Ranieri de’ Calzabigi

Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

★★★★☆

Berlin, Komische Oper, 7 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Orfeo ed Euridice, l’histoire d’un couple

«Les origines du mythe sont très lointaines. Ce qui est déterminant pour moi, c’est sa composante “vie réelle” ; je me demande ce qui relie ces mythes à nos vies d’aujourd’hui. Je pense que c’est la raison pour laquelle cette histoire a été écrite : elle a été écrite pour partager des expériences de vie», écrit Damiano Michieletto…

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Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

★★★★☆

Berlino, Komische Oper, 7 luglio 2022

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Orfeo ed Euridice, una storia di coppia

«Le origini del mito sono molto lontane. Ciò che è decisivo per me è la sua componente di vita reale; mi chiedo cosa colleghi questi miti alla nostra vita di oggi. Penso che questo sia il motivo per cui questa storia è stata scritta: è stata scritta per condividere esperienze di vita» scrive Damiano Michieletto, e continua: «al centro di quest’opera c’è una fedeltà d’amore, l’esperienza del viaggio di Orfeo. Nel corso del viaggio, i personaggi trovano l’amore e si ritrovano l’un l’altro. La crisi dell’inizio porta presto alla morte di Euridice e quando Orfeo la ritrova, è come se questa crisi continuasse e si risolvesse poco prima della fine. Cerco di sviluppare questa storia come la storia di una coppia, piuttosto che come le gesta di un singolo eroe».

Non c’è il mito nella intensa lettura di Orfeo ed Euridice del regista veneziano, ma una storia borghese, molto contemporanea. Se è il senso di colpa che spinge Orfeo a salvare Euridice, è però Amore il terzo personaggio, motore della vicenda anche se non è nel titolo: «Il trionfo dell’amore alla fine deriva dall’esperienza della finitezza della vita. Questo pensiero è difficile da sopportare. Il senso del motivo del viaggio e delle avventure di cui parlano numerosi miti è, a mio avviso, il tentativo di mostrare, con mezzi artistici, il vissuto di un’esperienza di vita veramente significativa. Si tratta della possibilità di cambiare, di incontrarsi di nuovo, di amare di nuovo e forse anche in modo diverso», dice ancora il regista.

Al levarsi del sipario, dopo l’ouverture, vediamo una coppia in crisi seduta a un tavolo in abiti degli anni ’50 (costumi di Klaus Bruns). Entrambi sono nervosi, lui con una valigia pronta, che poi afferra e se ne va. Rimasta sola, sconvolta, lei si taglia le vene dei polsi. Non è il morso di un serpente a distruggere l’armonia tra Orfeo ed Euridice, ma la mancanza di comunicazione, la constatazione di non aver più nulla da dirsi, la perdita dell’amore. Nella scena seguente il coro intona il mesto «Ah! se intorno a quest’urna funesta» non in un «solitario boschetto di allori e cipressi», ma in una corsia di ospedale: Euridice è su un lettino in pericolo di vita, Orfeo chiama il suo nome e intona poi la sua prima aria rivolgendosi agli altri degenti. Nel culmine della disperazione prende la pistola di una guardia e se la punta alle tempia, ma viene fermato da Amore, un prestigiatore in cilindro e marsina piuttosto male in arnese, che gli promette di fargli ritrovare l’amata a condizione che… beh, lo sappiamo. Nel frattempo un parallelepipedo è sceso dall’alto e ha inglobato il lettino di Euridice e tutti i degenti: ora Orfeo è solo e inizia il suo viaggio nell’aldilà tra tuoni e lampi (luci bellissime come sempre quelle di Alessandro Carletti). Lo scenografo Paolo Fantin prevede ora una camera a prospettiva forzata che avanza dal fondo e le cui linee conducono a una porticina che dà su un nulla nero. In scena un grumo di figure nere e senza volto si agita minaccioso: è la «turba infernale» che impedisce il passaggio ad Orfeo. Ci vorrà il suo canto per raddolcirli: le figure nere si liberano del tessuto nero e diventano gli spiriti celesti. Orfeo cerca inutilmente tra quegli stracci l’amata, finché sul fondo si vede una larva nera che si contorce e ne escono le membra della donna. I due coniugi finalmente si ritrovano, ma l’angoscia di non poterla vedere in faccia e l’insistenza di lei per uno sguardo porta alla tragedia: inutilmente Orfeo ha cercato di bendarsi gli occhi con quegli stracci, cede e perde un’altra volta Euridice, che viene fagocitata da quella massa nera. Cambio di scena, siamo di nuovo nell’ospedale, il lettino della donna è vuoto e sono ancora i degenti ad ascoltare il lamento di Orfeo, «Che farò senza Euridice». Si ripete la scena di prima: Orfeo prende la pistola della guardia, la punta alle tempia ed è nuovamente Amore, questa volta in un completo scintillante di paillettes, a fermare il gesto e annunciargli che gli viene resa la sposa. Ma non è finita per Orfeo: durante le danze del finale altre alter ego di Euridice sembrano voler mettere alla prova il suo amore. L’ultima scena è come la prima: un tavolo, i due coniugi, la valigia, ma questa volta è l’amore che vince e i due vivranno felici e contenti, «Trionfi Amore, | e il mondo intero | serva all’impero | della beltà».

Ho raccontato fedelmente lo spettacolo per un motivo: questa era l’ultima ripresa, dopo Berlino questa produzione giacerà nei magazzini fino all’estate del ’24, quando andrà in scena a Spoleto. Fino ad allora rimarrà solo nella memoria degli spettatori che hanno assistito alle recite di gennaio e alle due riprese di luglio.

