Mese: Maggio 2025

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

144 pagine, numero sei, marzo 2025

Alcina, l’incantesimo del mondo

«Proprio nel 2025 ricorrono i dieci anni della pubblicazione nel nostro paese di un grandioso lavoro teorico-politico che ha rivoluzionato il dibattito sulla lotta sociale e sul femminismo, partendo proprio dalla caccia alle streghe. Si tratta di Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis, 2015), dell’attivista, scrittrice e accademica italiana naturalizzata americana Silvia Federici. Un testo fondamentale, nei confronti del quale la nostra rivista riconosce un debito d’ispirazione, palese fin dal nome che abbiamo scelto di darle». Così scrive Paolo Cairoli direttore della rivista uscita in concomitanza con la produzione dell’Alcina all’Opera di Roma.

È la magia infatti il soggetto del numero sei di Calibano, una magia da sempre legata all’universo femminile, come dimostrano gli articoli di Paolo Pecere, “Il mondo è ancora magico”; Giulia Paganelli, “Danzando nella foresta della notte”; Annalisa Perrotta, “D’incanto e d’oblio”; Alberto Piccinini, “Qualcosa di umano e sublime”; Davide Daolmi, “Dall’apparenza all’apparire”; Michela Garda, “Come una seduzione”; Andrea M. Alesci, “Parole magiche, magiche parole”.

Come sempre degli “speciali” affrontano l’argomento da un punto di vista più ampio e qui abbiamo i contributi di Loredana Lipperini, “Ne possiamo ancora scrivere” (opera in lettere); la testimonianza di Sofia Righetti Nottegar, “Guardare oltre”; Domitilla Pirro, “La casa spezzata” (Opera in fotogrammi); un racconto di Claudia Durastanti, “L’apparizione”; mentre Giuliano Danieli in “Se non ti basta” affronta il tema opera e magia.

Il tatuaggio della farfalla

Attilio Piovano, Il tatuaggio della farfalla

Gremese Editore, 205 pagine, 2024

È ormai appurato che quando i musicologi scrivono “per divertimento” amano immergersi negli abissi della psiche umana o nelle più efferate vicende delittuose.

È successo con Franco Pulcini, indiscusso esperto di Leoš Janáček e Dmitrij Šostakovič, con la serie Delitto a… formata ad oggi da Delitto alla Scala e Delitto al Conservatorio, in attesa forse di diventare un trittico con un delitto nel mondo del balletto… Ma anche con Laura Cosso, che dopo saggi su Berlioz e il Romanticismo francese è arrivata alla sua prima escursione nella narrativa con La vita terrena, una complessa vicenda con personaggi le cui vite si annodano in sofferti legami famigliari.

Ora è la volta di Attilio Piovano, docente di conservatorio e musicista che con Il tatuaggio della farfalla – dopo saggi su Maurice Ravel e Igor’ Stravinskij – scrive il suo sesto romanzo. Un libro che ruota attorno alle figure di Francesca e Flavia, due donne trentacinquenni la cui conflittuale relazione e i cui tormentati destini sembrano misteriosamente se non addirittura morbosamente legati. Due donne dalla complessa e contradditoria psicologia: Francesca in preda a moti d’ira, «quei tanti che da sempre punteggiavano la sua esistenza: costantemente in bilico tra momenti di euforica eccitazione (sempre più rari a dire il vero) e abissi di depressione, dominati da un dolore sordo e cupo, che talora potevano protrarsi per giorni, settimane addirittura, e parevano spingerla inesorabilmente verso il baratro»; Flavia enigmatica figura sempre con lo stesso «vestitino azzurro chiaro e a tracolla una borsa di stoffa; in testa un largo cappello di paglia un po’ fuori moda che in parte ne occultava il viso, con un nastro bleu marin. Un paio di semplici infradito in gomma intonati peraltro col colore del vestito», e un tatuaggio di farfalla sul collo…

