Mese: settembre 2018

L’incoronazione di Poppea

Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea

Salisburgo, Haus für Mozart, 12 agosto 2018

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La libido al potere

Tre sono le divinità che presiedono alla vicenda de L’incoronazione di Poppea: la Fortuna, la Virtù e Amore. Se è la terza che vince sulla seconda, è la prima quella che domina dall’inizio alla fine in questa produzione del Festival di Salisburgo.

La ruota del destino (o del tempo) gira incessantemente con gli instancabili ballerini coreografati e diretti da Jan Lauwers che la mette in scena alla Haus für Mozart: a turno infatti ognuno dei danzatori sale su una piattaforma circolare nel mezzo del  palcoscenico e inizia a ruotare come un derviscio. Nel pavimento innumerevoli immagini erotiche della pittura occidentale sono il solo elemento di una scenografia affidata unicamente o quasi ai corpi seminudi dei giovani. I personaggi della vicenda, tutti, a eccezione di Seneca, più o meno corrotti, sono macchine erotiche spinte dalla libido mentre gli dèi sono accompagnati da un’umanità storpiata che si aggrappa a involute stampelle.

Jan Lauwers, un artista visuale che utilizza ogni possibile mezzo espressivo, per la prima volta affronta l’allestimento di un’opera lirica e il risultato è difficile da dimenticare. La ricchezza di immagini messe in moto è tale da far venire le vertigini. Eppure Lauwers dimostra di aver perfettamente compreso lo spirito di questa terza e ultima opera (tra quelle rimaste) di Monteverdi, la più moderna e la più diversa dalle altre – tanto che c’è chi avanza il dubblio che sia di mano di Francesco Cavalli, per lo meno in parte. La sensualità che pervade il lavoro è espressa dal gioco dei corpi dei ballerini muti e da quello degli interpreti vocali.

Poppea ha la sontuosa figura e vocalità di Sonya Yoncheva, la cantante che dopo gli esordi nel barocco ha affrontato il repertorio ottocentesco e ora torna alle origini con una voce più ampia, sensuale, liscia, morbida e cangiante come la seta dei suoi négligé. Kate Lindsey non fa nulla per assumere la mascolinità di Nerone – semmai l’avesse avuta. Qui è una figura hippy che alberga la perversione per il potere, una libido neanche sublimata che porta a eliminare chiunque ostacoli o anche solo critichi la sua brama. La voce spesso supera il confine tra espressione ed espressionismo e i suoni metallici, sgraziati, rozzi se evidenziano la depravazione del personaggio, presto vengono a noia e si preferirebbe un Nerone cantato “bene”.

Stéphanie d’Oustrac delinea un’Ottavia oltraggiata che nell’aria di addio lascia sgomenti per l’intensità espressa con mezzi di rara economia ed eleganza. Molto bene la Drusilla di Ana Quintans, anche Virtù nel prologo, di vibrante tenerezza per il suo Ottone, il controtenore Carlo Vistoli, superbo come sempre per bellezza di timbro e colori. Léa Desandre si riconferma eccellente in questo repertorio come Amore e come Valletto.

Ben due le nutrici di quest’opera: Dominique Visse veste per l’ennesima volta i panni di Arnalta e la voce grezza che spesso sfocia nel parlato trova però un momento di grazia nell’oblivion del sonno di Poppea, reso con una dolcezza ineguagliabile; gusto e umorismo caratterizzano la Nutrice di Marcel Beekman, una felice scoperta in questo genere. Giovane ma nobilmente autorevole il Seneca di Renato Dolcini. Detto ogni bene anche degli interpreti dei ruoli minori, non ci si stupisce se dal punto di visto musicale questa Poppea raggiunge risultati eccelsi: la presenza discreta (al clavicembalo), ma determinante del sommo William Christie e della sua compagine “Les arts florissants”, qui ridotti all’essenziale, è garanzia di una resa stupefacente di timbri e colori, considerata l’esiguità dei mezzi orchestrali. I 16 strumentisti e Christie sono calati in due buche ai lati del proscenio in modo da essere visivamente separati, ma nello stesso tempo poter anche interagire con quello che avviene in scena, con divertenti siparietti.

Nel finale «Pur ti miro» suona di un’enorme tristezza: i due amanti sono distanti, esausti, quasi delusi di aver raggiunto i loro scopi, mentre tutti gli altri personaggi nel fondo  della scena dopo averli derisi li maledicono in silenzio e al rallentatore. Poi i due si avvicinano e si baciano, ma l’eros non c’è già più.

