Manru

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Ignacy Jan Paderewski,Manru

★★★★☆

Varsavia, Teatr Wielki, 12 ottobre 2018

(video streaming)

L’intolleranza etnica, ieri come oggi

Ignacy Paderewski (1860-1941), ricordato al di fuori del suo paese solo come pianista dalla tecnica brillante, fu anche ambasciatore e uomo politico e come compositore l’emblema della musica polacca dopo Moniuzsko con lavori quali la sinfonia Polonia o  le danze che includono popolari cracoviane e mazurche. Manru appartiene a questo genere in quanto l’opera, che debuttò il 29 maggio 1901 alla Semperoper di Dresda su libretto di Alfred Nossig tratto dal romanzo Chata za wsią (La capanna dietro il villaggio) di Jósef Ignacy Kraszewski, trattava di temi nazionali e folclorici legati al suo paese, seppure esposti in maniera molto personale.

Atto I. Un villaggio dei monti Tatra. Jadwiga si lamenta della perdita di sua figlia Ulana, che è scappata con lo zingaroy Manru. Ulana appare all’improvviso e chiede perdono per sé e per l’amante. Jadwiga promette di perdonarla se rinuncerà a Manru per sempre, ma la ragazza si rifiuta categoricamente di farlo e la madre la scaccia maledicendola. Ulana cerca l’aiuto di Urok, uno stregone innamorato di  lei. Da lui ottiene una pozione magica con cui spera di riconquistare l’amore di Manru che ha già iniziato a stancarsi e rimpiange la vita errabonda degli zingari.
Atto II. In una capanna in montagna. Ulana canta una ninna nanna al suo bambino, mentre Manru è combattuto tra l’amore per la donna e il desiderio di riunirsi agli Zingari. Urok entra nella capanna quando si sente in lontananza una bellissima musica di violino, che Manru riconosce come proveniente dallo zingaro Jogu. Si precipita fuori dalla capanna e scompare nella foresta. Jogu cerca di persuaderlo a riunirsi al campo ed essere il loro capo, dicendogli che la bella zingara Aza si sta struggendo d’amore per lui. Nel mezzo della tentazione appare Ulana che lo convince a tornare alla capanna dove gli dà da bere la pozione magica. Questa ha l’effetto di riconquistare temporaneamente il suo amore.
Atto III. Presso un lago tra le montagne Manru vaga al chiaro di luna. Sente strane voci che echeggiano tra le montagne e si addormenta sotto gli alberi, dove viene trovato poco dopo dagli zingari. Aza lo riconosce immediatamente e implora Oros, il capo degli zingari, di perdonarlo e di riceverlo di nuovo nella tribù. Oros si rifiuta e abbandona il campo. Manru è persuaso da Aza ad accettare la posizione di capo al posto di Oros. Urok appare in mezzo a loro e implora Manru di non abbandonare Ulana e suo figlio, ma invano: Manru soccombe agli affascinanti sorrisi di Aza e scompare tra le montagne con gli zingari. Saputo della sua diserzione, Ulana, impazzita dal dolore, si getta nel lago ed annega. Manru e Aza, camminando lungo un sentiero di montagna, vengono improvvisamente affrontati da Oros, che scaraventa Manru nell’abisso, riconquistando così la sua posizione di capo degli zingari.

In un saggio disponible in rete Aleksandra Konieczna, dell’Istituto di Storia e Teoria della musica di Cracovia, esamina quest’opera con attenzione. Considerato l’erede operistico di Moniuszko, anche Paderewski fu accusato di wagnerismo. Manru in effetti utilizza i leitmotif per identificare psicologicamente i personaggi della vicenda e gli ambienti; lunghi duetti prendono spesso il posto dei concertati dell’opera italiana; segmenti sinfonici puramente simbolici funzionano da interludi; una breve ouverture. Influenze wagneriane si possono riscontrare anche in certe sequenze del testo. Richiami evidenti è poi la pozione magica: iIl finale secondo non può non ricordare il Tristano, ma se quello che Paderewski accetta del maestro tedesco è il linguaggio armonico, qui però questo è saldamente ancorato in uno sistema tonale espanso Nel suo stile eclettico Manru rimanda alla musica francese, soprattutto alla Carmen di Bizet e non solo per il tema. È improbabile che Paderewski conoscesse Aleko, un’altra vicenda di zingari di un altro grande pianista, Rachmaninov, in quanto la composizione di Manru era già ad uno stato avanzato nel 1893. Né è certo che l’autore avesse visto a Parigi quello stesso anno l’Otello di Verdi, l’opera più vicina per struttura drammatica e musicale e per la psicologia dei personaggi, soprattutto per la figura di Urok, quasi uno Jago polacco, ma solo per il sano cinismo che dimostra. Uno stregone che non crede nelle sue stregonerie. Forte è anche il tema del potere incantatorio della musica, qui impersonato dal violinista zigano impegnato in due assoli struggenti.

Il tema dell’intolleranza etnica fa di quest’opera una riflessione storicamente valida e quanto mai d’attualità ancora oggi e la messa in scena di Marek Weiss in questa produzione del Teatro Nazionale Polacco accentua giustamente il contrasto tra i due mondi: quello lussuosamente kitch e dai toni pastello della ricca festa borghese del primo atto e quello della lurida catapecchia della coppia e infine colori scuri del trucido ma vivo mondo zigano. Difficile risolvere le incongruenze del libretto, come la figura di Urok che prima dice di non saperlo fare, poi ammette di saper distillare una pozione d’amore, che però non ha usata nei confronti della donna di cui è da sempre innamorato, ma addirittura gliela confeziona per il marito che vorrebbe vedere morto. Un cattivo veramente altruista! Neppure la lucida regia di Marek Weiss risove il problema,  ma è comunque efficace e con tocchi originali, come la madre che mentre lamenta il “rapimento” della figlia conta i soldi raccolti tra gli invitati e palloncini formano ironicamente la parola LOVE, quell’amore che porterà a un finale tragico. Efficace poi aver unito il secondo e terzo atto accentuando così il drastico cambiamento di Manru. Visivamente dirompente è il “campo” degli zingari, un folto gruppo di motociclisti hippy che cantano un inno alla libertà della strada e alla sua polvere, quella odiata da Ulana, tanto da farle preferire una vita di stenti in una catapecchia. Forse è una nuova versione, ma qui il re degli zingari viene ucciso e l’opera finisce con il tentativo di suicidio di Ulana.

L’opulenza della partitura è messa degnamente in luce dal direttore Grzegorz Nowak che concerta un cast di ottimo livello. L’impervia parte di Manru è affidata a Peter Berger, tipico tenore slavo dal declamato un po’ stentoreo che forse potrebbe usare ogni tanto anche le mezze voci, ma confronti non ci sono per sapere se potrebbe fare meglio. Compensa comunque con la presenza scenica. Ulana intensa è Ewa Tracz e del resto dei cantanti, i cui nomi sono poco noti al di fuori del loro paese, sono da ricordare almeno il poderoso Urok di Mikołaj Zalasiński e l’avvenente Aza di Monika Ledzion-Porczyńska.

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