Ambientata in due città iconiche come Venezia e Lisbona, la storia delle due artiste, la prima fotografa e la seconda decoratrice di azulejos, segue sviluppi drammatici e tormentati. La scrittura precisa e scorrevole dell’autore induce a divorare le pagine di una vicenda coinvolgente in cui anche la musica è presente: nella figura di Ravel, il compositore preferito dalle due donne; di una capricciosa pianista Lituana; e di Jean-Marie Leclair e del suo violino macchiato di sangue. Un altro dettaglio macabro che fa prevedere l’inaspettato cruento finale di questo appassionante romanzo.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Ludwig van Beethoven

Concerto n° 4 in Sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 58
Allegro moderato
Andante con moto
Rondò. Vivace

Johannes Brahms

Serenata n°1 in Re maggiore per orchestra op. 11
Allegro molto
Allegro non troppo. Trio: Poco più moto
Adagio non troppo
Menuetto I – Menuetto II
Scherzo. Allegro. Trio
Rondò. Allegro

Camerata Salzburg, Giovanni Guzzo primo violino e direzione, Alexander Lonquich pianoforte

Torino, Auditorium Agnelli, 7 maggio 2025

Sostituzione di lusso

Aimez-vous Brahms… è il titolo di un romanzo che Françoise Sagan dava alle stampe nel 1959. Qui, il giovane Simon, innamorato di Paule, divorziata 39enne, la invita a un concerto con musiche di Brahms alla Salle Pleyel di Parigi in un tentativo di seduzione andato a segno: credendo di vedere in lui una persona sensibile alla musica, Paule si arrende e accetta la passione che il giovane le offre.

Chi avesse pensato di usare lo stesso stratagemma con il  penultimo appuntamento della stagione di Lingotto Musica per far colpo su qualcuno o qualcuna sarebbe rimasto in parte deluso: a causa della indisposizione della pianista Hélène Grimaud, l’impaginato tutto brahmsiano previsto è stato modificato e invece del Concerto n° 1 in re minore del grande amburghese, il pianista “rimediato” all’ultimo momento – nientemeno che Alexander Lonquich – porta nella sala Giovanni Agnelli le note del Concerto n° 4 in Sol maggiore  di un altro grande B della musica tedesca, Ludwig van Beethoven. Una sostituzione di lusso che una combinazione di coincidenze fortuite ha messo insieme per salvare la serata con grande soddisfazione del pubblico che si è lasciato trasportare dalla eccelsa tecnica e personale interpretazione del pianista nato a Treviri ma praticamente italiano per adozione. Lonquich ritorna al Lingotto quattro anni dopo la sua ultima apparizione in una maratona che comprendeva l’integrale dei concerti beethoveniani per pianoforte e orchestra.

Dopo i primi tre, che si muovono ancora nel solco tracciato dagli ultimi concerti mozartiani, con il Concerto n° 4 in Sol maggiore, composto negli anni 1805-1806 quando lavorava alla sua Sinfonia n°5, Beethoven prende una strada nuova fin dall’inizio affidato esclusivamente al solista a precedere l’introduzione orchestrale che porterà all’affettuoso colloquio tra pianoforte e orchestra nel primo movimento. L’Allegro moderato che segue è invece sorprendentemente violento nel contrasto tra i solista e ensemble, che espongono con evidenza la lotta tra il wiederstrebende Prinzip (principio di opposizione) dell’orchestra e il bittende Prinzip (principio implorante) del pianista cara al compositore di Bonn. Brillante e non drammatico è invece il gioco tra solo e tutti nel movimento che conclude il concerto.

