira al dio un intenerimento di sapore liederistico. […] Le divagazioni un po’ dispersive del libretto sono peraltro riscattate dall’unità tematica che governa la partitura; e ciò si intuisce fin dalla prima scena, contrassegnata dal ritorno, continuamente cangiante nella strumentazione, di un inciso appassionato, nel cui slancio paiono rivivere le estasi di Oktavian.» (Elisabetta Fava)

Nel 2011 la Deutsche Oper di Berlin propone questa raro lavoro (è la sedicesima rappresentazione in sessant’anni), l’unica versione in video esistente. Come la registrazione disponibile in CD della prima rappresentazione si può riprendere qui quanto è stato detto per gli interpreti di quel lontano spettacolo, poiché a fronte di un’ottima orchestra, qui diretta da Andrew Litton con sensualità e grande dinamicità, i cantanti, qui come là, non raggiungono l’Olimpo vocale. Sia Manuela Uhl che Matthias Klink non sono all’altezza dei ruoli di Danae e Mida: scarsa intonazione, opacità di suono e limitata potenza si distribuiscono, seppure in diversa misura, su tutti e due gli interpreti. Il Giove di Mark Delavan parte molto male con la sua voce strangolata in alto, poi nel corso dell’opera migliora dimostrando comunque di essere più a suo agio nella ‘conversazione in musica’ e nel monologo finale, il toccante addio di un nume al tramonto. Più riusciti risultano qui gli interpreti dei ruoli minori, Polluce, Mercurio e soprattutto il quartetto di regine.

Teniamo per ultima la messa in scena di Kirsten Harms che realizza la drammaturgia di Andreas K. W. Meyer. L’ambientazione in costumi attuali suggerisce che in quanto a situazioni finanziarie disastrate non è cambiato molto da quelle parti del mare Egeo – non che altrove…

Nel palazzo i creditori si stanno portando via statue e dipinti, compreso quel ritratto di Danae che mostrato a Mida è stato da lui trasformato in una tela di oro massiccio (alla fine, quando tutto è andato in rovina, scopriremo che quel quadro che si intravede tra le macerie del palazzo era proprio la tela di Klimt!). Elegantissimi i costumi di Dorothea Katzer che alle regine in tailleur Chanel abbina come accessori delle ironiche borsette: per Leda a forma di cigno, per Europa di toro e così via. L’arrivo di Mida non solo ripiana le finanze, ma trasforma tutto il palazzo in un lucente scrigno d’oro (effetto ottenuto grazie anche alle magnifiche luci di Manfred Voss) che però crolla in rovina dopo la maledizione di Giove. Ed è su queste rovine che Danae e Mida vivono la loro unione.

Nella regia della Harms tutt’altro che evidente è il significato del pianoforte appeso per aria capovolto (come nella celebre installazione di Rebecca Horn Concert for Anarchy), così come la pioggia di pagine di partitura che Danae regala a Giove invece del fermaglio d’oro. Chi cercasse lumi nel making-of dello spettacolo compreso come extra del bluray rimarrà deluso: la regista parla molto ma non fa il minimo cenno a queste stramberie.

Klimt-Danae

Gustav Klimt, Danae, 1908