Die Meistersinger von Nürnberg

Richard Wagner, Die Meistersinger von Nürnberg

Bayreuth, Festspielhaus, 25 luglio 2017

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Il primo regista ebreo debutta a Bayreuth ed è un trionfo

Barrie Kosky sale alla verde collina per inaugurare il 106° Festival di Bayreuth con la messa in scena dell’opera più “tedesca” e “politica” di Wagner, I Maestri Cantori di Norimberga. Il regista australiano, che aveva dato prova di irresistibile umorismo con la sua messa in scena delle operette a Berlino, ora si cimenta con l’opera “comica” del compositore di Lipsia e affronta in maniera diretta il tema dell’antisemitismo che spesso ha aleggiato nelle produzioni di Bayreuth senza però mai esplodere in maniera evidente come in questo caso pur non utilizzando simboli o figure del Nazismo.

Il sipario si apre sulla libreria di villa Wahnfried, la proprietà dei Wagner. Sono le 12.45 del 13 agosto 1875, la temperatura è di 23 gradi Celsius e Cosima ha l’emicrania, si premura di informarci una scritta in carattere Typewriter (quello delle vecchie macchine da scrivere) proiettata sul velario. Il pubblico delle grandi occasioni – Angela Merkel e il Re di Svezia sono tra i presenti – ride divertito, e forse anche sollevato, dal trovarsi di fronte una scenografia “tradizionalissima” dopo le sperimentazioni dissacranti del Regietheater degli ultimi anni. Ma il Kosky ha in serbo nuove sorprese…

Durante l’ouverture assistiamo a una divertente pantomima: al ritorno dalla passeggiata con due enormi cani terranova, il padrone di casa si delizia di profumi e tessuti pregiati tra la costernazione della moglie e l’indifferenza annoiata del Kapellmeister Hermann Levi e del suocero Liszt mentre viene servito il tè. Appena Liszt si siede al pianoforte viene interrotto da Wagner che accenna con vigore al tema dell’ouverture, mentre il coperchio dello strumento si apre e ne escono i figli, simili a lui. Ora sono tutti pronti per il momento di raccoglimento all’ascolto del corale dei fedeli nella Katharinenkirche con cui inizia l’opera. Occhiate di sbieco sono rivolte all’ebreo Levi che non si fa il segno della croce e non vuole inginocchiarsi.

Viene quindi inscenata la vicenda e ognuno assume il proprio ruolo: Liszt è Veit Pogner, Cosima diventa Eva, Levi è costretto nel costume di Beckmesser, i giovani allievi diventano Walther von Stolzing e David, una domestica Magdalene e Wagner ovviamente Hans Sachs. Dal pianoforte escono gli altri nove maestri cantori in ricchi abiti rinascimentali, firmati da Klaus Bruns e come presi da un quadro di Dürer. Alla fine dell’atto nel disegno di Rebecca Ringst la scena si ritrae verso il fondo e appare un quadro idillico: un picnic sull’erba dei due coniugi per il giorno di San Giovanni. Il cupo preludio al terzo atto ci fa invece entrare nell’aula del tribunale di Norimberga in cui furono giudicati i criminali nazisti. Wagner/Sachs è solo al banco dei testimoni: «Ich bin verklagt und muß bestehn» (Sono stato accusato e devo difendermi), dice infatti a un certo punto il ciabattino.

Michael Volle riprende con la riconosciuta autorevolezza, appena appannata da qualche segno di stanchezza, la defaticante parte di Hans Sachs che ha portato recentemente anche alla Scala. Il suo monologo del terzo atto è un capolavoro di espressioni e colori e la sua immedesimazione con Richard Wagner è perfetta. Il regista distingue tra Wagner artista sublime e Wagner uomo con il suo indifendibile antisemitismo, e Volle riesce a interpretare egregiamente entrambi gli aspetti del personaggio. «Ho fatto l’errore di confondere l’arte con la vita» confesserà il compositore due anni dopo la scrittura dei Meistersinger. C’è chi su questo aspetto ha scritto copiosamente in questa occasione, ma da un regista non si può chiedere un saggio esaustivo, bensì una lettura che metta in luce i diversi aspetti dell’opera e sia teatralmente efficace. Da questo punto di vista il lavoro di Kosky è perfettamente riuscito.