Lonquich si divide tra il suo strumento e la direzione di un’orchestra che forse è stata presa di contropiede e rimane un po’ all’ombra del solista che in perfetto equilibrio tra scavo introspettivo e prodigiose sonorità, tra intimismo  emotivo e sfoggio di virtuosismo espresso nella singolare abnorme cadenza del primo tempo, con fraseggio da manuale e cantabilità  sognante, offre una lettura trascinante di questo lavoro. Prima di abbandonare la sala deve cedere alle insistenze del pubblico per regalare altri due bis di grande impegno: la Novelletta op. 21 n. 2 in re maggiore di Robert Schumann e la sesta Bagatella op. 126 n. 6 in mi bemolle maggiore di Beethoven.

Pochi mesi dopo la prima esecuzione del Concerto n° 1, ad Amburgo il 28 marzo 1857  Brahms presentava la Serenata n°1 in Re maggiore op. 11 inizialmente scritto per nove strumenti (flauto, 2 clarinetti, fagotto, corno, violino, viola, violoncello, contrabbasso) e poi per grande orchestra (2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi), la versione eseguita qui dalla Camerata Salzburg nella seconda parte della serata.

Nata nel 1952 nella città austriaca, la Camerata Salzburg è un’orchestra da camera che vanta, oltre a innumerevoli concerti e collaborazioni,  l’incisione di oltre sessanta album su un ampio repertorio. Alla guida della compagine orchestrale  è il suo primo violino e maestro concertatore Giovanni Guzzo, che suona un Gagliano nel 1759. Molto più a loro agio in questo lavoro, il primo di due serenate, si ammira la perfetta coesione tra i musicisti, il suono caldo e avvolgente dei fiati, gli attacchi precisi. Rispetto al coevo impetuoso concerto, la Serenata predilige atmosfere rilassate e serene, in un periodo in cui il compositore sembrava volersi staccare dalle passioni, come espresso in una lettera di quell’anno a Clara Schumann: «Le passioni non sono connaturali all’uomo. Sono sempre eccezione o anomalia. La persona in cui esse eccedono rispetto alla giusta misura dev’essere considerata malata e deve ricevere cure mediche per preservare vita e salute. Il vero uomo ideale è tranquillo nella gioia e tranquillo nel dolore e nella sofferenza. Le passioni devono passare presto oppure bisogna reprimerle». L’esecuzione che abbiamo ascoltato dalla Camerata Salzburg, con i suoi tempi placidi, l’atmosfera pastorale del primo movimento, l’ampio respiro lirico del terzo e il baldanzoso finale sembrano riflettere appunto quelle parole.

Il nome della rosa

foto © Brescia e Amisano

Francesco Filidei, Il nome della rosa

Milano, Teatro alla Scala, 3 maggio 2025

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il medioevo di Eco diventa opera in musica

Alla Scala debutta Il nome della rosa di Francesco Filidei, monumentale opera tratta da Eco e diretta da Ingo Metzmacher. Due atti e 24 scene per un labirinto sonoro tra gregoriano e contemporaneità, più affascinante che narrativo. Michieletto firma una regia visionaria di grande impatto visivo. Cast eccellente, applausi prolungati per un raro trionfo dell’opera contemporanea.

Si discusse molto a suo tempo, parliamo del 1980, dell’inaspettato successo del primo romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa – un thriller medievale zeppo di citazioni in latino e altre lingue, discussioni filosofiche e teologiche, digressioni iper-erudite e un’ambientazione severa e claustrofobica – che aveva conquistato milioni di lettori in tutto il mondo e che sarebbe diventato un film, una serie televisiva, una graphic novel, un videogame… 

Il passaggio ora a opera lirica si deve al compositore Francesco Filidei, pisano del 1973 residente a Parigi, e allo scrittore Stefano Busellato con cui hanno collaborato Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. Si tratta di una commissione del teatro milanese in coproduzione con Genova e Parigi. Nella capitale oltralpe andrà in scena nella versione francese fra tre anni. 

