Danza

Rocchetta Grand Jeté

Denilson Almeida

tutte le foto © Graham Spicer

Rocchetta Tanaro, Tenuta dei Marchesi Incisa della Rocchetta, 15 luglio 2025

Stelle sotto le stelle

Metti una sera d’estate sotto le stelle nel Monferrato per un programma di danza di altissimo livello organizzato non da un ente pubblico, ma da un privato. Ebbene sì, è quanto succede tra le colline astigiane: nato da un gesto di solidarietà nel corso della pandemia di Covid del 2021 quando le Cantine dei Marchesi Incisa lanciarono il progetto “A Bottle for the Arts” in collaborazione con la principale istituzione di danza del Regno Unito, il “Rocchetta Grand Jeté”, grazie all’impegno della padrona di casa Francesca Massone Incisa, è arrivato quest’anno alla sua seconda edizione.

Charlotte Tonkinson e Aiden O’Brien

Sul palco allestito nel cortile ottocentesco delle cantine si sono esibiti i danzatori del teatro che recentemente ha cambiato nome e da “Royal Opera House” è diventato “Royal Ballet and Opera”, una chiara indicazione dell’importanza della danza nella programmazione del glorioso Covent Garden londinese. Caso unico tra i teatri d’opera più importanti al mondo quello di scalzare al secondo posto nel nome il genere lirico!

Ha introdotto le due parti dello spettacolo il violino di Sergey Levitin, concert master dell’orchestra del teatro, che si è esibito in due numeri di grande difficoltà tecnica: la Paganiniana di Nathan Milstein, tributo del violinista russo naturalizzato statunitense al genio di Paganini, e poi un Allegro dalle Sonate di Johann Sebastian Bach. Ancora su un tema di Paganini è la musica di Sergej Rachmaninov della coreografia di Frederick Aston Rhapsody, balletto del 1980 dedicato agli ottant’anni della Regina Madre d’Inghilterra, un pezzo romantico che dà la possibilità ai due danzatori Daichi Ikaraschi e Sae Maeda di sfoggiare la loro eccelsa tecnica in passi di danza iperclassica.

Caspar Lench

Il programma ha alternato momenti di scuola tradizionale ad altri di danza contemporanea, come il secondo pezzo, Infra, una coreografia di Wayne McGregor del 2008 su musica di Max Richter (piano, elettronica e quintetto d’archi) ispirata a The Waste Land di T.S.Eliot. Un pas de deux drammatico in cui si evidenziano le qualità espressive di Charlotte Tonkinson e Martin Diaz. Sul Requiem di Fauré Kenneth MacMillan ha ideato un momento affidato all’assolo di Meaghan Grace Hinkis mentre un altro pas de deux tra i più popolari è quello tratto da La bella addormentata di Marius Petipa sulla sempre trascinante musica di Čajkovskij danzata con grande tecnica ed eleganza dai giovani Julia Roscoe e Aiden O’Brien. Tutt’altra atmosfera per Takademe di Robert Battle sul pattern ritmico di Sheila Chandra con i movimenti secchi e precisi di Caspar Lench. Conclude la prima parte della serata il pas de deux dal Grand Pas Classique su musica di Auber coreografato da Victor Gsovsky nel 1949, una sfida tecnica felicemente superata qui dalla coppia di danzatori Martin Diaz e Olivia Findlay.

Julia Roscoe e Aiden O’Brien

Altro grande momento classico è quello de Le corsaire di Petipa su musiche di Adam in cui dimostrano la loro esuberante vitalità e sfida alle leggi della gravità Meaghan Grace Hinkis e Denilson Almeida. Christopher Wheeldon è invece l’autore del pezzo seguente, Within the Golden Hour su musica di Antonio Vivaldi arrangiata da Ezio Bosso, balletto creato nel 2008 per il San Francisco Ballet e qui interpretato da Charlotte Tonkinson e Aiden O’Brien. Un tono ironico e gioioso è quello che ritroviamo in Elite Syncopations: Calliope Rag, The Alaskan Rag creato da Kenneth MacMillan nel 1974 su musiche di Scott Joplin, pezzo che dà la possibilità ai tre danzatori Olivia Findlay, Julia Roscoe e Caspar Lench nei loro coloratissimi costumi di esprimere un irresistibile lato umoristico molto apprezzato dal pubblico.

