Cavalleria rusticana / Pagliacci



Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2024

★★★★☆

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È sempre bello anche tredici anni dopo lo spettacolo di Martone

Negli ultimi tempi non è stato sempre scontato vedere rappresentati assieme nella stessa serata Cav & Pag, come amano chiamare nei paesi anglosassoni l’accoppiata di Cavalleria rusticana e Pagliacci. Molte volte sono stati eseguiti singolarmente, soprattutto per ragioni di budget, altre volte in abbinate secondo criteri fantasiosi se non addirittura bizzarri. Così c’è stato il legame del tema femminista (Cavalleria con La voix humaine di Poulenc), l’ambientazione geografica (Cavalleria con La giara, il balletto su musiche di Casella) oppure per puro contrasto stilistico o cronologico (Pagliacci con L’incantesimo di Montemezzi o con Sull’essere angeli di Filidei). Questo per limitarsi ad alcuni degli esempi più recenti. Il Teatro alla Scala segue invece la tradizione, proponendo assieme i due lavori d’esordio di Mascagni e di Leoncavallo, comunemente considerati i più rappresentativi del movimento verista in musica.

Anche se solo due anni separano le due composizioni, quella di Leoncavallo (1892) ha dei caratteri di modernità più spiccati rispetto all’opera di Mascagni (1892) e il proporle assieme permette una volta di più percepire le differenze di stile e di propositi dei due lavori. Con la sua ambientazione siciliana l’opera di Mascagni veniva a interrompere una serie di composizioni intrise di cultura nordica quali l’Amleto di Faccio, Le Villi di Puccini, I Lituani di Ponchielli. Cavalleria sarà poi vista come una reazione al wagnerismo nell’Italia fascista di alcuni decenni dopo. Dalla novella del Verga del 1880 al dramma scritto dallo stesso per la Duse nel 1884 all’opera, la passionalità si accende sempre più in personaggi dai sentimenti elementari e violenti tradotti dal compositore in un linguaggio efficace che infatuerà, tra gli altri, Gustav Mahler, che la dirigerà a Budapest a soli sei mesi dalla prima al Costanzi di Roma e varie altre volte ad Amburgo e a Vienna. In Pagliacci invece, elemento di straordinaria modernità è lo scambio tra vita reale e teatro, l’ambiguità tra uomo e attore, tra finzione scenica e autenticità dei sentimenti, tematiche che confluiranno poi nel teatro di Pirandello.

Tanto è rutilante di colori la Sicilia di Dolce & Gabbana attualmente in mostra a Palazzo Reale, quanto scura e scarna è la messa in scena di Cavalleria di Mario Martone, lo spettacolo del 2011 ripreso da Federica Stefani che non è invecchiato per nulla e se allora venne contestato ora viene considerato uno dei migliori allestimenti del dittico verista. Sul palcoscenico vuoto ci sono soltanto le sedie del coro, una presenza di massa del popolo che è quasi un’eco del coro della tragedia greca. Con i visi che si voltano dall’altra parte quando c’è Santuzza, si capisce come Janáček amasse quest’opera: la sua Jenůfa trasporta in Moravia una vicenda simile e come nel lavoro di Mascagni anche lì il paese è un protagonista antagonista della figura principale. La dimensione tragica della storia è messa a nudo senza orpelli e l’ipocrisia della società è chiaramente indicata quando vediamo compare Alfio uscire dal bordello prima di andare dal barbiere. La scena diventa vuota quando Santuzza è abbandonata da tutti, anche Alfio fa segno di disprezzare la sua delazione e Mamma Lucia è troppo chiusa nel dolore per il figlio morto da darle retta.

Proprio la nudità della scena esalta la performance di Elīna Garanča, Santuzza lettone che cova sotto un comportamento controllatissimo un temperamento appassionato in cui la voce dal timbro di velluto svetta con facilità in acuti lancinanti. Una performance la sua che è stata oggetto di ovazioni da parte del pubblico. Brian Jagde è un Turiddu di grande squillo, ma si vorrebbe una maggiore espressività. Di Roman Burdenko, Alfio, non si può non confermare quanto già rilevato altrove: nell’opera italiana sconta una dizione perfettibile e una certa rozzezza espressiva che dà più fastidio in Mascagni di quanto avvenga in Leoncavallo. Francesca di Sauro è una fresca e seducente Lola mentre Elena Zilio si conferma la Mamma Lucia par excellence: la voce è quella che è, il parlato si sostituisce talora al canto, ma scenicamente è perfetta, minuta e con un gioco di mani e di sguardi che senza eccessi fanno capire tutto il dramma.

La direzione di Giampaolo Bisanti non convince del tutto, trascinante e teatrale non si conforma alla sobrietà della scena di Martone e le sottigliezze strumentali di Mascagni – sì, ci sono – si perdono: senza fare riferimento a Karajan, basta ascoltare il giovane Lorenzo Viotti nella produzione di Amsterdam come riesce ad arrivare a risultati di grande bellezza qui non toccati nonostante un’orchestra ancora più prestigiosa. Anche l’Intermezzo scorre via senza lasciare traccia. Le cose vanno leggermente meglio in Pagliacci, dove le forti tinte sono più accettabili.

Lo scenografo Sergio Tramonti, la costumista Ursula Patzak e il light designer Pasquale Mari hanno avuto più da fare nel lavoro di Leoncavallo: il viadotto che domina la scena, la lurida roulotte e le automobili richiamano un teatro più realista dove Martone fa traboccare la realtà oltre il sipario, quasi annullando la distanza tra la scena e gli spettatori: il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i Contadini, Silvio trepida in sala e il pubblico della pantomima è un’estensione sulla scena di quello della platea, con gli stessi abiti eleganti. Nella regia di Martone due soli gli errori, uno all’inizio e uno alla fine. All’inizio il sipario si apre per farci vedere la scena e poi si richiude (!) per il prologo di Tonio e alla fine la cinica battuta «La commedia è finita!» è tolta a Tonio, l’anima nera della vicenda, e data a Canio. D’accordo che è di tradizione, ma si tratta solo di compiacere il tenore, non ha senso drammaturgico, è Tonio che ha fin da subito ha dichiarato «L’autore ha cercato invece di pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispirasi».

A parte Roman Burdenko, di cui s’è detto, nella seconda parte dello spettacolo tutti nuovi sono gli interpreti. Fabio Sartori è uno specialista del ruolo di Canio a cui offre uno squillo e una proiezione sonora di tutto rispetto. Il personaggio è intriso di un rancore che scaccia la lacrima da «Vesti la giubba» e riempie di violenza il suo «Ah! … sei tu? Ben venga!» prima di ammazzare Silvio. Nedda nostalgica per una vita che avrebbe voluto diversa è quella di Irina Lungu, che sfoga la sua linea lirica nell’aria in cui invidia gli uccelli liberi che «Stridono lassù». Mattia Olivieri è il Silvio ideale per giovanile baldanza e avvenenza fisica, che non guasta e giustifica ampiamente l’infatuazione di Nedda. Che poi il suo mezzo vocale disponga di un colore e di una ricchezza di sfumature invidiabili non fa che confermare l’impressione. Con Jinxu Xiahou, simpatico Peppe, i Contadini Gabriele Valsecchi e Luigi Albani, artisti del coro, si completa il cast dei solisti. Coro come sempre in gran spolvero quello diretto da Alberto Malazzi. Grande successo di pubblico accorso a riempire ogni singolo posto del teatro.