“Libero adattamento” del testo di Umberto Eco, il poderoso libretto rimane comunque molto fedele all’originale con il suo multilinguismo, il carattere polifonico, le innumerevoli citazioni, i lunghi elenchi. Invece della scansione secondo le ore liturgiche della giornata del libro, qui la vicenda si svolge su una griglia temporale di sette giorni, dall’arrivo di Guglielmo di Baskerville nell’abbazia guidata da Abbone da Fossanova, per mediare l’incontro di una delegazione papale ma che si trova invece a indagare sulle misteriose morti di vari monaci, alla sua partenza dopo l’incendio della biblioteca.

Prologo. Il vecchio Adso da Melk ripensa a un episodio vissuto in gioventù quando, ancora novizio, era diventato discepolo del dotto francescano Guglielmo da Baskerville, la cui missione gli era inizialmente ignota. Siamo nel 1327, al tempo della cattività avignonese, in un contesto segnato da forti tensioni tra Ludovico di Baviera e papa Giovanni XXII. Guglielmo è stato inviato dall’imperatore a mediare un incontro con una delegazione papale, previsto nell’abbazia guidata da Abbone da Fossanova. Mentre i due sono in viaggio, in una cella dell’abbazia il giovane miniatore Adelmo da Otranto supplica invano Jorge da Burgos, vecchio monaco cieco, di assolverlo dai suoi peccati. Sul sentiero che conduce all’abbazia, Guglielmo e Adso incontrano il cellario Remigio da Varagine, che rimane sbalordito dalle capacità deduttive del frate, in grado di intuire che il cavallo dell’abate è fuggito poco prima.
Atto I. Primo giorno. Giunti all’abbazia, Adso contempla il portale della chiesa, dove Cristo in trono è circondato dai quattro animali terribili e dai ventiquattro vegliardi, come descritto nell’Apocalisse di Giovanni. All’improvviso, alle sue spalle, compare Salvatore, un monaco deforme, che esclama “Penitenziagite”, detto che insospettisce subito Guglielmo per l’uso che ne facevano i dolciniani, eretici seguaci del temibile Fra Dolcino. Abbone accoglie i due ospiti e chiede a Guglielmo di aiutarlo a risolvere il mistero della morte di Adelmo, il cui corpo è stato ritrovato in una scarpata. Guglielmo sarà libero di interrogare i monaci e di indagare in tutta l’abbazia, tranne che nella celebre biblioteca, il cui accesso è riservato al bibliotecario Malachia e al suo assistente Berengario da Arundel. Nello scriptorium, Guglielmo scorre con Berengario il catalogo della biblioteca e si sofferma su un segno a forma di “F”. Malachia mostra al frate i fantasiosi e divertenti marginalia realizzati da Adelmo, ma Jorge interviene severamente inveendo contro il riso. Ne segue una discussione tra il vecchio monaco e Guglielmo alla quale prende parte anche il traduttore Venanzio, che fa riferimento alla seconda parte della Poetica di Aristotele, dedicata alla commedia. Guglielmo comincia a sospettare che Adelmo si sia suicidato. Durante la notte, Salvatore conduce di nascosto nelle cucine una ragazza del villaggio, che si concede a Remigio in cambio di un involucro di frattaglie. Poco dopo, Venanzio entra agonizzante con un libro in mano e muore; Berengario trova il corpo e lo porta via. Secondo giorno. In chiesa Adso avverte il richiamo della statua della Vergine e si raccoglie in preghiera. Mentre i monaci intonano un inno, alcuni porcai irrompono terrorizzati: un corpo è stato rinvenuto in un orcio colmo del sangue dei maiali. È il cadavere di Venanzio. I monaci, sconvolti, iniziano a collegare le morti alle sette trombe dell’Apocalisse. Esaminando il corpo insieme all’erborista Severino, esperto di veleni, Guglielmo nota che le dita del traduttore sono macchiate di nero. In seguito, interroga Berengario sulla notte in cui Adelmo è morto e intuisce che questi gli stia nascondendo qualcosa sul loro rapporto. Guglielmo decide che con il calare della notte entrerà nella biblioteca insieme a Adso. Berengario si trova nello scriptorium intento a leggere un libro, quando sente arrivare Guglielmo e Adso: si nasconde con il volume ma perde una pergamena con delle annotazioni in greco. Prima di allontanarsi riesce a sottrarre gli occhiali di Guglielmo. Avvicinando una lanterna, Guglielmo e Adso vedono affiorare dei simboli, che si collegano alla “F” notata quella mattina: Secretum finis Africae. Entrati nella biblioteca, i due osservano che ogni stanza reca un cartiglio con versi tratti dall’Apocalisse. A un certo punto si ritrovano davanti a uno specchio deformante: è la porta del finis Africae, ma non sanno ancora come aprirla. Usciti dalla biblioteca, Abbone comunica che Berengario è scomparso. Terzo giorno. Il corpo di Berengario viene ritrovato nei balnea, dove è annegato. Esaminandolo insieme a