Orfeo ed Euridice

foto © Michele Crosera

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Venezia, Teatro la Fenice, 28 aprile 2023

★★★★☆

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L’opera di Gluck ritorna alla Fenice dopo quasi trent’anni 

Rivoluzionare l’opera in 75 minuti di musica è quello che riesce a Christoph Willibald Gluck nel 1762 con l’ennesima riproposizione del mito di Orfeo ed Euridice, lo stesso con cui l’opera era nata all’inizio del Seicento con l’Euridice di Peri (1600), poi con quella di Caccini (1602) e quindi con L’Orfeo (1607) di Monteverdi. Un mito che vive nel tempo come tema dell’amore che vince la morte.

L’intento di Gluck e del suo librettista Ranieri de’ Calzabigi era quello di rinnovare completamente il modello operistico dell’opera seria fino allora in voga, ossia quello metastasiano, fondato sull’alternanza di recitativi e arie. Nel 1762 Vivaldi e Vinci erano morti da alcuni decenni, Händel da tre anni e Porpora sarebbe mancato quattro anni dopo: con loro il modello a numeri chiusi era arrivato al culmine delle sue possibilità espressive con arie che erano scrigni di prodezze vocali difficilmente superabili ma drammaturgicamente lontane dalla rappresentazione del vero. 

Con l’intelligibilità totale del testo e un continuum musicale che segua l’azione senza interromperla «o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti», come scrivono nella prefazione all’Alceste, Gluck e Calzabigi cercarono di realizzare nella musica gli ideali illuministici della ragione, la naturalezza, la logica, la verità, concetti su cui si basava il movimento che si stava sviluppando in quel periodo quando il mecenatismo di corte iniziava a venir meno a favore di un pubblico colto ma non unicamente aristocratico. Di qui la semplificazione dell’azione drammatica e la supremazia del testo sulla musica ripulita degli artifici barocchi ed eccessi di virtuosismo che compromettevano la comprensione delle parole. L’Orfeo ed Euridice e il successivo Alceste realizzavano appunto questi intenti. La vicenda dell’Orfeo ed Euridice è talmente scarnificata e il numero di personaggi ridotto, da risultare una rivoluzione totale rispetto ai macchinosi e affollati spettacoli barocchi settecenteschi. Qui si inizia con un funerale, si procede con l’ingresso agli inferi, poi una sofferta uscita e un gioioso ricongiungimento finale. Tutto qui. Soltanto un’ora e quindici minuti di musica se, come avviene qui al Teatro la Fenice di Venezia, vengono tagliate quasi tutte le danze previste da questa “Azione teatrale per musica in tre atti”.

Una sintesi non solo sonora ma anche visiva, così come avviene nella depurata messa in scena di Pier Luigi Pizzi, il decano degli scenografi italiani che aggiunge questa ennesima esperienza alla sua frequentazione del teatro gluckiano. In scena vediamo delle pietre tombali che rimandano alle visioni cimiteriali della poesia pre-romantica di Thomas Gray (Elegy Written in a Country Churchyard), di Robert Blair (The Grave), di Edward Young (Night Thoughts) o del nostro Ugo Foscolo (Dei sepolcri). In una di queste tombe verrà calato il corpo esanime di Euridice. Lo sfondo della scena è un grande schermo su cui vengono proiettate figure di cipressi e di un albero scheletrico, un cielo cangiante di nubi tempestose o squarci di sereno, una superficie marina, le fiamme dell’Erebo. Nel finale appare la facciata della Fenice: anche lei rinata, più volte, dopo la morte (gli incendi) grazie all’amore per il teatro.

Due elementi scorrevoli neri formano la porta che sbarra l’ingresso agli inferi. Accompagnano il canto del semidio nei ritornelli sei mimi musicanti, un quartetto d’archi, un flauto e un’arpa, quest’ultima non troppo agevole da trasportare tanto da conseguire un effetto quasi comico. Il coro, il quarto personaggio, ai lati del proscenio in scuri costumi drappeggiati intona prima i lamenti funebri («Ah! se intorno a quest’urna funesta») poi lo sdegno delle furie («Chi mai dell’Erebo fra le caligini») raddolcite infine dal canto di Orfeo.

Un mezzosoprano e due soprani sono le voci impiegate da Gluck in questa prima versione di Orfeo ed Euridice – a Vienna nel 1762 la parte di Orfeo fu creata per un castrato mentre a Parigi, dodici anni dopo, la nuova versione in francese prevedeva invece un haute-contre – e tre voci femminili sono dunque presenti sulla scena. Cecilia Molinari è un Orfeo intenso e appassionato, di bel fraseggio, che esibisce eleganti variazioni alla ripresa la seconda volta del suo «che farò senza Euridice!», unica concessione “belcantistica” al rigore espressivo del compositore. Forse una recitazione ancora più trattenuta avrebbe fornito un effetto più sublimato e meno terreno al suo personaggio. Mary Bevan è una trepidante Euridice dalla bella linea vocale, mentre spigliato è l’intervento di Silvia Frigato, Amore. La concertazione di Ottavio Dantone, grande specialista di questo repertorio, è come sempre appropriata, con dinamiche precise, buoni colori strumentali, ma senza particolari guizzi interpretativi. Corretti si sono dimostrati l’orchestra e il coro del teatro. Sala come sempre piena di un pubblico attento e generoso negli applausi finali.

Tutto bene, ma… D’accordo che ai tempi di Gluck potevano essere stufi della «superfluità di ornamenti», ma io uscendo dal teatro e avventurandomi nelle calli veneziane invece di «Che puro ciel» canticchiavo tra me e me «Vo solcando un mar crudele»!