Madama Butterfly

foto © Monika Rittershaus

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Baden-Baden, Festspielhaus, 15 aprile 2025

★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Una Butterfly deluxe è il regalo d’addio dei Berliner Philharmoniker a Baden-Baden

Kirill Petrenko dirige a Baden-Baden una Madama Butterfly rivelatrice, asciutta e modernissima, con i Berliner Philharmoniker in stato di grazia. Eleonora Buratto è una Cio-Cio-San intensa e dignitosa, Jonathan Tetelman un Pinkerton vigoroso e sprezzante. L’allestimento di Davide Livermore, ambientato nel Giappone postbellico del 1978, unisce eleganza visiva e commozione. Trionfo finale con dodici minuti di ovazioni.

Con i suoi 2500 posti il Festspielhaus di Baden-Baden, tranquilla città termale del Baden-Württemberg occidentale, è il più grande teatro d’opera della Germania – l’unico altro teatro tedesco che abbia più di duemila posti è infatti il Nationaltheater di Monaco di Baviera. Ricostruito sul sito della vecchia stazione ferroviaria, di cui utilizza l’edificio principale per la biglietteria, il guardaroba e un ristorante mentre la parte nuova si sviluppa dietro in tutta la sua modernità, ospita ogni anno a Pasqua un festival di cui fa parte una produzione teatrale che quest’anno prevede Madama Butterfly diretta da Kirill Petrenko alla guida dei suoi Berliner Philharmoniker.

Com’era prevedibile, la lettura del capolavoro pucciniano da parte del direttore russo risulta non solo magistrale, ma per certi versi illuminante e rivelatrice. La partitura è liberata fin dall’inizio di ogni presunta sdolcinatezza, di sentimentalismo, di “puccinismo”: ascoltiamo la musica moderna del XX secolo, tagliente, snella e drammaturgicamente efficacissima. Petrenko mette in luce pagine che si rivelano quasi inedite, come gli struggenti valzerini alla Rosenkavalier nella scena del principe Yamadori, sette anni prima del lavoro straussiano! o, addirittura, certi momenti che anticipano The Turn of the Screw di Britten, ossia l’inciso di «Malo, malo» all’inizio dell’interludio dopo il coro a bocca chiusa. Ma anche senza spingere troppo in là il gioco dei richiami musicali, è indubbio che la partitura della Butterfly (1904) contenga straordinari elementi di modernità svelati in una esecuzione cameristica che riserva i pochi picchi dinamici ai momenti salienti del tragico finale o dell’apparizione dello zio Bonzo o dell’untuoso sensale Goro, quando Butterfly si difende dalle sue beffe nel secondo atto.

La musica di Butterfly ha una violenza di fondo che esplode in vere e proprie eruzioni strumentali, come nella scena d’amore del secondo atto, quando l’orchestra spara un lancinante fortissimo o quando dopo i timpani sembrano insinuare col loro tragico battito il fatto che Pinkerton non tornerà più. E poi il suicidio di Cio-Cio-San anticipato dal lamento dell’oboe nel cupo preludio. Altrimenti il suono è perfettamente amalgamato e rotondo, le fioriture esotiche nei loro giri pentatonici stupendamente ricreati, così come i delicati inserti dei fiati che sembrano provenire da un unico strumento, non c’è nulla che si sfilacci e gli archi, perfettamente fusi, assumono ogni rubato nella loro linea all’unisono. Questo è l’ultimo anno dei Berliner a Baden-Baden, il dodicesimo. Dall’anno prossimo tornano al Festival di Pasqua di Salisburgo. Miglior regalo d’addio non potevano fare.

Eleonora Buratto e Jonathan Tetelman sono già stati assieme nella Tosca diretta da Harding con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia in una registrazione da poco pubblicata, ora si ritrovano per questa Butterfly e la loro interpretazione anche questa volta lascia il segno. La Buratto è passata da tempo da soprano lirico a soprano drammatico mantenendo però la purezza della linea del canto e la sensibilità interpretativa. Il suo timbro, allo stesso tempo scuro ma scintillante, la sua tessitura di ampio respiro e l’ammaliante legato ricreano musicalmente ogni sfaccettatura emotiva di questa donna coraggiosa che non perde mai la dignità e la sua imponente presenza scenica.