Johannes Martin Kränzle è un Sixtus Beckmesser di grande intensità espressiva e la sua degradazione alla fine del secondo atto – quando dopo essere stato selvaggiamente colpito mentre il coro canta «da gibt’s gewiß noch Schlägerei; Gesellen, haltet euch dabei! Gibt’s Schlägerei, wir sind dabei! » (ci dev’essere ancora un bel pestaggio! Compagni, tutti qua! Se c’è da menar le mani, eccoci qua!) gli viene imposta una maschera che rappresenta la più bieca caricatura antisemita – fa venire i brividi. Nobile ed elegante come sempre Günther Groissböck, ma la tessitura di Veit Pogner è un po’ troppo bassa per lui. Perfetto il David di Daniel Behle dal magnifico timbro e vivace la Magdalene di Wiebke Lehmkuhl. Discutibile la coppia di innamorati: se Anne Schwanewilms ha la presenza sussiegosa di Cosima Wagner, come Eva manca della freschezza giovanile del personaggio e anche vocalmente fatica a farsi sentire nel concertato con cui termina il secondo atto e poi nei suoi interventi nel terzo. Klaus Florian Vogt divide come sempre i giudizi: c’è chi ne ammira il timbro luminoso, chi poco sopporta la sua emissione al limite dell’esangue.

Vocalmente eccellenti ed efficaci attori i personaggi secondari e i coristi, tutti valorizzati dalla maniacale cura attoriale spinta fino ai minimi dettagli di una regia vivacissima e sempre attenta alla musica. Sotto la guida di Philippe Jordan l’orchestra ha espresso il meglio nei passaggi sinfonici, ma ha mantenuto leggerezza e trasparenza anche nei momenti più concitati.

Eccezionalmente ben fatta la ripresa video della Bayerische Rundfunk, presente ma non invadente, con un ottimo equilibrio dei piani visivi e una perfetta captazione sonora. La regia video e il commentatore spigliato e altamente competente dovrebbero essere di modello per le riprese della nostra televisione.

Alì Babà e i quaranta ladroni

Luigi Cherubini, Alì Babà e i quaranta ladroni

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Milano, Teatro alla Scala, 1 settembre 2018

L’ultimo Cherubini non aveva convinto ai suoi tempi e non convince neanche oggi

Il tenore è innamorato del soprano, ma il basso, che è padre della bella, si oppone. Dopo innumerevoli peripezie – tra cui rapimenti, assedi, furti, nascondimenti, agguati – gli innamorati possono finalmente coronare il loro sogno d’amore. Originale, vero?

Questo modello convenzionale, su cui si basa la maggior parte delle opere liriche, viene applicato dai librettisti Mélesville (nom de plume del barone Anne-Honoré-Joseph Duveyrier) ed Eugène Scribe alla omonima fiaba persiana, erroneamente inserita nella raccolta de Le mille una notte, mantenendone solo alcuni elementi, quali la grotta del tesoro e la formula per accedervi, e inserendone invece tanti altri.

Alì Babà qui è un ricco negoziante, non il povero taglialegna del racconto originale, e la grotta non viene scoperta da lui, bensì dal giovane Nadir, amante di Delia e figlia di Alì Babà. Del tutto inventato è il personaggio di Aboul Hassan, il capo della dogana, cui il padre vorrebbe destinare la figlia per non correre il rischio che il doganiere scopra i quaranta sacchi di caffè illegalmente acquisiti, mentre il capo dei briganti qui ha un nome, Ours-Kan, e un ruolo determinante nella vicenda dei due giovani. I librettisti introducono cinicamente il tema del contrabbando di caffè – nel racconto si tratta di giare d’olio – in un numero di sacchi che coincide con il numero dei briganti, e sottolineano il tema dell’ingordigia del padre per l’oro, che a un certo punto preferisce infatti morire piuttosto che cedere il suo tesoro. Altrettanto crudele è il finale: nella fiaba una schiava versava olio bollente nelle giare in cui sono nascosti i briganti, qui i sacchi di caffè che li celano vengono dati alle fiamme.