Severino, Guglielmo nota ancora che le dita sono annerite, come la lingua: con ogni probabilità si tratta di un veleno. Severino ricorda che, tempo prima, dal suo laboratorio era scomparsa un’ampolla contenente una sostanza pericolosa. Guglielmo ritrova i suoi occhiali nel saio di Berengario. Nel frattempo, all’abbazia giunge la delegazione papale. Nelle cucine il cuciniere si scaglia contro Salvatore che, come suo solito, è intento a rubare del cibo. Fa il suo ingresso l’inquisitore Bernardo Gui, a capo della delegazione avignonese. L’abate ha appena incaricato anche lui di indagare sui delitti che sconvolgono il monastero. Adso, incuriosito dalla vicenda di Fra Dolcino, si avventura da solo nella biblioteca per cercare informazioni e finisce per avere una visione. Poco dopo incontra la ragazza del villaggio e si unisce a lei. Al risveglio, lei è scomparsa. Accanto a sé Adso trova un cuore e sviene per lo spavento.
Atto II. Quarto giorno. Adso confessa a Guglielmo di aver violato i voti di castità, ma il frate si mostra comprensivo e intuisce che la ragazza viene sfruttata da Remigio e Salvatore. Decide quindi di interrogarli. Adso sorprende Salvatore mentre prepara un incantesimo d’amore, mentre Guglielmo riesce a ottenere da Remigio la confessione di essere stato un seguace di Fra Dolcino. Salvatore e la ragazza vengono colti sul fatto mentre il monaco sta per compiere il suo rito magico. Bernardo Gui li accusa immediatamente di stregoneria. Adso teme per la vita della ragazza e si dispera. Quinto giorno. Nella sala capitolare si riuniscono le due delegazioni: da una parte i francescani legati all’imperatore, dall’altra Bernardo Gui con i delegati papali. La disputa verte sulla povertà di Cristo, fermamente sostenuta dai francescani e respinta dal papa: una questione cruciale, da cui dipende se la Chiesa abbia o meno il diritto di esercitare il potere sulle cose terrene. La discussione degenera presto in una rissa. Nella confusione, Severino si avvicina a Guglielmo e gli sussurra di aver trovato uno strano libro; poi si ritira nel suo laboratorio, dove viene raggiunto da Malachia, che lo uccide colpendolo alla testa con una sfera armillare, e fugge con il volume. Poco dopo Remigio, preoccupato che Severino possa aver scoperto alcune sue carte compromettenti, entra nel laboratorio ignaro dell’omicidio appena avvenuto, quando tutti accorrono nella stanza e lo trovano sulla scena del delitto. Durante il processo, Bernardo Gui accusa Remigio sia di eresia sia di essere l’autore di tutti gli omicidi, chiamando a testimoniare Salvatore e Malachia. Temendo la tortura, Remigio confessa ogni cosa. Per Gui condannarlo al rogo rappresenta una vittoria anche politica: in questo modo, riesce ad associare al mondo dell’eresia la delegazione francescana, e quindi l’imperatore. Sesto giorno. In chiesa, durante l’ufficio dei morti, Adso si addormenta e ha una visione, interrotta dalle grida dei monaci poiché Malachia muore all’improvviso, avvelenato dal “potere di mille scorpioni”. È evidente che l’assassino è ancora in circolazione. Abbone ha un colloquio con Guglielmo e lo accusa di avere fallito, ma il frate ha capito che la chiave delle morti sta nel furto di un libro proibito nascosto nel finis Africae. Guglielmo deve andarsene l’indomani: le legazioni hanno lasciato l’abbazia e la sua missione è terminata, ma vuole entrare in biblioteca un’ultima volta. Di fronte alla porta-specchio, grazie a un’intuizione di Adso, Guglielmo riesce finalmente a entrare. Settimo giorno. Jorge li sta attendendo, mentre dietro il muro si sentono i colpi disperati di Abbone, che muore asfissiato in un passaggio segreto che conduce alla biblioteca. È Jorge l’assassino: ha ucciso per impedire la divulgazione dell’unica copia superstite della seconda parte della Poetica di Aristotele. Non c’era alcuno schema legato alle trombe dell’Apocalisse: Jorge voleva semplicemente impedire che il grande filosofo allontanasse gli uomini dalla paura del peccato: per questo ha avvelenato le pagine del libro. In preda al delirio, il vecchio strappa le pagine del manoscritto e inizia a divorarle. Guglielmo e Adso si lanciano su di lui, Jorge getta la lanterna tra i volumi e dà fuoco alla biblioteca. Ultimo folio. Nessuno riesce a fermare l’incendio, e l’intera abbazia va in fiamme. Dopo aver lasciato quel luogo, Guglielmo e Adso si separano, e il frate dona al discepolo i suoi occhiali. Il vecchio Adso ricorda di essere tornato, anni dopo, a visitare le rovine dell’abbazia: tra le macerie scorge ciò che resta della statua della Vergine, e il pensiero corre all’unico amore terreno della sua vita, di cui non saprà mai il nome.