La pulizia visiva ottenuta dal regista e dal suo scenografo non sembra abbia un corrispettivo nella direzione un po’ disordinata di David Bates che non rende la trasparenza dell’orchestrazione e sceglie tempi estremi, e negli strumentisti dell’orchestra del teatro, incerti tra esecuzione storicamente informata e slanci romantici. La versione scelta è quella viennese, in italiano, senza l’aria “spuria” del finale atto primo («Addio, o miei sospiri») e la scena seconda dell’atto secondo (Euridice e coro) ma con le danze dell’atto terzo, quei famosi nove lunghi minuti che Carsen aveva tagliato a Roma e che qui sono realizzati con i movimenti coreografici di Thomas Wilhelm.

Buono il coro ospite, il Vocalconsort Berlin, validamente impegnato anche scenicamente. Nadja Mchantaf è un’intensa Euridice dalla voce insolitamente drammatica per la parte, ma qui del tutto coerente con la lettura registica. Efficace nei suoi due interventi risolutori l’Amore di Susan Zarrabi, soprano dotato di voce sicura e valida presenza scenica.

E infine c’è l’Orfeo di Carlo Vistoli, il quale con questa performance non si conferma soltanto tra i migliori controtenori di oggi, ma tra i migliori interpreti della scena lirica tout court. Michieletto lo vuole sempre presente e lo sottopone a ogni forma di fatica: su e giù sul palcoscenico, tirato per i piedi, trascinato, portato in spalla, si rotola negli stracci e poi nelle “ceneri” di un’urna, viene investito da un secchio d’acqua… Con questa prova si rivela attore a tutto campo con una attorialità solidissima e una prestazione vocale di qualità superlativa. Dimentichiamoci i timbri sbiancati, le voci esili di certi controtenori: qui il suono è corposo, riempie il teatro, si piega a ogni possibilità espressiva pur mantenendo una linea di canto stilisticamente ineccepibile con abbellimenti, trilli, variazioni magistralmente eseguiti. La sua è una definizione del personaggio complementare a quella realizzata con Carsen, ma con un approccio di fondo che si rivela simile, ossia quello di svelare la verità di un personaggio che ha perso l’aurea eroica del mito e che si è fatto umano, molto umano. Il pubblico presente l’ha capito e ha tributato grandiose ovazioni nei suoi confronti.

Orphée et Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orphée et Euridice

★★★★☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 24 February 2018

Mourning becomes Orpheus: Gluck at La Scala

With Monteverdi’s L’Orfeo a new theatrical genre was born. With Gluck’s Orfeo, 150 years later, the same genre was put under discussion and renovated. This pivotal work is known in three main versions: Orfeo ed Euridice (Vienna 1762, in Italian and with the role of the protagonist for an alto castrato); Orphée et Euridice(Paris 1774, in French, for a haute-contre); Orphée et Eurydice (written with y, Paris 1859). Leaving out the latter that Berlioz adapted from the French version changing the orchestration and transposing the part of the protagonist for mezzo-soprano Pauline Viardot, the two versions of Gluck’s time differ so much that we can almost speak of them as two distinct works…

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Alceste


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Christoph Willibald Gluck, Alceste

★★★☆☆

Madrid, Teatro Real, 27 febbraio 2014

(registrazione video)

Alceste, una tragedia moderna

Che bello quando dietro la ripresa di un classico, della messa in scena di un’opera vista e rivista, c’è un’idea registica, che magari può non piacere, ma c’è, diversamente da certe rappresentazioni “classiche” tanto amate dal pubblico.

L’ultimo prodotto della gestione di Gérard Mortier – il consulente artistico ed ex direttore del Teatro Real di Madrid morirà infatti l’8 marzo 2014 poco dopo la prima – è questo Alceste affidato a quell’enfant terrible che ha nel nome apparentemente impronunciabile quasi solo consonanti, e le più ostiche: Krzysztof Warlikowski. Proveniente come formazione dal teatro drammatico (come Visconti, come Strehler…) il polacco ha un senso del teatro mostruoso (nel senso fantozziano del termine), che talora prende alcune sbandate (vedi il suo Don Giovanni di Bruxelles), ma spesso lascia invece il segno e fa pensare gli spettatori, cosa non sempre accettata da chi al teatro d’opera delega una funzione digestiva e propizia al sonno.

E una tisana di tiglio e camomilla questo spettacolo di Madrid proprio non lo è. Lo si capisce subito dalle prime note dell’ouverture. Nella nuda scena irrompe angosciata una figura moderna di donna: il marito sta morendo, lei si attacca nervosamente a una sigaretta, corre a un lavandino per liberarsi dei conati di vomito, perde le scarpe, subito raccolte dalla dama di corte assieme alla borsetta della bionda e malinconica principessa in tailleur blu elettrico. Frattanto in scena ha preso posto una corsia di ospedale e il coro che lamenta il triste destino della Tessaglia è formato da degenti e visitatori. Le parole che cantano «O dieux! qu’allons-nous devenir? | Non, jamais le courroux céleste, | Sur des mortels qu’il veut punir, | N’a frappé de coup plus funeste» in questo modo hanno un’intensità ancora maggiore. Riconosciamo in Alceste la reincarnazione di Lady Di che porta il suo conforto tra i letti del nosocomio. E per essere più chiari lo spettacolo era iniziato con una lunga intervista in cui Alceste/Diane dichiarava il suo amore per il marito, ma noi sappiamo che non è vero ed è il senso di colpa di lasciarlo mentre sta morendo che la spinge a giocare un ruolo che è puramente rappresentativo. L’amore che invoca è solo di facciata, un’immagine ipocrita della famiglia, come sarà messo in evidente dal regista nella scena conclusiva dell’opera con quel posticcio happy end.

