La sposa dello zar

Konstantin Makovskij, La scelta della sposa, 1887

Nikolaj Rimskij-Korsakov, La sposa dello zar

Torino, Teatro Regio, 26 marzo 2023

(esecuzione in forma di concerto)

La sposa ambita

È la solita storia del soprano e del tenore il cui amore è contrastato dal baritono, ma qui c’è un terzo pretendente in lizza: lo zar stesso, quell’Ivan IV Groznyj (il Terribile) la cui proposta non si può rifiutare.

Siamo infatti nel 1572, nella Russia dove il passatempo preferito dagli uomini è quello di rapire fanciulle: «Quando una ragazza mi piaceva, arrivavo di notte, forzavo la porta, la caricavo sulla trojka e l’affare era fatto […] quante hanno appagato il mio sangue ardente!» canta Grjaznoj nel primo numero musicale dell’opera dopo l’ouverture. Oppure si fa come lo zar, che sceglie una delle sue otto mogli radunando le belle dei villaggi. Secondo il politically correct quest’opera non si potrebbe neppure mettere in scena!

Tratta dalla tragedia omonima del 1849 di Lev Aleksandrovič Mej, è quasi un unicum nella produzione di Rimskij-Korsakov che ha sovente preferito soggetti di fiaba o del folclore russo per il suo teatro musicale. Mej gli aveva fornito anche i testi de La fanciulla di Pskov (1873) e Servilia (1901). Ma è nella forma musicale che sta la peculiarità de La sposa dello zar (1899) in cui il compositore russo adotta un modello “sorpassato” – siamo nel 1899, un anno prima in Italia c’era stata Fedora di Giordano e il 1900 di apre con le note della Tosca pucciniana – un modello che recupera le forme chiuse del melodramma del passato soppiantate dal declamato continuo delle forme aperte in cui erano state scritte le opere di Musorgskij. Quello di Rimskij-Korsakov non era però un provocatorio ritorno alle origini dell’opera russa, quella di Glinka, ma rispondeva a precisi obiettivi estetici di equilibrio tra musica e dramma: «in musica non c’è che lirismo: ci possono essere situazioni drammatiche, ma non dramma propriamente inteso» scrive in una lettera all’amico Mikhail Vrubel. L’intento è quello di ripristinare l’idealismo di una musica che trascenda l’azione. Ed ecco quindi il frequente utilizzo dei pezzi d’insieme, duetti, trii, quartetti, concertati, inconcepibili per Musorgskij come per Wagner. Ciononostante La sposa dello zar è opera moderna perché astrae in pura invenzione sonora le violenti emozioni della vicenda con grande distacco da parte del compositore. È la malinconia il sentimento che pervade i personaggi: quella di Grjaznoj per i «giorni sfrenati»; di Lykov per i paesi dove «la gente, la natura, tutto è diverso»; di Marfa per l’infanzia quando conobbe il suo Vanja; di Ljubaša per l’amore perduto di Grigorij. Sono momenti in cui evidente è l’influsso di Čajkovskij nella melodia nostalgica ma soprattutto nella strumentazione. Quasi un Leitmotiv è il tema «Slava» (Gloria), l’inno dello zar enunciato la prima volta dopo il brindisi, che ritorna ogni volta che si faccia riferimento alla figura dello zar, talora in modo ossessivo, sinistro, minaccioso.

Bene ha fatto il Regio di Torino a scegliere di far conoscere questo titolo anche se solo in forma di concerto. Le esigenze di bilancio per una volta sono un motivo positivo per godere, senza le “distrazioni” della messa in scena, di una musica di eccezionale qualità messa magistralmente in luce dalla concertazione appassionata del trentasettenne direttore ed ex clarinettista Valentin Uryupin, ucraino di origine (è nato a Lozova quando esisteva ancora l’Unione Sovietica) ma russo di formazione e cittadinanza, vincitore nel 2017 del prestigioso Sir Georg Solti International Conductor’s Competition di Francoforte, e allievo di Gennadij Roždestvenskij. La leggendaria cura strumentale del compositore è messa in luce dalla cura orchestrale del giovane direttore che rivela una formidabile capacità nell’incalzare e portare al massimo livello qualitativo la compagine del teatro. Anche il coro, istruito da Andrea Secchi, nei numerosi momenti richiesti dall’opera dimostra compattezza e precisione, magari non sempre impeccabile si dimostra la dizione – si è sentita la mancanza di un coach di eccezione come il precedente sovrintendente Sebastian Schwarz – ma i numerosi interventi corali, alcuni polifonici, mai facili comunque, hanno una felice esecuzione.

A suo agio nella lingua, invece, il cast vocale, multiforme ma proveniente quasi tutto da quella grande regione una volta unita: ecco quindi dei russi, un azerbaijano, una bielorussa, un ucraino, a dimostrazione che la musica unisce, non divide. Due i personaggi più complessi della vicenda e tutti e due hanno interpreti che si sono particolarmente distinti. Il baritono Grigorij Grjaznoj ha la voce di Elchin Azizov dal bellissimo timbro, notevole proiezione, gamma estesa e omogenea, grande intensità espressiva. Fin dal suo intervento con cui si apre il lavoro, un recitativo e aria di solida costruzione, si è capito che ci si trovava davanti a un cantante di eccellenza e il resto dell’opera ha confermato la prima impressione. Appartiene alla scuola del Regio Ensemble ma dimostra già grande maturità il mezzosoprano Ksenia Chubunova, una intensa Ljubaša dalla calda voce che ha stregato il pubblico con la sua canzone del primo atto cantata a voce nuda nel silenzio degli strumenti. Ha poi dimostrato temperamento e una intensa interpretazione nel successivo duetto con l’infedele Grjaznoj e poi nei suoi affannosi interventi del quarto atto quando confessa le sue colpe.

Il soprano Nadine Koutcher è Marfa, l’infelice sposa ambita da tre uomini. I momenti solistici per il suo personaggio sono l’aria del secondo atto «A Novgorod vivevamo vicini» e quella dell’ultimo atto, una vera e propria aria di pazzia in cui il dolore fa scambiare Grjaznoj per l’amato Lukov. In entrambe la cantante bielorussa dimostra sensibilità e una impeccabile linea vocale. Il personaggio di Lykov non ha una grande personalità drammaturgica, ma ha a disposizione due momenti di grande liricità: l’arioso del primo atto in cui racconta dei suoi viaggi nell'”esotico” Occidente e l’aria nel terzo atto, «Le nubi tempestose sono sparite», in cui pensa sia scampato il pericolo che la sua Marfa sia vittima delle voglie dello zar. E invece… Il tenore Sergej Radčenko personalità ne ha, il timbro è particolare ma gradevole, e qualche piccolo sbandamento di intonazione non inficia la sua performance. Il tenore Thomas Cilluffo, anche lui del Regio Ensemble e presenza frequente della stagione, delinea correttamente Bomelij, magari un pizzico di idiomaticità in più non sarebbe guastato per un personaggio che anticipa con la sua tessitura acuta il futuro Astrologo del Gallo d’oro. Gloria dell’opera russa di oggi e di ieri è il basso Gennadij Bezzubenkov, un Sobakin irresistibile che scatena l’entusiasmo del pubblico torinese accorso in buon numero ad ascoltare questa interessante proposta e che festeggia con caldi e prolungati applausi tutti gli artisti coinvolti.