A parte i comuni studi di filosofia, una strana coincidenza unisce Filidei a Eco: come rivela il compositore stesso nell’intervista rilasciata a Stéphane Lelièvre su premiereloge-opera.com, il nome Filidei (figli di Dio) era dato ai trovatelli, così come quello di Eco, le cui lettere rappresentavano le iniziali dell’espressione “ex coelis oblatus” (dato dal cielo).

Filidei si è dichiarato certo che la forma operistica può rendere al meglio il complesso mondo creato da Eco e spiega così la scelta di far cantare i personaggi: «Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente antico da risultare ormai atemporale, nel quale ho fatto scivolare elementi barocchi, ottocenteschi, contemporanei».

Terzo lavoro per il teatro dopo Giordano Bruno e L’inondation – al Carlo Felice qualche anno fa a Pagliacci di Leoncavallo era stata abbinata la composizione di Filidei Sull’essere angeli per flauto e orchestra – Il nome della rosa segue una struttura molto precisa: due atti suddivisi in un prologo e 24 scene, una per ogni grado della scala cromatica, ascendente per le scene pari (do-do ♯-re-mi ♭…), discendente per quelle dispari (do-si-si♭…), il tutto simmetricamente ripetuto nel secondo atto. Le scene si alternano quindi su intervalli sempre più ampi, per poi convergere nel finale “ultimo folio” sulla nota di partenza, a formare in tal modo una struttura a specchio che graficamente ricorda sia una rosa sia un labirinto (1). Una struttura “a ventaglio” già sperimentata nel Giordano Bruno ma presente anche nel Cantico delle creature per soprano e orchestra, un lavoro di Filidei del 2023 che può essere considerato un cartone preparatorio a Il nome della rosa sia per l’argomento – il Cantico è il manifesto teologico dell’ordine francescano, impersonato nel romanzo da Guglielmo da Baskerville in contrasto con lo spietato dogmatismo dell’inquisitore domenicano Bernardo Gui – sia nella forma: anche nel Cantico, infatti, le tredici strofe sono musicate in sequenza dal fa♯ fino alla stessa nota dell’ottava inferiore, con al centro la nota do, in modo da formare l’intervallo più dissonante, il “diabolus in musica”, nella strofa di «frate focu», quel fuoco che ne Il nome della rosa brucia la biblioteca…