Ma ritorniamo al primo atto. Nella scena seguente siamo al tempio, qui un moderno ambiente liturgico con sullo fondo una grande croce luminosa. Alceste veste il lutto in attesa del responso del gran sacerdote. Il rito continua, ma invece di sacerdotesse, fumi di incensi, vittime sacrificali e relativo scrutamento di interiora, qui c’è la lavanda dei piedi, rito auto-umiliante cui si sottopone Alceste prima di ingerire una bella dose di barbiturici.

Nel secondo atto siamo a corte e si festeggia il repentino ricupero della salute di Admeto cui si unisce un’Alceste in abito da sera rosso ciliegia, ma emotivamente assente. Qui il regista inserisce inopinatamente un numero di flamenco (strizzata d’occhio al pubblico madrileno?) che ha una sua giustificazione nel clima di straniamento della festa. Non sarà l’unico inserimento insolito voluto dal regista: vi saranno anche dei dialoghi parlati, in inglese! Admeto svela la sua vera natura quando apprende che la moglie si è sacrificata per lui: «Qui t’a donné le droit de disposer de toi? | Les serments de l’amour et ceux de l’hyménée | Ne te tiennent-ils pas à mes lois enchaînée? | Tes jours, tous tes moments ne sont-ils pas à moi?». Parole che in questo contesto mettono ancora più in evidenza il ruolo di subordinazione della donna alle leggi dell’uomo di potere. Nella conclusione dell’atto si raggiunge un momento di magica sospensione teatralmente efficacissimo e reso magnificamente sia dalla musica sia dalla regia.

Il terzo atto ha luogo in un obitorio con dei cadaveri che prenderanno vita in maniera piuttosto disturbante durante il lungo colloquio dei due sposi che precede il trapasso di Alceste e poi il suo riluttante ritorno fra i vivi. Alla fine la famiglia si riunisce, ma a spese della sanità mentale di Alceste, inerte su una sedia a rotelle. La sua ribellione ai falsi valori della famiglia è qui beffardamente punita imprigionandola in quella gabbia da cui lei voleva fuggire.

Questo per quanto riguarda la messa in scena, completata da immagini video in questa realizzazione visionaria e ipnotica forse più di Euripide che di Gluck. Ma chi avrebbe detto che la controversa regia di Warlikowski, qui al suo secondo Gluck dopo l’Iphigénie en Tauride di Parigi, sarebbe stata la parte più convincente di questo spettacolo?

Ivor Bolton, nuovo direttore musicale del teatro, sceglie la versione parigina del 1776 della tragédie-opéra, su libretto in francese quindi. Nonostante la sua direzione energica, scollamenti tra buca e cantanti o coro in scena non sono rari.

Angela Denoke, ammirata interprete di opere del secolo scorso (Janáček, Berg, Hindemith…), fa fatica qui a tenere una linea di canto esente da sbandamenti di intonazione, vibrati eccessivi e dizione ai limiti della comprensibilità. L’intensità della sua interpretazione non compensa i difetti della vocalità e senza voler tirare in ballo impietosi confronti, non dico con la solita Callas ma anche con altre interpreti più recenti, vocalmente questa non sembra proprio una parte per lei. Qui le qualità vocali sono sottomesse alle impegnative esigenze drammaturgiche. È una scelta fatta dallo stesso Warlikowski anche per la sua Médée di Cherubini con Nadja Michael modellata sulla figura di Amy Winehouse. Che piaccia o no, occorre tener conto di questa tendenza nella messa in scena delle opere oggi. Nessuna Jessie Norman avrebbe potuto interpretare la parte di Alceste in questo allestimento… Vocalmente le cose non vanno meglio neanche con l’Admeto/Prince Charles di Paul Groves, lo stesso dell’edizione parigina di Bob Wilson, ma qui gli acuti sono strozzati e la voce si è fatta nel frattempo più sottile e affaticata.

In una produzione madrilena Willard White non poteva mancare, e infatti non manca. Una dizione francese del tutto approssimativa e una voce quasi allo stremo caratterizzano il suo Gran Sacerdote, intimidatorio simbolo delle forze oppressive e colpevolizzanti della religione (tema caro al regista venuto dalla cattolicissima Polonia), e infine Divinità Infernale. L’Ercole, buffonesco istruttore di scherma dei principini, nella sua breve parte è un convincente Thomas Oliemans, così come Magnus Staveland, Evandro, qui amante neanche tanto segreto di Alceste.

Orpheus und Eurydike

Christof Willibald Gluck, Orpheus und Eurydike

★★★★★

Parigi, Opéra Garnier, 4 febbraio 2008

(registrazione video)

Pina Bausch e il suo intensissimo Orpheus

Se Bob Wilson aveva eliminato completamente i balletti nella sua stilizzatissima e minimalista interpretazione di Orphée et Eurydice (nella versione francese), qui, sempre a Parigi, abbiamo invece un’edizione in lingua tedesca che ha il suo punto di forza proprio nella coreografia di Pina Bausch. La sua lettura è più fedele alle origini dell’opera di Gluck che era nata come “azione teatrale” in quella Vienna del 1762 le cui scene erano dominate dal coreografo italiano Gasparo Angiolini con cui Gluck e Calzabigi avevano creato quello stesso anno il balletto pantomima Don Juan ou Le festin de pierre per l’onomastico dell’imperatore. A quel tempo balletto e opera erano una cosa sola.