Prologo. Il giovane Nadir ama ricambiato Delia, figlia del ricco mercante Alì Babà, ma questi ha negato il suo consenso alle nozze perché vuole che Delia sposi Aboul-Hassan, il potente capo della dogana. Al ritorno da un lungo viaggio, in un paesaggio selvaggio nei dintorni di Esfahan, Nadir riflette così sulla sua condizione di povertà e di tristezza; soltanto diventando ricco potrebbe sperare di sposare l’amata. A un tratto scopre il nascondiglio della banda di Ours-Kan: una grotta che si apre e si richiude alla formula magica «Apriti Sesamo!”». Se possedesse tutti i tesori riposti nella grotta, Nadir potrebbe senz’altro aspirare alla mano di Delia: per questo egli, una volta che Ours-Kan e la sua banda se ne sono andati, sa’vvicina alla grotta e pronuncia a sua volta la formula magica per entrarvi.
Atto primo. Nella casa di Alì Babà a Esfahan fervono i preparativi delle nozze tra Delia e Aboul-Hassan. Mentre Alì Babà è compiaciuto del matrimonio imminente, la ragazza pensa al suo innamorato lontano. Si presenta quindi, del tutto inatteso, uno straniero; le note di un flauto proveniente dalla strada ne rivelano a Delia l’identità. Si tratta di Nadir: questi offre per la mano di Delia una quantità d’oro dieci volte superiore a quella già concordata tra Alì Babà e Aboul-Hassan e afferma inoltre di possedere infinite altre ricchezze. La schiava Morgiane, confidente di Delia, è incantata alla vista del tesoro di Nadir e a questo punto lo stesso Alì Babà, sebbene tema l’ira di Aboul-Hassan anche per la natura non sempre irreprensibile dei propri affari, avendo egli nascosto quaranta sacchi di caffè non sdoganati, concede il suo assenso alle nozze della figlia con Nadir. Sopraggiunge però Aboul-Hassan a reclamare la sposa e ricatta Alì Babà per i quaranta sacchi di caffè che il mercante tiene nascosti e dei quali egli è a conoscenza. Sentendosi minacciato, Alì Babà ritira il consenso alle nozze tra Delia e Nadir.
Atto secondo. Aiutato dal suo servitore Phaor, Alì Babà trasferisce i sacchi di caffè non sdoganati in un luogo sicuro per sottrarsi all’ira di Aboul-Hassan. La precauzione, tuttavia, si rivela inutile perché nel frattempo Nadir ha convinto il capo della dogana a rinunciare alla mano di Delia offrendogli un’ingente somma di danaro. Siccome il giovane afferma di essere pur sempre ricchissimo, Alì Babà inizia a insospettirsi sull’origine di tanto patrimonio e gliene chiede conto. Nadir non vorrebbe rivelare il suo segreto ma alla fine è costretto a cedere al ricatto del mercante, che minaccia di rifiutare il suo consenso alle nozze con Delia nel caso il giovane non gli riveli l’origine di tante ricchezze. Nadir racconta così ad Alì Babà della scoperta della caverna che custodisce i bottini di Ours-Kan e della formula magica che ne dischiude l’accesso. Frattanto sopraggiunge Phaor, recando la notizia che Delia è stata rapita da una banda di ladroni; Nadir, certo che sia stato Aboul-Hassan a organizzare il rapimento, organizza una spedizione per liberarla.
Atto terzo. All’interno della caverna Ours-Kan e i suoi luogotenenti, Calaf e Thamar, parlano della loro ultima impresa e della cattura di Delia, ora contesa dai tre uomini. Non appena i ladroni si sono allontanati nella caverna arriva Alì Babà, venuto a verificare la veridicità della formula magica e della consistenza del tesoro. Al ritorno dei tre ladroni il mercante, che si è nel frattempo dimenticato la formula magica, viene catturato. Inizialmente Ours-Kan, Calaf e Thamar vorrebbero ucciderlo ma poi, appreso che AR Babà è un ricco mercante, decidono di chiedere un enorme riscatto per la sua liberazione. Alì Babà è così avaro che preferirebbe morire piuttosto che accettare di pagare il riscatto, ma Delia lo persuade infine ad accettare: la somma sarà consegnata a Ours-Kan nel castello di proprietà del mercante a Erzerum.
Atto quarto. Al castello di Erzerum arrivano Ali Babà e Delia, accompagnati da Ours-Kan e Calaf travestiti da mercanti che vogliono riscuotere il riscatto. Delia riesce tuttavia a rivelare a Nadir la vera identità dei due falsi mercanti e le loro reali intenzioni. La minaccia è tanto più grave poiché Morgiane s’è accorta che i ladroni hanno finto di trasportare al castello i quaranta sacchi di caffè, mentre in realtà in ogni sacco si nasconde uno di loro, pronto a balzar fuori al segnale convenuto. Insieme con Nadir e Delia, Morgiane pensa a un piano per reagire alla minaccia ma durante il banchetto irrompono Aboul-Hassan e i suoi uomini, che appiccano il fuoco ai quaranta sacchi di caffè bruciando così i ladroni che vi si sono nascosti dentro. Venuto per punire la frode di AR Babà, il capo della dogana diviene cosi involontariamente il salvatore del ricco mercante.

