
foto © Simon Gosselin
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Luigi Pirandello, Comme tu me veux (Come tu mi vuoi)
Regia di Stéphane Braunschweig
Torino, Teatro Carignano, 29 maggio
Pirandello arriva da Parigi
Ispirato da una vicenda reale, quella di Canella-Bruneri ossia dello “smemorato di Collegno” che fu un famoso caso giudiziario degli anni 1927-1931, Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello turbò le coscienze degli spettatori di teatro nel 1930. Come il poveretto affetto da amnesia che fu identificato da due diverse famiglie sia come il professor Giulio Canella disperso durante la Grande Guerra, sia come il latitante Mario Bruneri, qui per “L’ignota”, amante dello scrittore Slater nella mondana Berlino che sta per essere travolta dalle camicie brune, si apre la possibilità di rifarsi una vita in Italia, il suo paese d’origine, come Lucia, moglie dell’ufficiale italiano Bruno Pieri, scomparsa nel corso della guerra. Il tema della doppia identità de Il fu Mattia Pascal, romanzo di Pirandello del 1904, riaffiora qui come una metafora del fare teatro, dove finzione e realtà sono indistricabilmente intrecciate: «Guardami! Qua negli occhi – dentro! […] Sono venuta qua; mi sono data tutta a te, tutta; […] in me non c’è nulla, più nulla di mio: fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi» dice L’ignota al “marito” Bruno «con lucidissima esasperazione» alla fine del secondo atto.
Pirandello è stato un autore molto frequentato nei teatri di prosa qualche decennio fa, ora lo è molto meno. Ci pensa un francese a portarlo sulle scene del Carignano per concludere la stagione del Teatro Stabile torinese: Stéphane Braunschweig, uscito dalla scuola di Antoine Vitez e fondatore del Théâtre-Machine, poi direttore del Teatro di Strasburgo e dal 2016 dell’Odéon parigino, da cui proviene questo spettacolo. Sono sue la traduzione del testo, la regia e la scenografia. Gli elementi salienti della sua lettura sono i danni psicologici irreparabili della violenza, la negazione dei fatti, l’ambiguità della verità.
Un’atmosfera vagamente onirica è quella che troviamo ad apertura di sipario: un cabaret berlinese, una femme fatale attorniata da giovani bon vivants in marsina e mezzo ubriachi, un amante esasperato che gira con una pistola in tasca, un uomo ancora col trucco di Mefistofele in cui si era mascherato. Le tre pareti sono chiuse da tendaggi, unici elementi di una scenografia semplice e rigorosa che comprende uno schermo su cui vengono proiettate immagini d’archivio delle distruzioni della guerra. Il crollo o il sollevarsi dei tendaggi sottolineano i momenti forti della vicenda. Nel secondo atto siamo a Venezia, l’ambiente è dominato da un grande ritratto di Lucia con lo stesso abito che l’Incognita indossa in scena. Per tutti i personaggi i costumi di Thibaut Vancraenenbroeck non sono troppo legati all’epoca, quasi senza tempo. Più connotati i divani déco che formano i pochi altri elementi di scena.
«Un corpo senza nome», in attesa che qualcuno se lo prenda: l’enigmatico personaggio dell’Incognita (Elma? Lucia?) è quello di una donna alla ricerca della libertà e si inserisce nel solco della Nora di Ibsen di Casa di bambola o della Signorina Giulia di Strindberg. Il personaggio trova in Chloé Réjon un’interprete dalla superba recitazione, asciutta ma efficace. Senza manierismi, l’attrice francese naviga sulle acque del dubbio con maestria e il suo tour de force – quante parole per una vita vuota! – non mostra mai segni di stanchezza. Notevole il resto del cast tra cui una solida Annie Mercier (Lena), Pierric Plathier (Bruno Pieri), Sharif Andoura (Boffi) e Claude Duparfait (Carl Salter).
Sala non gremita quella dell’ultima recita, ma pubblico soggiogato, malgrado qualche importuna suoneria di telefonino, e prodigo di applausi alla fine. Uno spettacolo che sarebbe stato un peccato perdere.
⸪