Il personaggio spregevole di Pinkerton è punito da Puccini drammaturgicamente, facendolo apparire molto nel primo atto, per niente nel secondo e pochissimo nel terzo, e qui nell’appena credibile aria di pentimento «Addio, fiorito asil» aggiunta solo in una versione successiva. A questo proposito, nell’attuale fase politica, la prima versione di Butterfly, dove lo scontro fra la cultura giapponese e quella americana è più netto e più forte la denuncia del colonialismo, sarebbe un modello perfetto per la critica all’America. Chissà se oggi Puccini otterrebbe il visto per entrare negli USA…

Jonathan Tetelman non fa nulla per rendere moralmente più accettabile il suo personaggio, ma utilizza il suo splendido strumento vocale e la prestanza fisica per rendere plausibile l’innamoramento della giovanissima giapponese per l’aitante yankee. Specializzatosi nel repertorio italiano, il tenore cileno-americano accetta la sfida con una prestazione esuberante, acuti abbaglianti tenuti anche più a lungo di quanto sia previsto in partitura sottolineando così la strafottenza e superficialità del personaggio.

Eccellenti gli interpreti secondari con un bravissimo Tassis Christoyannis quale Sharpless, il sempre efficace Didier Pieri come Goro, Giorgi Chelidze zio bonzo e lo Yamadori di Aksel Daveyan. Annunciata come indisposta, Teresa Iervolino ha comunque convinto lo stesso come Suzuki. Perfetto il Coro Filarmonico Ceco di Brno diretto da Petr Fiala.

Per la prima volta in un teatro tedesco, Davide Livermore ha ideato un allestimento che, anche senza abbandonare la sua cifra stilistica, risulta fondamentalmente tradizionale – c’è il Giappone, ci sono i kimono, i ciliegi in fiore… – e lineare nella narrazione. È però ambientato nel 1978, quando il figlio di Cio-Cio-San parte dall’America e arriva in Giappone per ritrovare le sue radici, la madre e la sua vicenda nel secondo dopoguerra, quando gli USA erano impegnati ad aiutare la ricostruzione del paese sconfitto. Con lui ha portato solo i disegni infantili che vediamo proiettati sugli schermi, e qui incontra la vecchia Suzuki, interpretata, come il figlio di Butterfly, da artisti di Butoh. Assieme rivedono i momenti passati come in un lungo flashback, un espediente che non interferisce in alcun modo con la fruizione della storia, ma aggiunge un elemento di commozione in più. Livermore non rinuncia certo all’apporto dei video della D-Wok con immagini di Nagasaki, di alberi in fiore, di cieli nuvolosi, del cerchio rosso del sole, delle montagne immerse nella nebbia, mentre Giò Forma crea una scenografia semplice ma efficace: una struttura che ruota o si ritrae nello sfondo, la «casa a soffietto» che nel terzo atto diventa una gabbia-prigione per la farfalla Cio-Cio-San che vediamo come in un teatro d’ombre cinesi.

Neppure i giochi di prestigio sono assenti nella regia di Livermore: uno solo, ma bellissimo e fulmineo, quando, come negli spettacoli di Brachetti, il vestito di Butterfly cambia in un istante dietro la bandiera a stelle e strisce che cade dall’alto. È il momento della svestizione per la prima notte d’amore, una scena risolta con molta eleganza dal regista che mette un alter-ego di Cio-Cio-San tra le braccia di Pinkerton, preservando così la purezza dell’amore della ex-geisha. La bandiera che nei video vediamo fluttuare stracciata nell’acqua nel finale diventa il sudario della donna suicida.

Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Fiammetta Baldiserri la messa in scena conquista il cuore del pubblico e Livermore firma uno spettacolo che si rivela tra i suoi migliori. Gli oltre dodici minuti di standing ovation al termine per i creatori della parte musicale, con il sipario che si chiude e si riapre più volte dietro l’insistenza degli applausi, dimostrano la gratitudine per questo bellissimo regalo di Pasqua.