Olivia Findlay e Caspar Lench

In una serata antologica come questa non poteva mancare Coppelia di Delibes nella coreografia originale di Arthur Saint Lèon del 1870, un bel contrasto stilistico gestito qui con impeccabile aplomb da Daichi Ikaraschi e Sae Maeda. Ancora un brusco cambiamento di atmosfera per Czardas, l’ultimo pezzo in programma, l’entusiasmante assolo di Steven McRae su musiche di Vittorio Monti con la magnetica presenza del suo autore e principal dancer. Un assolo di tip-tap che anche nel 2023 aveva fatto scalpore.

Nell’elenco dei danzatori manca il nome previsto di Giacomo Rovero, il piacentino solista del Royal Ballet, che per un infortunio non ha potuto danzare e allora si è assunto il compito di direttore artistico e ha seguito dalla platea la performance dei colleghi molto applaudita da un pubblico entusiasta.

Steven McRae

Deep River

Alonzo King Lines Ballet, Deep River

Torino, Fonderie Limone, 26 ottobre 2024

Corpi di scena

Chiusura col botto quella di TorinoDanza che alle Fonderie Limone presenta l’attesa performance di Alonzo King e del suo Lines Ballet. Deep River, concepito durante il lockdown in luoghi insoliti, è ora ricreato sul palcoscenico di un teatro: durante i primi due anni della pandemia gli artisti hanno lavorato in bolle confinate – nei loro studi, al Golden Gate Park, in una fattoria, nel deserto di Wickenburg in Arizona e in vari altri luoghi – per continuare a costruire nonostante l’isolamento.

Quella di Alonzo King è una danza che spinge oltre il concepibile il rigorosissimo linguaggio classico nutrendolo dell’incontro di altre culture e spiritualità: l’Africa, l’ebraismo, l’induismo, gli spiritual americani. Dal 1982, anno della formazione della Lines Ballet Company, King ha elaborato un linguaggio binario, dove la purezza neoclassica incontra e sposa con accostamenti vertiginosi la fluidità sanguigna della danza afroamericana. Ne emerge uno stile visionario, fatto per ballerini contemporanei, virtuosi, ma con una qualità drammatica di fondo.

Sulle musiche di Jason Moran, Lisa Fischer, Pharoah Sanders, Maurice Ravel, James Weldon Johnson e la voce Lisa Fischer, la coreografia di Alonzo King invita il pubblico a considerare la bellezza fisica e la maestosità dell’umanità come l’apice della creazione: «L’amore è l’oceano da cui siamo sorti, in cui nuotiamo e a cui un giorno torneremo» L’amore, se profondamente coltivato, può liberarci. Deep River è un invito a rimanere fondamentalmente positivi, indipendentemente dalle circostanze, a far sbocciare il loto nel fango e a guardarsi l’un l’altro come una famiglia di anime.

La fluidità dei movimenti, l’eleganza che occulta gli sforzi acrobatici dei ballerini e la bellezza dei corpi hanno un effetto ipnotizzante sugli spettatori che alla fine prorompono in entusiastici applausi. Nella multietnica compagnia c’è anche una ballerina torinese, Ilaria Guerra, molto festeggiata. Nell’incontro con King prima dello spettacolo si è apprezzata la profondità filosofica del suo pensiero. Ora il coreografo si sposta a Orsolina28 per una residenza in vista di una nuova creazione. Di certo le colline del Monferrato saranno l’ambiente ideale per stimolarne la fantasia.

Cecità

Cecità

Ideazione di Virgilio Sieni

Torino, Teatro Astra, 7 novembre 2023

L’epidemia

La rassegna TorinoDanza si è da poco conclusa con uno spettacolo in cui mancava la danza che la stagione del TPE (Torino Piemonte Europa) si inaugura con uno spettacolo teatrale in cui manca, o quasi, la parola. Si tratta di Cecità, un’ideazione di Virgilio Sieni che ne cura anche la coreografia, lo spazio e le luci.

L’artista fiorentino sembra ritornare periodicamente al bianco: La città bianca (2003), Atlante del bianco (2010) sono i titoli di passati lavori del coreografo che come ballerino si è perfezionato ad Amsterdam, in Giappone e a New York, dove ha frequentato Merce Cunningham mentre nel 1991 in Italia ha fondato la “Compagnia Virgilio Sieni” e nel 2007 l'”Accademia sull’arte del gesto” incentrata sulla sperimentazione del movimento e aperta a persone di tutte le età. Il bianco infatti domina anche in questo suo ultimo suo spettacolo, presentato in prima assoluta al Teatro Astra e ispirato al romanzo omonimo del 1995 di José Saramago dove i personaggi perdono all’improvviso la vista in seguito a un’epidemia sconosciuta. Alla fine tutti riacquistano la vista senza alcuna ragione apparente, esattamente come all’inizio l’avevano persa. Il libro di Saramago nell’originale si intitola Ensaio sobre e Cegueira (Saggio sulla cecità) e fa parte di un dittico completato da Ensaio sobre a Lucidez (Saggio sulla lucidità) del 2004.

