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Gustav Mahler, Sinfonia n° 6 in la minore “Tragica”
I. Allegro energico ma non troppo
II. Scherzo. Wuchtig (pesante)
III. Andante moderato
IV. Finale. Allegro moderato. Allegro energico
Robert Treviño, direttore
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 maggio 2023
Il Mahler più tragico
«La Quinta, la Sesta e la Settima, le più critiche fra le sinfonie mahleriane, sono tutte insieme il tempo del trauma e del distacco […] Prevale l’idea del cammino e dell’itinerario, e i ritmi di marcia, che dominano l’avvio di tutte e tre le sinfonie, seppur con sembianze diversissime, qui non sono più moto corporeo né allusione descrittiva e neppure ideogramma, bensì astrazione materializzata in misura. […] Nella Sesta l’estensione è meno importante della tensione: la verticalità prevalente, i piani sovrapposti, la polifonia lavorata a sbalzo, sono tendenze costruttive percorse de uno stato d’animo tutto fretta, impazienza e febbre» scrive Quirino Principe nel suo Mahler, La musica tra Eros e Thanatos.
Composta durante le vacanze estive del 1903 e 1904, la Sesta di Mahler, come la analoga Sesta di Čajkovskij, dà espressione ai sentimenti più profondi e reconditi della disperazione ed è una rappresentazione così intensa degli abissi emotivi da essere un caso estremamente raro nella storia della musica. Alma Mahler aveva riferito in proposito che «Nessuna opera sgorga così direttamente dal suo cuore. La Sesta è la sua opera più personale e profetica». Mahler sembra infatti anticipare le prossime catastrofi personali e storiche e non sorprende che la sinfonia sia stata indicata con l’appellativo di “Tragica”. Come per quella di Čajkovskij, “Patetica”, l’appellativo che non è del compositore il quale tuttavia ammise che la sua nuova opera sarebbe stata enigmatica, «würde Rätsel aufgeben». Il fatto che l’ultimo movimento sia scritto in tono minore, caso unico nelle sinfonie di Mahler, e che manchi una chiusa trionfale, anzi che le ultime note si spengano in un tono di tragica desolazione, spiega quanto l’appellativo, seppure spurio, sia efficace e abbia resistito al tempo.
La Sesta si colloca nel mezzo delle tre sinfonie puramente strumentali e dal punto di vista formale si dimostra piuttosto tradizionale sviluppandosi nei classici quattro movimenti con quelli esterni in forma di sonata. Ad eccezione dell’Ottava, questa è la più estesa sia nella durata sia nell’orchestrazione. Oltre agli archi, due arpe e celesta, nei legni impiega ottavino, 4 flauti, 4 oboi, corno inglese, tre clarinetti, 4 fagotti e controfagotto; negli ottoni vi sono otto corni, sei trombe, 4 tromboni e basso tuba. Ma è tra le percussioni che si ha la maggiore varietà, essendo necessari sei timpani, grancassa, tamburo militare, piatti, triangolo, campanacci e campane non intonate, gong, fruste, glockenspiel e xilofono. Particolare è la presenza di un martello il cui suono fu stabilito da Mahler per essere «breve e possente, ma senza risonanza e di carattere non metallico, come la caduta di un’ascia», suono ottenuto con una grande mazza di legno che colpisce un blocco di legno anch’esso, una sorta di prefigurazione del destino in versione ben più dirompente dei colpi del “destino che bussa alla porta” della Quinta beethoveniana.
La solitudine alpina ricercata dal compositore al riparo dalle incombenze cittadine – a Vienna Mahler era direttore della Hofoper – ha qui un’evocativa presenza nei campanacci “fuori scena” nel primo e quarto movimento e poi sul palco nell’Andante, che in questa versione è il terzo movimento. Esiste infatti una seconda versione del 1906 in cui i due movimenti centrali si scambiano di posizione e i colpi di martello nel finale passano da tre a due.
Ma è la prima versione quella scelta dal direttore ospite principale Robert Treviño – mi piace usare la forma originale del suo cognome – per il ventesimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale in una esecuzione che ancora una volta mette in luce la qualità della compagine della RAI. Pur in una visione unitaria del lavoro, Trevino evidenzia efficacemente i peculiari “gesti sonori” e i diversi colori di questo lavoro. La complessità della scrittura, gli inviluppi dei temi, il tono sardonico delle marcette militari, quello lugubre delle marce funebri di cui è intessuto il primo tempo, tutto è magistralmente realizzato sotto il suo gesto ampio che non lascia nulla al caso. Gli attacchi di millimetrica precisione diventano allora il logico coronamento di un lavoro meticoloso. Ai limiti della tonalità, il cromatismo della Sesta la avvicina alla trascendente sua Nona, anche questa dal finale di cupa rassegnazione. I lunghi secondi di silenzio che sono seguiti all’ultima nota – il la pizzicato degli archi – dimostrano la tensione trasmessa al pubblico che ha salutato il direttore e l’orchestra con scroscianti applausi.
⸪