La partitura è imponente, 15 chili di peso ha fatto notare Ingo Metzmacher che la esegue. Direttore quanto mai avvezzo alla musica contemporanea – oltre ad aver diretto opere di Walter Braunfels, Franz Schreker, Bernd Alois Zimmermann, Dmitrji Šostakovič, Wolfgang Rihm, Olivier Messiaen, Hans Werner Henze o Harrison Birtwistle – ha scritto anche due libri, Non aver paura dei nuovi suoni e Si alza il sipario! Scoprire e vivere l’opera, che certificano la sua passione. E di passione occorre averne tanta per affrontare per la prima volta una partitura di oltre 800 pagine irta di difficoltà. Filidei aspira a ricomporre la frattura avvenuta nel secondo Novecento tra musica colta e musica popolare, tra Nono e Sanremo, come dice il compositore stesso: ecco allora l’uso di un linguaggio musicale che non preclude un livello di comprensione immediato ma che conduce a livelli di complessità crescente. La musica de Il nome della rosa si rivela spesso illustrativa, segue ogni minimo dettaglio del testo con immagini sonore che affiorano in coincidenza ad ogni parola del libretto: si parla di cavallo e si ode un nitrito; si maneggiano volumi e si sente il fruscio delle pagine; siamo nel refettorio e allora ecco il rumore di piatti e stoviglie. Il tutto è reso dagli strumenti comuni anche se talora suonati in maniera inedita, ma soprattutto da un imponente set di strumenti tradizionali e oggetti vari nelle mani di ben cinque percussionisti.

Le parti vocali fanno riferimento al melodizzare tipico del gregoriano, ma ogni personaggio ci appare diverso perché il suo canto è accompagnato da un’orchestra che raddoppia le linee vocali con strumenti sempre differenti. Ma è spesso diverso anche lo stile di canto: quello di Guglielmo è un declamato che sfocia spesso nel parlato; molto virtuosistico quello di Berengario, affidato alla tessitura di un controtenore; aereo e sensuale quello della Ragazza del villaggio; quasi da basso buffo quello di Abbone da Fossanova; unico nel suo genere quello di Salvatore. Un coro esprime i pensieri di Adso da vecchio e un coro misto con voci bianche le citazioni in latino. Il risultato è quello di un’opera-oratorio solenne ma in cui manca la tensione narrativa, nonostante la vicenda sia da thriller. Le situazioni rimangono in uno stato di abbozzo, la frammentazione delle scene e le continue digressioni non consentono un coinvolgimento emotivo del pubblico che per di più è provato da un libretto di eccessiva lunghezza, nonostante i tagli ai personaggi e alle situazioni dell’originale – ma là si trattava di un libro e quello che funziona in romanzo di 500 pagine, dove i tempi di fruizione sono decisi dal lettore, non è detto che funzioni in uno spettacolo di tre ore. Rimane la piacevolezza di certi momenti, come il finale primo con il rapinoso duetto carnale, la divertente e falstaffiana disputa teologica che degenera in rissa o la varietà degli stili di canto – i densi recitativi, le linee melodiche ora sinuose ora severe del gregoriano, i madrigalismi, le audaci colorature – affidato a un cast di eccellenze dove sono inserite anche voci femminili: non solo quella di Katrina Galka, sensuale Ragazza del villaggio e statua della Vergine dagli eterei vocalizzi, o del novizio Adso, la cui giovinezza è interpretata come sempre con intelligenza da Kate Lindsey, ma anche dall’Inquisitore Bernardo Guy, una sorprendente e irriconoscibile Daniela Barcellona. E c’è pure il personaggio di Ubertino da Casale con la voce di Cecilia Bernini.