Sieni ritiene ben poco delle vicende sviluppate nelle oltre trecento pagine del testo originale, lo spettacolo è costruito sostanzialmente sull’atmosfera di cecità lattiginosa suggerita dal romanzo in cui vagano i suoi personaggi. Nella prima parte un sipario traslucido divide il palcoscenico dagli spettatori e su questo si proiettano le sfocate ombre di corpi umani. Nitidamente percepibili sono soltanto le mani dei performer quando sfiorano il telo, o le sagome di oggetti – una vecchia radio a transistor, un paio di forbici, un trolley conteso da due persone. La colonna sonora fatta di rumori e fruscii di Fabrizio Cammarata accompagna le luci di abbagliante aurora boreale che rendono frenetici i movimenti dei corpi.

Dopo questa prima parte in cui non succede quasi nulla, il sipario si alza e vediamo un paesaggio desolato tra i cui rifiuti si scoprono dei corpi rannicchiati per terra. Lo spazio è delimitato da tre teli bianchi da sotto i quali spuntano strisciando altri corpi che si avvinghiano, si respingono, prendono coscienza della presenza gli uni degli altri col tatto, coi suoni, con mozziconi di frasi sussurrate. Solo raramente le figure umane si alzano e camminano, la condizione ferina in cui sembrano essersi ridotti li induce a trascinarsi sul terreno, indossare una maschera di animale. Manca una via di fuga. Una enigmatica figura di Pierrot bianco che brandisce una lunga asta con un microfono alla sommità aggiunge nuovi rumori a quelli già presenti. Le immagini si susseguono, si accumulano, ma senza una particolare tensione drammaturgica e la complessità del testo di Saramago appena si intuisce nella realizzazione dello spettacolo che si rivela così ambizioso nelle intenzioni ma non del tutto convincente nei risultati, che comunque sono stati applauditi dal pubblico.

Dopo Torino lo spettacolo si potrà vedere a Prato, Perugia, Bari, Napoli, Rovereto, Genova fino ad approdare a Pesaro il 18 aprile 2024.

Kamuyot

Ohad Naharin, Kamuyot

Moncalvo, Orsolina28, 3 giugno 2023

Quando la danza diventa un’esperienza condivisa

A Orsolina28 sono ritornati Ohad Naharin e i suoi danzatori. L’anno scorso avevano presentato 2019, quest’anno era previsto il loro storico Deca Dance ma le avverse condizioni meteorologiche ne hanno impedito la messa in scena nel grande teatro all’aperto. Nessun problema: la efficientissima organizzazione di Orsolina28 attua il suo piano B e al riparo dagli scrosci d’acqua, all’interno di quel magico spazio immerso tra i ciliegi che è The Eye, il folto pubblico, scaglionato in due tranche, può assistere a Kamuyot (Quantità) spettacolo creato nel 2003 e passato anche a Torino danza nel 2019. La performance di poco meno di un’ora viene ripetuta poi per l’altra metà di spettatori entusiasti. Chi volesse può ritornare stasera domenica 4 maggio e con lo stesso biglietto vedere il previsto Deca Dance, Giove Pluvio permettendo.

Concepito per spazi non teatrali, Kamuyot è una performance che si nutre della vicinanza con il pubblico, rompe le tradizionali barriere e fa di danzatori e spettatori un solo respiro, un’esperienza condivisa, una colorata festa della danza attraverso tutti gli stili musicali. Al centro dello spettacolo c’è un semplice invito: ballare. Un’esperienza che con la sua energia esuberante e profondità emotiva permette al pubblico di “essere con” la danza e non solo di guardarla.

I venti danzatori sono mescolati tra gli spettatori seduti in prima fila di un ellisse che si chiude su uno spazio che non ha l’artificio dell’illuminazione teatrale. Le luci sono a giorno, non ci sono scenografie. A turno – singoli, a gruppi o tutti insieme – i danzatori lasciano il loro posto e su una colonna sonora eclettica che spazia dall’elettronica al rock giapponese al reggae esprimono con il loro corpo un’energia fisica travolgente. I momenti coordinati si alternano ad “assoli” che sembrano improvvisati, ma che sono invece il frutto di uno studio meticoloso pur nella libertà del linguaggio Gaga ideato da Naharin.