Divisa in quattro quadri – Lutto, Violenza, Pace, Morte – la lettura della coreografa tedesca parte dalla versione originale di Vienna dell’opera per ricostruire la vicenda secondo i suoi temi prediletti: l’amore contrastato, la perdita, la violenza e la morte. Gluck aveva scritto la “danza delle furie” e la “danza degli spiriti beati”, ma la Bausch affianca ai tre cantanti in scena un doppio che danza la loro parte. Cantanti e ballerini sono spesso fisicamente vicini, ma sembrano abitare mondi paralleli che ogni tanto si sovrappongono. Solo in un punto prevale la vocalità, quando Orfeo affranto si rende conto di aver perduto per sempre l’amata e intona una delle arie più conosciute dell’opera seria, «Che farò senza Euridice», e il ballerino che lo doppia rimane accasciato in un angolo dello sterminato e vuoto palcoscenico senza muoversi e con le spalle al pubblico lasciando al canto l’espressione del dolore.

Sono i danzatori a esprimere i sentimenti dei personaggi, le cantanti nel loro abito nero hanno posizioni defilate in scena e il coro è sempre invisibile. Il teatro espressionista della Bausch si sovrappone in maniera magnifica sul trattamento neoclassicista della vicenda e anche se non si tratta ancora del Tanztheater con cui verrà in seguito conosciuta, la coreografia della sua dance-opera Orpheus und Eurydike, ideata a Wuppertal nel maggio 1975, contiene già molte caratteristiche del suo stile.

Dal 2005 il balletto dell’Opéra National di Parigi ha il privilegio di poter interpretare e mettere in scena, caso piuttosto raro, lo spettacolo della Bausch e quella che vediamo su DVD della Belair è la registrazione della ripresa del 2008 con le voci di Maria Riccarda Wesseling, Julia Kleiter e Sunhae Im (rispettivamente Orfeo, Euridice e Amore, quest’ultima la più convincente delle tre), ma sono i corpi dei danzatori Yann Bridard e Marie-Agnès Gillot a farsi ricordare per l’intensità della loro interpretazione. Il primo, in shorts color carne, dipinge il dolore della perdita e lo straniamento cui è soggetto sia in questo che nell’altro mondo e non sembra il cantore che può ammansire le belve con la lira, che infatti qui non ha. Del secondo non si può cancellare dalla mente la straordinaria prova di volontà della ballerina affetta fin da piccola da scoliosi che ha vinto la sua battaglia col corpo, ma che in ogni suo movimento ci fa partecipi di una sua sublimata sofferenza. Thomas Hengelbrock dal podio dà il giusto rilievo alla partitura con ritmi a tratti elettrizzanti.

Le ovazioni finali del pubblico vanno in buona parte all’esile figura della Bausch che sale sul palco assieme ai danzatori e ai cantanti a ricevere gli applausi. Morirà un anno dopo.

 

 

Orphée et Eurydice

Christof Willibald Gluck, Orphée et Eurydice

Monaco, Nationaltheater, 7 novembre 2003

(registrazione video)

Più Berlioz che Gluck

Nigel Lowery e Amir Hosseinpur avevano già lavorato insieme nel 1993 a Monaco alla produzione di Richard Jones del Giulio Cesare in Egitto. Qui condividono per la sesta volta la messa in scena – il primo si occupa delle scenografie e dei costumi e il secondo delle coreografie – dell’Orphée et Eurydice di Gluck nella versione di Berlioz.

Per una volta lascio la parola a Elvio Giudici, anche se non ne condivido del tutto l’entusiasmo e trovo che l’elemento grottesco faccia a pugni con la musica e con la concezione dell’opera, anche in questa esteriore versione di Berlioz. Sicuramente si tratta di uno spettacolo originale, anzi sono due spettacoli: quando alla fine il pubblico pensa sia terminato, entrano in scena i danzatori “veri” per un balletto, nello stile nervoso e disinvolto di Hosseinpur, in cui la vicenda è narrata una seconda volta con il mezzo della danza.

