Lohengrin

Richard Wagner, Lohengrin

★★★★★

Milano, Teatro alla Scala7 dicembre 2012

(live streaming)

Lohengrin sull’orlo di una crisi

Inaugurazione della stagione scaligera con Wagner – e già questo fa storcere il naso a molto melomani – e per di più con un regista tedesco, di quelli “controversi”. L’esito è però di grande successo con applausi scroscianti – e i soliti mugugni del loggione, ma quelli, si sa, sono da tenere in conto comunque se va in scena il “teatro” e non il “museo”.

Lo spettacolo ce lo facciamo raccontare da Elvio Giudici: «Claus Guth è un grandissimo regista, fa un teatro vero […]. Epoca: quella di Wagner. Scena chiusa: sorta di cortile interno delimitato da tre facciate a due piani com balconi tutt’intorno, ringhiere di ghisa al pari delle colonne poste a reggerli, tutto riferibile all’epoca in cui principia l’industrializzazione di massa. Al proscenio, un pianoforte davanti al quale tutti si siedono in mai casuali momenti, introduce la nota biografica: quella Elsa che vediamo studiare musica seguita da un’arcigna Ortrud che la bacchetta, molto ricorda l’illegittima Cosima cui la suocera von Bulow insegna io stare in società di rari passo allo studiare il piano. Elsa: creatura resa fortemente disturbata da un passato mai rimosso. Ci viene mostrato il funerale del padre seguito da Elsa e Gottfried bambini, che crescono sempre insieme finché lui sparisce in un canneto e lei è preda di sensi di colpa, in aggiunta al trauma infertole da un tutore che voleva sposarla e lei ha respinto: sicché naturale è il suo proiettare in una figura maschile tutte le sue nevrosi che – vedendo con gli occhi di lei – anche noi vediamo materializzarsi nella figura del fratello scomparso, adolescente dolcissimo con un braccio-ala di cigno. Lohengrin dunque arriva, ma non è il Cavaliere dell’Ideale, un po’ indisponente qual è sempre il Troppo-Bello-Per-Essere-Vero. Essere di cui non si sa nulla, simile ai Kaspar Hauser grande enigma dell’Ottocento tedesco quello del film di Herzog, trovatello d’ignota origine che altro non dice all’infuori di non so: essere estraneo a tutto e tutti, ma su cui tutti riversano le proprie necessità – sentimentali, politiche, sociali, militari – volendolo plasmare a seconda di esse ma senza preoccuparsi di quanto lui realmente provi. Logico che Elsa veda in lui il fratello, rimuovendo così il fardello psicotico della sua perdita. Logico che lui voglia essere accolto per quello che è e non per quello che dovrebbe fare. Logico altresì che tale situazione sia tragicamente instabile, una manipolatrice come Ortrud facendone saltare con facilità gli snodi irrisolti. Attorno all’albero che occupa il cortile del prim’atto, dove una scala accenna alla probabile “casetta sull’albero” cara a ogni infanzia, sta un piccolo canneto: alla fine, occupa invece tutto il cortile, accogliendo due giovani che si provano a cominciare una vita nuova quasi giocando tra gli spruzzi, ma il passato non si rimuove se non affrontandone le ombre. E spesso, le ombre vincono: Lohengrin, che lei non riesce ad accettare se non provvisto di consono status, neppure serve più alla società, e dunque sparisce mentre Elsa si rivolge all’adolescente-cigno chiamandolo suo sposo, ma noi non sappiamo se davvero Gottfried è tornato o continua a essere fantasma mai rimosso. Uno di quegli spettacoli, insomma, dove interrogativi e ambiguità prevalgono sulle certezze: dunque spettacolo che programmaticamente vuole far riflettere e discutere, confrontarsi. Dunque, teatro. Teatro musicale, però: che proprio essendo tale apre il più ampio ventaglio d’ambiguità. Perché la musi caè ambigua per sua intima natura, prestandosi a soluzioni diverse ma tutte egualmente valide, sol che le si accenni in modo consono. Daniel Barenbolin, come ogniqualvolta suole dirigendo Wagner, firma un capolavoro. Portentosa, la gamma chiaroscurale – dinamica, spessori, agogica – con cui frastaglia ogni scena rendendola tappa d’un percorso teatrale in tutto simbiotico con la scena. Amplissima, la gamma di colori che a ogni frase dona non solo la facile suggestione della «bella melodia» bensì ne schiude le molteplici possibilità di significato, tutte intorcinate una all’altra, la diversità intesa come profondità di contenuti anziché come limite. Perfetta l’intesa buca-palcoscenico: dove l’azione congiunta di direttore e regista può esplicitarsi compiutamente grazie a una delle migliori compagnie di cantanti-attori».

E infatti il cast è notevole. Il Lohengrin di Jonas Kaufmann è ormai il suo rôle fétiche, che ogni volta il tenore arricchisce di intenzioni nuove, reinventandolo magistralmente. Ammalatasi la Harteros, viene sostituita da Ann Petersen nell’anteprima giovani, a sua volta colpita dal virus influenzale. Viene allora ingaggiata all’ultimo momento Annette Dasch, la Elsa di Bayreuth nel 2010, che non solo supera brillantemente la prova, ma con Guth si dimostra ancora più convincente che con Neuenfels.  Grande successo anche per Evelyn Herlitzius, perfida Ortrud, e il re di René Pape. Più debole vocalmente il Telramund di Tómas Tómasson.

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