Un momento di particolare emozione è quello in cui i giovani danzatori prendono la mano di uno spettatore e c’è un intenso scambio di sguardi. Ma il coinvolgimento del pubblico si fa ancora più diretto: prima timido, poi più disinvolto, gli spettatori partecipano con entusiasmo all’invito dei danzatori a ballare tutti quanti insieme. È toccato anche a me. Ora posso dire di aver danzato con i Batsheva…

2019

foto @ Ascaf

Ohad Naharin, 2019

Moncalvo, Orsolina28, 19 giugno 2022

Uno spettacolo che tocca la mente e il cuore

Orsolina28 è un’incredibile realtà del Monferrato, una valle eco-culturale frutto miracoloso dell’intraprendenza privata. Tra la provincia di Asti e di Alessandria e non distante da Vignale, sede di uno storico festival estivo dalle alterne fortune, si è creato uno spazio che sfugge a ogni definizione data la varietà e ambizione degli intenti che stanno alla base della sua ideazione, intenti che hanno al centro di tutto la danza.

In collaborazione col Teatro Stabile di Torino e il Festival TorinoDanza, la Batscheva Dance Company di Ohad Naharin inaugura The EYE, un inedito spazio architettonico di Orsolina28 progettato in collaborazione col coreografo stesso: una capsula architettonica ermetica che però si può aprire sul verde dei campi di ciliegi, una forma ellittica con una gestione molto versatile degli spazi interni che per questa creazione coreografica ospitano una specie di passerella per le sfilate di moda con il pubblico ai due lati lunghi. La vicinanza degli spettatori con i danzatori è portata all’estremo quando nel finale questi si sdraiano, avviluppati in una coperta, sulle ginocchia degli spettatori in una comunanza fisica che trasmette una grandissima emozione, emozione che si era esaltata fin dall’inizio di una coreografia che fa della fisicità dei corpi il suo motivo d’essere.

2019 (il titolo si riferisce all’anno in cui è nato lo spettacolo) è l’ultimo lavoro del coreografo israeliano Ohad Naharin nato in un kibbutz e che soltanto all’età di 22 anni ha iniziato a danzare con la Batscheva Dance Company per poi andare negli Stati Uniti su invito di Martha Graham ed essere accettato alla Julliard School e all’American Ballet. Dopo una breve esperienza con Béjart, Naharin è tornato in Israele come direttore artistico della Batscheva dove ha sviluppato il suo personale linguaggio del movimento (Gaga): una pratica che resiste alla codificazione e che enfatizza l’esperienza somatica del praticante facendogli esprimere i propri istinti animali. Gaga si presenta come un linguaggio di movimento piuttosto che come una “tecnica” di movimento, con l’insegnante che guida i danzatori attraverso una pratica di improvvisazione basata su una serie di immagini descritte dall’insegnante stesso. In linea con l’insistenza di Gaga sul muoversi attraverso la percezione e l’immaginazione, gli specchi sono assenti nella sala prove affinché i ballerini sentano il movimento dall’interno.

I diciotto danzatori di 2019 iniziano a piedi nudi e utilizzano una totale libertà di movimenti che esprimono le loro differenti personalità. Le coinvolgenti musiche includono melodie ebraiche, arabe, libanesi, iraniane, tutto un repertorio mediorientale con testi lasciati nelle lingue originali, per una volta non in conflitto su quella striscia di palco su cui i giovani danzatori si muovono in frenetici zig zag o marciano lentamente, si sfuggono o si abbracciano, definendo spazi pieni o vuoti. Poi, quando indossano degli stivaletti dalle alte zeppe e dai tacchi a spillo stratosferici i movimenti diventano più spigolosi, quasi minacciosi con quelle temibili armi ai piedi… Naharin non costruisce una narrazione, lascia che sia lo spettatore a lasciarsi coinvolgere da quello che vede, non ultimo dagli sguardi intensi di quegli esseri umani a pochi metri di distanza, sguardi non di sfida ma di profonda empatia. Un’emozione fortissima che si stempera nelle ovazioni finali e nella standing ovation di un pubblico grato e totalmente soggiogato.

The Goldberg Variations / Schwanengesang

Anne Teresa de Keersmaeker, The Goldberg Variations

Moncalieri, Fonderie Limone, 28 ottobre 2021

Romeo Castellucci, Schwanengesang

Torino, Teatro Astra, 31 ottobre 2021

Due donne sole in scena

La musica di Bach e quella di Schubert sono lo spunto per due spettacoli a pochi giorni di distanza a Torino. In entrambi un pianista a lato del palcoscenico sul quale una donna sola si esprime col corpo oppure con la voce.