«Esemplare fusione di musica e scena in uno spettacolo che non ha intervalli e scorre veloce senza un attimo di cedimento: uno dei molti grandissimi spettacoli con i quali la Monaco di Peter Jonas cambiò faccia al repertorio barocco e post-barocco moderno. Sotto il profilo musicale, gran merito va al direttore inglese [Ivor Bolton] che, con un’orchestra morbida e ricca di colori, diversifica i vari momenti della vicenda e gli stati d’animo vissuti dei personaggi creando un articolatissimo caleidoscopio di atmosfere espressive. Ma merito ancor maggiore va a Vesselina Casarova, Orphée senz’altro tra i maggiori: sia per lo stile e la scioltezza – almeno apparente – con cui affronta le rocambolesche tessiture scritte espressamente per far brillare una fuoriclasse come Pauline Viardot, sia per le qualità d’attrice; sia infine per il convincentissimo physique du rôle. Molto affascinante anche Debora York nel ruolo di Amour cui la regia ha assegnato uno spazio assai più vasto del solito.  Stilisticamente inappuntabile, poi, l’Eurydice di Rosemary Joshua. Ottimo, infine, il coro istruito da Edouard Asimont, in  molte occasioni trasformato in vero e proprio personaggio e come tale chiamato a recitare. La qualità musicale e quella dello spettacolo si integrano e si compendiano come solo raramente avviene. L’idea base della regia e l’illusione: vita, amore, musica non sono altro che illusioni. La morte di Eurydice è la morte della musica: il coro iniziale – in scena, in lontananza, alcuni abeti su cui nevica – non è costituito da pastori, ma dei componenti di un’orchestra, tutti in frac e ognuno col proprio strumento, che piangono la loro ispiratrice. Anche Orphée, bellissimo, è in frac ma senza papillon: la sua cetra è il violino e lui canta il suo dolore alla custodia dello strumento, che però la morte d’Eurydice ha distrutto, sinché nel momento in cui la apre, scopre che contiene solo segatura. Quando, disperato, reclama il diritto a riavere l’amata, lo fa estraendo da una cartella spartiti della sua musica e spargendoli al vento. È a questo punto che arriva Amour, elegante pagliaccio con un bambolotto cui dà movenze umane facendogli assumere nella scena il fondamentale ruolo di simulacro della realtà: Orphée ci crede, si illude e si lancia, cantando – a sipario chiuso, sala illuminata e pubblico in giustificato tripudio – l’ariette (inteso alla francese come aria con vocalizzi) «Amour, viens rendre è mon âme», Rivisitazione di Berlioz del brano aggiunto da Gluck nella versione francese e che gli valse l’accusa di plagio nei confronti di Ferdinando Bertoni. Dal sipario ancora chiuso sbuca Amour che gli porge un nuovo violino con il quale si avvia alla porta degl’inferi, dove l’illusione continua. La scena, infuocata dalla luce rossa, è su due piani: in basso la platea di un teatro dove la musica, cioè l’orchestra-coro, è accasciata e vinta; in alto, il palcoscenico dominato da un grande camino e una schiera di crudeli cuochi-macellai (coristi anch’essi), Rivisitazione degli orchi delle fiabe che mangiano i bambini. Sono gli spiriti infernali che assaltano e mutilano gli orchestrali rendendo cattivi i sopravvissuti come accade con le vittime dei vampiri. Orphée li evita facendosi scudo del violino che brandisce come la testa di Medusa, e raggiunto un buio passaggio vicino al camino vi si inoltra. Il sipario del teatrino si chiude e, durante il cambio di scena, i coristi-orchestrali mimano di suonare l’introduzione ai Campi Elisi; quando si riapre, Orfeo emerge da un sarcofago rosa in un paesaggio di fiaba. Il coro, ora in tuniche allusive all’antica Grecia, partecipa alla restituzione di Eurydice, e in seguito in frac, all’esultanza finale quando Amour, anche lui in frac, la riporta definitivamente alla vita. L’avvenimento è festeggiato assistendo un balletto originale e spiritoso che ripercorre le tappe della vicenda».

Orphée et Eurydice

Christof Willibald Gluck, Orphée et Eurydice

★★★★★

Parigi, Opéra Comique, 10 ottobre 2018

(video streaming)

L’Orfeo di Gluck-Berlioz

Dove se non in Francia è possibile ascoltare la versione 1859 dell’Orphée et Eurydice, quella con l’y. Molte sono le differenze apportate da Berlioz per il Théâtre-Lyrique – un anno dopo la dissacrante parodia di Offenbach – e tutte nel gusto della sua epoca.

Il ruolo titolare è affidato al mezzosoprano Pauline Viardot che ha un trionfo personale come primo Orfeo al femminile, tale da avviare una vera e propria Gluck-renaissance in Francia e una bella rivincita per il compositore che nel 1827 al Prix de Rome si era visto rifiutare la cantata La morte d’Orphée perché giudicata ineseguibile. «È stato uno spettacolo eccezionale, una celebrazione come non l’ho mai vista a Parigi», scrive la Viardot dopo la prima, «Il ruolo di Orfeo è adatto a me, è come se fosse stato scritto per me». E Berlioz: «È divinamente bella. Ho già pianto più di 20 volte». Il compositore si era dunque completamente ricreduto dopo il malevolo giudizio che aveva dato vent’anni prima della sorellina della Malibran: «Mlle Pauline Garcia m’a beaucoup déplu, ce n’était pas la peine de faire de ce prétendu talent un tel tapage, c’est une diva manquée» (1). Diversi sono i recitativi e diversa l’orchestrazione (basti l’inizio del secondo atto o la danza delle furie per rendersene conto).

Coprodotto con vari teatri non solo francesi, all’Opéra Comique approda questo allestimento di Aurélien Bory, qui alla sua seconda regia lirica, che assieme a Pierre Dequivre disegna una scenografia minimalista consistente soltanto in uno specchio semiriflettente posto a 45° che, tra l’altro, riflette anche la voce e permette all’interprete di cantare con le spalle al pubblico. Vediamo quindi come un fondale il tappeto con l’Orphée ramenant Eurydice des enfers di Corot che copre il palcoscenico e che a un certo punto viene risucchiato nella tomba assieme al cadavere di Euridice. Lo specchio fa poi sembrare sospese per aria le contorsioni delle furie. Un momento molto teatrale è quando Orfeo è trasportato nell’Ade rotolando sui loro corpi o quando lo specchio ruota in avanti e diventa la porta basculante per l’aldilà o ancora quando Euridice viene inviluppata in un velo nero per la sua definitiva morte. Non mancano momenti un po’ ingenui come Amore in un cerchio acrobatico, ma nel complesso lo spettacolo è visivamente pregevole anche grazie al gioco luci di Arno Veyrat.