Lucas Meachem dà autorità vocale e presenza scenica a Guglielmo da Baskerville, Gianluca Buratto è parimenti convincente come l’invasato Jorge da Burgos, Roberto Frontali un eccezionale Salvatore, il bravissimo Giorgio Berrugi è Remigio da Varagine, Fabrizio Beggi l’austero abate. Due le voci di controtenori: Owen Willetts, il bibliotecario Malachia, assassino a sua volta assassinato, e Carlo Vistoli in due parti brevi ma impegnative, soprattutto quella di Berengario di Arundel prima e poi di Adelmo da Otranto, precisissimo ed efficace in entrambe. Anche Leonardo Cortellazzi interpreta due personaggi (Venanzio e Alborea), così come Adrien Mathonat (Un cuciniere e Girolamo Vescovo di Caffa). Per compleatre il lungo elenco rimangono da citare Paolo Antognetti (Severino da Sant’Emmerano), Flavio d’Ambra (Michele da Cesena), Ramtin Ghazavi (Cardinale Bertrando) e Alessandro Senes (Jean d’Anneaux), questi ultimi tre artisti del coro del teatro. I coro sterminato sostiene con onore buona parte della parte vocale sotto la guida sapiente di Alberto Malazzi, Giorgio Martano e Bruno Casoni.

Questo progetto scaligero ha messo insieme le energie di molti artisti: compositore, librettisti e regista, qui Damiano Michieletto con il suo magic team formato dallo scenografo (ma nel suo caso è termine molto riduttivo) Paolo Fantin, che inventa un mondo visivo di enorme suggestione; la costumista Carla Teti che magari non con gli abiti dei monaci ma con quelli dei personaggi fantastici dimostra la sua genialità; le luci sempre efficaci di Fabio Barettin. Con la drammaturgia di Mattia Palma e le coreografie di Erika Rombaldoni si completa l’insieme degli artefici di una messa in scena che vede una sequenza di prodigi visivi: il labirinto di veli bianchi sospesi e luci al neon con al centro una croce che prenderà fuoco nel finale; l’abbazia stessa con le pareti nere e il coro sistemato in alto a darle voce; un poderoso bassorilievo groviglio di corpi che si frantuma e da cui escono uomini nudi mentre il coro scandisce l’Apocalisse di Giovanni con la resurrezione della carne; il capolettera miniato con un caprone che suona il violino che si anima; bestiari che prendono vita materializzandosi sulla scena; scorpioni che strisciano su una parete di luce. Michieletto si immerge nello spirito medievale con fantasia e perfezione tecnica, ma c’è un particolare che colpisce: il coro sulla balconata in alto è visibile solo per le teste dei coristi sul fondo nero, ma le pagine degli spartiti quando vengono girate formano delle ondate di bianco che seguono l’ordine di entrata delle voci. Un effetto molto suggestivo che sembra anche suggerire la lettura de Il nome della rosa di Filidei: questa è un’opera-oratorio, la drammaturgia è quella che è, lasciamoci catturare dalle immagini. Come avveniva nei codici miniati medievali.

Alla fine, gli oltre dieci minuti di applausi confermano l’interesse del pubblico per questa operazione così fortemente voluta dalla Scala che ha fatto un eccezionale lavoro di comunicazione, tale da rendere un evento di nicchia come il debutto di un’opera contemporanea uno spettacolo imperdibile, tanto da esaurire fin dall’inizio tutti i posti disponibili. Chi l’avrebbe detto che nella patria di Verdi e Puccini un’opera di oggi potesse avere tanto successo?

(1) Questo lo schema fornito dal compositore: