Li zite ‘ngalera

Leonardo Vinci, Li zite ‘ngalera

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Barocco napoletano a Milano trecento anni dopo

Li zite ‘ngalera (I fidanzati sulla nave, come traduce il regista Leo Muscato), «commeddeja de lo segnore Bernardo Saddumene», vide la luce con grande successo il 3 gennaio 1722 al Teatro dei Fiorentini di Napoli su musica di Leonardo Vinci, maestro di cappella del principe di Sansevero. È una delle sue otto commedie per musica in dialetto napoletano destinate a quel teatro, il più antico della città. Con un palcoscenico di sei metri per sei e poche centinaia di posti, il Teatro dei Fiorentini fu fondato nel 1608 per rappresentazioni in prosa, nel 1706 venne trasformato in teatro d’opera diventando uno dei maggiori palcoscenici napoletani con in cartellone intermezzi e opere buffe. Dopo un incendio nel 1711 fu riaperto due anni dopo e ospitò i titoli più popolari in dialetto di Leonardo Leo, Michele Falco, Antonio Orefice e del Vinci: Lo cecato fàuzo, Le ddoje lettere, Don Ciccio e appunto Li zite ‘ngalera, l’unica di cui ci sia arrivata la musica. Quando nel 1724 con La mogliera fedele presentò la sua ultima commedia, il compositore era già passato a scrivere per il genere serio per il quale è oggi rinomato.

Distribuita in tre atti, «la chelleta se fegne a Vietri», ossia la vicenda si finge a Vietri sul Mare con un nutrito numero di personaggi. Infatti «chille che chiacchiarejano songo»: Carlo Celmino, Belluccia Mariano, Ciomma Palumbo, Federico Mariano (l’unico che si esprima in “toscano”), Meneca Vernillo, Titta Castagna, Col’Agnolo, Ciccariello (il suo garzone), Rapisto (garzone di Meneca), Assan e ‘na Schiavottella.

Il giovane gentiluomo sorrentino Carlo Celmino abbandona il suo vecchio amore Belluccia Mariano per la sua nuova fiamma, Ciomma (detta anche Ciommetella) Palummo, parente della vecchia Meneca Vernillo, madre di Titta Castagna che ama, non ricambiato, Ciommetella, la quale è oggetto anche delle attenzioni amorose del barbiere Col’Agnolo. Travestita da uomo, sotto il falso nome di Peppariello, Belluccia fugge dalla casa paterna in cerca di Carlo, per poter recuperare l’onore perduto. Così travestita riesce a far innamorare di sé numerose donne del luogo, tra cui la stessa Ciomma. Giunge il padre di Belluccia, il comandante di galera Federico Mariano, servito fedelmente dal suo schiavo Assan. Riconosciuti la figlia e Carlo, minaccia ad entrambi la morte ma i due giovani, riconciliati, sposati e ottenuto il perdono paterno, partono infine lasciando ai paesani il ricordo de “li zite ‘ngalera”. 

L’atmosfera è un po’ quella del Campiello o de La locandiera del Goldoni di trent’anni dopo, ma con un gusto per i travestimenti che fonda le sue radici nel teatro barocco. Come dice il regista «è una commedia dove tutti amano la persona sbagliata, perché ciascuno è innamorato di qualcun altro» e dove la commistione dei generi è sovrana: un personaggio femminile travestito da uomo ama un personaggio maschile interpretato da una donna, la vecchia vedova è interpretata da un uomo seguendo la tradizione delle nutrici monteverdiane e, come se non bastasse, due personaggi cantano con voce contraltista e sopranista. 

L’opera era stata scoperta nel 1979 da Roberto De Simone e a quel suo stile teatrale sembra tendere la produzione che il Teatro alla Scala propone in questi giorni. Senza azzardarsi in operazioni al quadrato, destrutturazioni o attualizzazioni, Muscato mette in scena la commedia affidandosi al testo vivacissimo e pieno di sottintesi erotici del Saddumene, nom de plume anagrammatico di di Andrea Bermures, un funzionario di corte che nei suoi libretti usava uno pseudonimo per non compromettere il suo status sociale. I trentasei cambi di scena sono resi con fluidità dagli ambienti scorrevoli di Federica Parolini che ricrea una Napoli settecentesca gustosa anche se un po’ oleografica. Sulle pareti della locanda affacciata sul golfo di Amalfi fanno bella mostra numerosi dipinti del Vesuvio in eruzione, così come variopinte maioliche di Vietri e modellini di velieri. I costumi di Silvia Aymonino e le calde luci di Alessandro Verazzi contribuiscono alla piacevolezza visiva dello spettacolo. Muscato conosce bene il teatro napoletano avendo lavorato con Luigi de Filippo e affida gran parte della realizzazione alla vivacità degli attori, alcuni molto bravi. Forse eccessivo è l’uso di mosse e mossettine, soprattutto per il personaggio di Ciccariello, e di gag, siparietti e controscene da commedia dell’arte. Ma bisogna dargli atto che la drammaturgia de Li zite ‘ngalera è quella che è.

La folta compagnia comprende musicisti che sanno anche suonare oltre a cantare, e a muoversi con scioltezza. Il soprano Francesca Aspromonte è Carlo Celmino, «gentelomo de Sorriento», un Don Giovanni gender fluid dalla luminosa vocalità; Chiara Amarù canta con bel timbro e veste con vivacità i panni prima maschili poi femminili di Belluccia Mariano alias Peppariello; Francesca Pia Vitale è una vocalmente e scenicamente spigliata e brillante Ciomma Palummo, la bella che tutti vogliono conquistare, indecisa nel suo affetto verso Peppariello come canta nella sua deliziosa prima aria «Va dille ch’è no sgrato | no, no le di’ accossì»; Filippo Mineccia è Titto Castagna e a lui tocca una delle arie più belle e malinconiche dell’opera «Oh Dio, pecché, pecché | ammore si’ pe mme | sempre cchiù ammaro?» interpretata con grande intensità e si dimostra anche ottimo suonatore di flautino, così come Alberto Allegrezza, nei panni della vecchia ma sempre vogliosa Meneca Vernillo, delineata con felice verità ma senza volgarità; altrettanto divertente è il Rapisto di Marco Filippo Romano, dipinto con la solida verve comica che gli riconosciamo; meno convincente e con qualche pecca vocale Filippo Morace come il «capetanio de Galera» Federico Mariano nella sua aria, l’unica con agilità; efficace invece e vocalmente brillante il barbiere Col’Agnolo di Antonino Siragusa; Raffaele Pe è infine Ciccariello, un Arlecchino/Pulcinella sgambettante e burlone. Fan Zhou (Schiavottella) e Matías Moncada (Assan) completano il nutrito cast. A parte alcune arie, la partitura de Li zite ‘ngalera è piuttosto semplice e ripetitiva, ci voleva un esperto come Andrea Marcon per trovare i tempi e le dinamiche giuste e il risultato è soddisfacente grazie anche all’orchestra del teatro rimpolpata da membri della Cetra Barockorchester di Basilea per dare il giusto colore antico.

Questo di Vinci è l’unico titolo barocco della stagione della Scala. E meno male che ce n’è almeno uno, in molti altri teatri ancora non si è fatto nemmeno il tentativo di introdurre qualcosa che sia al di fuori del repertorio ottocentesco più risaputo.

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