A capo dell’Ensemble Pygmalion Raphaël Pichon dà una sua particolare lettura della partitura eliminando la pomposa ouverture, sostituendola col Dom Juan dello stesso Gluck, e il lieto fine riprendendo il coro della morte di Euridice. Gli strumenti sono dell’epoca e manca il clavicembalo. Il tono è generalmente drammatico con le spettacolari caratteristiche foniche dell’orchestrazione in evidenza. I tempi sono giustamente contrastati ma il volume sonoro non copre mai le voci delle tre cantanti, tre interpreti a loro modo esemplari per stile, fraseggio e dizione. Marianne Crebassa è un Orfeo composto con giusti risvolti drammatici il cui vibrato aggiunge un tocco di intensità alla sua interpretazione ed è al contempo a suo agio nell’acrobatica aria che conclude il primo atto, quell’«Amour viens à mon âme» che con le sue travolgenti agilità sembra voler contraddire la riforma di semplicità e rigore intrapresa dall’autore. La Eurydice di Hélène Guilmette incanta per la grazia malinconica e la toccante umanità del personaggio, Lea Desandre è un impeccabile Amour. Negli applausi finali la soddisfazione del pubblico si manifesta anche per gli strumentisti e in particolare per la flautista del dolcissimo assolo dei campi elisi.

(1) La signorina Pauline Garcia mi ha molto deluso, non valeva la pena fare tante storie per questo presunto talento. È una diva mancata.

Orfeo ed Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 19 marzo 2019

(registrazione video)

La “bella semplicità” di Orfeo

Coprodotto col Théâtre des Champs-Élysées, Château de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company, arriva a Roma lo spettacolo di Robert Carsen del 2011. La versione originale del lavoro di Gluck va in scena in un teatro dove, parecchi decenni fa, nella parte di Orfeo si alternavano mezzosoprani en travesti – dalla Besanzoni alla Stignani alla Barbieri – mentre nell’originale viennese del 1762 la voce fu quella del castrato Gaetano Guadagni, apprezzato per il suo caldo registro centrale, dicono le cronache dell’epoca.

Qui debutta nel ruolo Carlo Vistoli, un contraltista già ampiamente affermato che ha dimostrato ancora una volta la bellezza naturale e la morbidezza del suo timbro, la chiara dizione e l’eccezionale proiezione per un registro di voce così particolare. Le doti recitative gli permettono di reggere magnificamente la scena su cui è sempre presente nei tre atti eseguiti senza intervallo, così da concentrare la tensione della vicenda. Ne esce un Orfeo sinceramente segnato dalla sofferenza, ma che non perde mai di musicalità e proprietà di stile. Di Vistoli non si sa se ammirare di più le arie, tra cui la gemma melodica del «Che farò senza Euridice» qui eseguita con un da capo ricco di eleganti variazioni, o gli intensi recitativi.

Mariangela Sicilia è sensuale, umana ed espressiva nella breve ma intensa parte di Euridice. Emőke Baráth è l’unica interprete che ha portato Amore di questa produzione – quasi un alter ego di Orfeo in quanto vestito esattamente come lui – sulle tavole di Versailles e conferma la freschezza della sua linea di canto.

Robert Carsen allestisce la vicenda in una modernità senza tempo, uno spazio scenico quello di Tobias Hoheisel depurato di ogni orpello: una distesa di terra in cui si apre la buca per la salma di Euridice, una buca attraverso la quale si accede all’altro mondo, come già avveniva nel suo Zauberflöte. Il tutto è immerso nelle luci radenti dello stesso Carsen e di Peter van Praet. Unici elementi scenici sono delle tazze contenenti una fiamma che si trasforma in acqua nella scena dei Campi Elisi. Il rapporto tra Orfeo ed Euridice qui è più fisicamente stretto in quanto essi non si ignorano, ma solo quando i loro sguardi si incrociano avviene la trasgressione del divieto con conseguente seconda morte della donna.

È un Orfeo con lieto fine questo di Gluck. Il compositore ha affidato a questa “azione teatrale” il ruolo di manifesto del rinnovamento del teatro musicale e nella concezione sia drammatica che musicale il suo è un lavoro di rottura con l’opera seria del passato e la sua artificiosità per inaugurare una nuova “bella semplicità” in cui azione e musica si fondono in un insieme che porterà al Musikdrama wagneriano. La purezza della versione originale ha un riscontro non solo nel rarefatto allestimento di Robert Carsen, ma anche nelle scelte musicali del direttore Gianluca Capuano che depura il gesto del vibrato e lo consegna a un suono secco e a frasi nette, ma il maestro, esperto del barocco, avrebbe ottenuto esiti decisamente migliori con un’orchestra più attenta ed abituata a questo repertorio. Qui il risultato è appena apprezzabile. Anche dal coro ci si poteva aspettare un’esecuzione più attenta. Impietoso il confronto con I Barocchisti diretti da Diego Fasolis al Théâtre des Champs-Élysées (in rete ci sono i dieci minuti iniziali).

Purtroppo non ha migliorato le cose la deludente registrazione video, con due telecamere fisse e una captazione del suono che privilegia troppo l’orchestra.

Orphée et Euridice

Christoph Willibald Gluck, Orphée et Euridice

★★★★☆

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Milano, Teatro alla Scala, 24 febbraio 2018

Il lutto si addice a Orfeo

Come con L’Orfeo di Monteverdi era nato un nuovo genere teatrale, così con l’Orfeo di Gluck, 150 anni dopo, quello stesso genere veniva messo in discussione e rinnovato.

L’opera cardine di questo processo è conosciuta principalmente in tre versioni differenti: Orfeo ed Euridice (Vienna 1762, in italiano e con la parte del protagonista per un contraltista castrato); Orphée et Euridice (Parigi 1774, in francese per un haute-contre); Orphée et Eurydice, con la y, (Parigi 1859). Tralasciando quest’ultima versione che Berlioz riadattò da quella francese cambiando l’orchestrazione e trasponendo la parte del protagonista per un mezzosoprano, l’allora famosa Pauline Viardot, le due versioni del tempo di Gluck differiscono in modo tale da poter parlare di due opere quasi distinte.