Presentata a Parigi nel 1833, Ali Baba ou Les quarante voleurs è l’ultima opera per il teatro scritta da Luigi Cherubini, compositore italiano che aveva scelto la capitale francese fin da giovane. Qui aveva avuto i suoi successi, Lodoïska e soprattutto Médée, dopo la quale però i suoi apporti al teatro furono estremamente saltuari e con poco successo. Per l’Ali Baba Cherubini aveva recuperato quattro numeri appartenuti a una partitura scritta nel 1793, ma è nell’insieme che l’opera denuncia una inattualità per la sua epoca che la condannò all’insuccesso: Berlioz e Mendelssohn la criticarono aspramente e solo in Germania il lavoro ebbe un certo seguito, anche se limitato. Lì infatti veniva apprezzata l’indubbia abilità contrappuntistica del maestro italiano, evidente nei concertati che concludono i quattro atti in cui è distribuita l’opera dopo un prologo.

La proposta del Teatro alla Scala avviene a 55 anni dalla ripresa moderna nello stesso teatro e l’occasione è l’opportunità di far esibire l’orchestra, il coro e i solisti dell’Accademia del teatro assieme agli allievi della scuola di ballo. Un progetto che per il terzo anno affida dei giovani nelle mani di un regista e di un direttore rinomati per un lasso di tempo che è del tutto impensabile ottenere con interpreti affermati, per i quali le prove sono necessariamente limitate nel tempo. E questa lunga preparazione è evidente nella spigliatezza con i cui i giovani interpreti calcano la scena del prestigioso teatro milanese, ben 15 solisti di canto. Nominare quelli che hanno partecipato all’esecuzione del 1 settembre farebbe un torto a quelli che si alternano nelle altre recite, visto che tutti quanti in egual misura si sono fortemente impegnati e tutti esibiscono doti canore che verranno sicuramente apprezzate nel prossimo futuro in altri allestimenti. La scelta di un’opera quasi sconosciuta ha permesso loro di evitare raffronti con parti o interpreti conosciuti, anche se la recita del 1963 è stata oggetto di una registrazione su disco – e i cantanti allora furono quanto di meglio si potesse avere, Teresa Stich-Randall e Alfredo Kraus per citarne due – per non parlare degli interpreti del 1833 tra cui il mitico Adolphe Nourrit. Proprio per la presenza di giovani alla loro prima grande esperienza, si è optato per la versione in italiano, già utilizzata allora, piuttosto scadente però, che rende prosaico l’arguto testo dei due librettisti francesi. Sembra che sia stata la regista a imporre l’utilizzo della brutta versione di Vito Frazzi.

Alla testa degli strumentisti e del coro dell’Accademia Paolo Carignani è riuscito nell’impresa di ottenere i suoni e i tempi giusti di un’orchestrazione che dopo la brillante ouverture molto spesso si limita ad accompagnare i cantanti nel loro declamato melodico che non sfocia mai in un tema che entri nella memoria – e nel cuore. Si ammira sì la sapienza della scrittura, ma si rimane indifferenti alle vicende e ai personaggi senza spessore che si agitano in scena. Ali Baba non è un grand-opéra, ma ha i suoi balletti, qui argutamente risolti dalla coreografa Emanuela Tagliavia con i giovani, alcuni giovanissimi, allievi.

Liliana Cavani, che si è occupata della messa in scena, ha manifestao il suo intento di descrivere molto linearmente la vicenda senza optare né per il tono umoristico né pr quello fiabesco. Ne è venuta fuori una lettura senza nerbo che anche se strizza l’occhio alla modernità – la biblioteca in cui i quattro personaggi principali, studenti, leggono la fiaba e hanno le prime schermaglie amorose, la fuga in motoretta del finale – ripiega su una tradizione ampiamente superata e per di più non coglie gli spunti spettacolari della vicenda, come ad esempio il corteo di schiavi con i tesori trafugati da Nadir – che poteva dare un tocco più teatrale alla rappresentazione, mentre ne banalizza altri. Che necessità c’era di far fare il pediluvio a Delia durante la sua unica vera grande aria? E anche della vista dei cadaveri bruciacchiati dei briganti si poteva fare volentieri a meno durante il festoso quanto fulmineo finale.