La versione di Parigi infatti contiene numeri musicali assenti in quella di Vienna, parecchie danze e l’“arietta” con cui si conclude il primo atto, un numero musicale quest’ultimo che è talmente diverso nello stile da tutto il resto che per molto tempo si è pensato non fosse neppure di Gluck e si era fatto il nome di Ferdinando Bertoni, il rivale che rappresentò il suo Orfeo ed Euridice nel 1776. Studi recenti confermano invece la paternità di Gluck per questo pezzo di bravura che con le sue agilità e la forma chiusa sembra voler contraddire l’assunto della riforma che Gluck voleva intraprendere con questa sua opera. Riforma che in sintesi intendeva sostituire i pezzi chiusi col da capo e i recitativi secchi con pezzi di breve durata e legati strettamente l’uno all’altro per formare strutture più ampie e dove i recitativi, sempre accompagnati, sfociano in modo naturale e conseguente nelle arie. Ma soprattutto aderenza del canto al testo, senza la libertà di “superflue” colorature.

Per la prima volta sul palcoscenico del Teatro alla Scala in questa versione francese, l’Orphée et Euridice proveniente da Londra si avvale, come là, della voce di Juan Diego Flórez, forse l’unico attualmente che possa far rivivere il virtuosismo della parte creata per Joseph Legros. La novità della parte (l’opera italiana a Parigi a quell’epoca non era ancora in auge come sarebbe stata poi in seguito) fu alle origini del successo del lavoro e proprio la sua difficoltà ha tenuto per molto tempo questa versione lontano dai teatri.

Instancabile dal primo all’ultimo momento, quasi sempre in scena – i personaggi dell’opera sono tre e Amour entra in azione solo nella terza scena ed Euridice al secondo atto – e al debutto nella parte, il tenore peruviano domina con sicurezza ed eleganza il registro acuto con un timbro luminoso, una dizione da manuale, fraseggio e legati impeccabili. Dagli strazianti lamenti iniziali – solo il nome di Euridice ripetuto tre volte riesce a uscire dalla sua bocca – alla gioia che esplode nei virtuosismi di «L’espoire renait dans mon âme» quando si appresta a varcare i confini degl’inferi per rivedere l’amata, la sua prestazione non conosce momenti di stanchezza o cali di tensione.

Lo affiancano in questa impresa Christiane Karg e Fatma Said che dimostrano entrambe temperamento e doti vocali che danno alla prima, Euridice, il tono dolente di chi vede la felicità presto tramutarsi in dolore e alla seconda, Amour, il timbro scintillante come l’oro di cui è vestita.

Nella drammaturgia di John Fulljames la vicenda rappresentata in scena sembra un sogno o una fantasia di Orphée che alla fine vede immolare alle fiamme una seconda volta il corpo dell’amata, ma questa volta ne accetta la morte. Un’interpretazione moderna e affascinante che però è ben lontana dal mito. Ma a parte questo, l’interessante allestimento scenico prevede l’orchestra sul palco dietro i cantanti su una grande pedana che si solleva o si infossa seguendo una sua logica non sempre evidente. Il problema diventa però la resa acustica: i suoni risultano schiacciati quando gli strumentisti sono lassù in alto a pochi metri dai pannelli appesi al soffitto, dispersi quando la pedana con gli orchestrali scende al di sotto del palcoscenico.

In contrasto con la concertazione apollinea ma sensibilissima di Michele Mariotti, che in «J’ai perdu mon Euridice» raggiunge un’intensità indicibile con mezzi musicali prosciugati al massimo, le coreografie di Hofesh Shechter formano un notevole contrasto. Abituato a lavorare sulla musica elettronica, i movimenti scomposti dei suoi ballerini, che saltano e hanno spasmi e convulsioni, causano in certo modo la decostruzione del classicismo che ascoltiamo, ma la lunghezza e la ripetitività dei gesti da danza tribale tendono a diluire la drammaticità che la musica, pur nella sua suprema compostezza, ha cercato di costruire. Ben diversamente emozionante fu l’Orpheus und Euridyke in tedesco di Pina Bausch all’Opéra di Parigi, il suo ultimo lavoro.

L’opera seria

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Florian Leopold Gassmann, L’opera seria

★★★★☆

Bruxelles, Cirque Royal, 16 febbraio 2016

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«Maledetta l’impresa de’ Musici Teatri!»

Il teatro alla moda di Benedetto Marcello, il pamphlet satirico che metteva criticamente alla berlina l’ambiente del teatro musicale veneziano, è del 1720, ma cinquant’anni dopo le cose non sono poi così mutate se ancora nel 1769 nella prefazione al libretto de L’opera seria l’autore si scaglia con dovizia di virgole e maiuscole contro «que’ Maestri di Cappella che senza punto badare alla Poesia, certe loro particolari inezie armoniche, da per tutto, allo sproposito, e contro senso profondano; e che al dire di Plutarco, avendo abbandonata la semplice, maestosa, e divina Musica, quella snervata, stiracchiata, e pettegola hanno introdotta: a quegl’insulsi Rimatori che spacciandosi per Poeti Drammatici, o copiando con impudenza, o imitando senza discernimento inondano di tante mostruose produzioni i nostri Teatri: a que’ Virtuosi di Canto, e di Ballo che intriganti, capricciosi, invidiosi, e qualche volta insolenti, cagionano tante inquietudini agl’Impresari; È principalmente diretta questa Commedia. Suppone l’Autore che pochissimi saranno quelli che vi si dovranno riconoscere, e per questi ne prenderanno motivo di correggersi, o almeno di astenersi».

E l’autore è quel Ranieri de’ Calzabigi che in quegli stessi anni con Gluck stava scrivendo il manifesto di quella riforma che promuoveva la “nobile semplicità” che di certo non troviamo nella divertente presa in giro di questa meta-opera. I personaggi de L’opera seria di Florian Leopold Gassmann si chiamano Fallito, Delirio, Sospiro, Ritornello, Stonatrilla, Smorfiosa, Porporina, Passagallo, Bragherona, Befana, Caverna. Bastano i nomi per farci capire le intenzioni dell’autore che mette in scena una compagnia alle prove di un’opera seria, L’Oranzebe. Dopo i due atti in casa dell’impresario, nel terzo ci si sposta infatti ad «Agra Capitale dell’Indostan» alla corte Moghul, o per lo meno alla sua ricostruzione in scena.

All’inizio dell’opera Sospiro e Delirio, il musicista e il poeta, si scambiano i complimenti: «Oh che bell’Opera! | Che bella Musica! | Che stil Drammatico! | Che stil Cromatico! | I più gran critici | tacer farà. | Venezia, e Napoli | Milano, e Genova, | sorprenderà». Ma l’idillio durerà poco e già nel secondo atto emerge la rivalità: «La Musica è diabolica. | La Poesia è perfida. | Eh, va’ impara | Maestruccio da ciechi. | Eh, torna a scuola | poetastro di piazza». Si intromette Fallito, l’impresario preoccupato per le sorti finanziarie del teatro e incomincia a criticare sia testo sia musica proponendo tagli che ovviamente indispettiscono gli autori: «Ho di fuoco nel petto un Vesuvio… | Ho di rabbia nel core un Diluvio». A mano a mano entrano in scena gli altri personaggi, primedonne e seconde donne, madri delle stesse, il primo uomo, il coreografo, tutti a punzecchiarsi l’un l’altro. La prima donna prova la sua scena tragica, il primo musico sbaglia le parole della sua aria, e tra battibecchi e rivalità si arriva finalmente all’opera seria L’Oranzebe. Cambia lo stile dei versi, qui chiaramente metastasiani e declamati in arie con trombone obbligato e gorgheggi commentati rumorosamente dal pubblico che a un certo punto interrompe l’esecuzione tra i fischi e reclama il balletto che salva infine la serata. Nella scena ultima siamo nei camerini e qui entrano in gioco le mamme delle virtuose che se ne dicono di tutti i colori mentre si viene a sapere che l’impresario è fuggito con gl’incassi. La compagnia ritrova la concordia e tutti giurano di fargliela pagare: «A questi perfidi | tiranni d’impresarj, | che sì fiero governo | fanno sempre di noi, un odio eterno». Nel frattempo cercheranno un pubblico più benevolo.

Gassmann era nato in Austria nel 1729, ma parte della sua carriera si era svolta a Venezia, dove aveva diretto il coro delle ragazze del Conservatorio degli Incurabili e dove aveva messo in musica molti libretti di Carlo Goldoni. Ritornato a Vienna divenne compositore di camera dell’imperatore Giuseppe II e maestro di cappella di corte. Nei successivi frequenti viaggi in Italia conobbe il giovane Salieri, che divenne il suo successore a corte, mentre le sue due figlie furono famose interpreti delle opere di Salieri e di Mozart.

La programmazione dell’Opera di Bruxelles continua extra muros al Cirque Royal in attesa che terminino i lavori di restauro della sala di Place de la Monnaie. Ciononostante non vengono a mancare spettacoli non convenzionali come questo, un intelligente gioco ironico e intellettuale in cui la satira di un’opera seria diventa un’opera buffa, quasi una scommessa per un pubblico non specializzato. Nella vivace ma fluida regia di Patrick Kinmonth, a cui si devono anche scenografie e costumi, l’azione si svolge su due pedane collegate da una passerella attorniata dagli strumentisti della B’Rock Orchestra rimpolpata da membri dell’orchestra de la Monnaie e diretta da un René Jacobs che conosce perfettamente l’opera avendola presentata già nel 1994 a Schwetzingen. I movimenti coreografici di Fernando Melo sono loro stessi una parodia di quelli della coreografa Anne Teresa de Kerrsmaeker, la Pina Bausch belga.

Ottima presenza scenica e buona vocalità (e se non è perfetta poco importa, tanto si tratta di una parodia) nel nutrito cast tra cui riconosciamo il nostro sempre impeccabile Pietro Spagnoli (il poeta Delirio) e poi Mario Zeffiri (il primo musico Ritornello), Markos Fink (l’impresario Fallito), Thomas Walker (il compositore Sospiro), Alex Penda (la prima donna Stonatrilla), Robin Johannsen (l’ipocondriaca seconda donna Smorfiosa), Sunhae Im (la giovane Porporina, parodia del castrato Porporino), Nikolay Borchev (il maestro di ballo Passagallo), Magnus Staveland, Stephen Wallace e Rupert Enticknap (le mamme barbute Bragherona, Befana e Caverna).

Inizialmente in ricchi costumi settecenteschi, poi ne L’Oranzebe fantasiosi abiti orientaleggianti e infine in abiti moderni: il regista vuol dirci che le cose non sono cambiate molto neanche ai giorni nostri.

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