Sulle Variazioni Goldberg BWV 988 di Johann Sebastian Bach si fonda l’intervento danzato di Anne Teresa de Keersmaeker in prima nazionale e a conclusione della rassegna TorinoDanza di quest’anno al Teatro Fonderie Limone. La scena è vuota e nera: oltre al pianoforte è presente in un angolo una specie di masso dorato mentre a destra in alto uno schermo di carta argentata stropicciata diffrange le luci di Minna Tiikkainen. Il folto cast del suo precedente approccio bachiano, i Concerti brandeburghesi del 2015, qui è ridotto ad un assolo della coreografa/danzatrice, che contrappunta con i suoi movimenti le note dell’aria e trenta variazioni eseguite con tecnica inappuntabile e grande espressività dal giovane pianista russo Pavel Kolesnikov. Talora i suoi slanci e saltelli seguono le volate degli abbellimenti, talora la Keersmaeker sottolinea con il ripiegamento del corpo i momenti di dialogo interiore delle pagine musicali. È lo stesso gioco di ripetizioni e variazioni che sta alla base della musica di Bach: un’esplorazione su una sempre mutevole forma. Fedele al suo vocabolario espressivo, la non più giovane danzatrice sembra voler affermare che per fare danza non occorre avere un corpo giovane e atletico, né fare passi acrobatici per esprimersi, ma la sua performance è pervasa da una certa aria di mestizia e dopo un po’ la monotonia dei movimenti porta a indugiare lo sguardo sulle  mani del pianista. Non essendo un esperto di danza rimando a chi meglio di me ha scritto sullo spettacolo.

Al teatro Astra invece il Festival delle Colline Torinesi continua la sua ricca programmazione con un regista che da sempre ha fatto della sua presenza una costante della rassegna mentre per quanto riguarda il teatro musicale Romeo Castellucci non trova in patria quel riconoscimento che le sue regie di opere liriche ottengono all’estero. Questo lavoro, che aveva presentato alla Triennale di Milano nel 2019, si chiama Schwanengesang (Il canto del cigno), ma non si tratta dell’omonima raccolta di 14 lieder scritti da Franz Schubert nell’ultimo anno di vita e pubblicata postuma con il numero di opus D957 e il titolo scelto arbitrariamente dall’editore. Uno solo appartiene a quella raccolta, Ständschen (Serenata), mentre gli altri pezzi musicali utilizzati spaziano da Die Mainacht (D194, Notte di maggio) del 1815 a Wegenlied (D867, Ninnananna) del 1826 mentre il quarto è proprio Schwanengesang (D744) del 1823. In tutto 11 lieder che formano una progressione drammatica di forte intensità. Inizialmente la cantante, Kerstin Avemo, si comporta come la classica interprete di Lieder: al centro della scena, illuminata da uno spot e nel suo tailleur anni ’40 come lo stile della sua acconciatura, accenna con un sorriso l’attacco al pianista, Alain Franco, e porge i suoi Lieder quasi come “canzoni”, l’aria un po’ svagata, i gesti di maniera. Ma poi gli intervalli di silenzio tra un pezzo e l’altro si allungano, l’esecuzione si carica di tensione e l’espressione emotiva della donna diventa sempre più drammatica. I mutamenti sono inizialmente minimi e impercettibili, ma il loro effetto successivamente si traduce in un totale cambiamento della disposizione della cantante: da esecutrice asettica a persona intimamente scossa dal racconto di solitudine e abbandono a cui dà corpo. La donna esce dal cono di luce, scoppia a piangere, va verso il fondo della scena, si volta e l’ultimo Lied che canta è quasi inudibile, la voce rotta dall’emozione e la figura scompare nel fondale nero. Alla fine anche la musica tace, il pianista se ne va, la donna farfuglia qualche frase sconnessa in tedesco, invece della traduzione dei testi sul fondo vengono proiettate frasi quali «Via, assassini…» e ancora «Cosa volete? Andate a farvi fottere con la vostra voglia di guardare!». Ma esiste la possibilità di sottrarsi allo sguardo dell’altro uscendo di scena? Come fare ad abbandonare il palco dopo aver proclamato la propria crisi? Fragorosi lampi di luce rompono l’oscurità mentre la donna si rannicchia per terra nascondendosi nel telo nero che copriva il palcoscenico per sfuggire allo sguardo di noi spettatori. Lo sguardo non è mai innocente, già ce l’aveva insegnato il mito di Orfeo e Euridice. Castellucci ne sottolinea il potere e ci fa in un certo senso sentire in colpa.

 ⸪

Transverse Orientation

Dimitris Papaioannou, Transverse Orientation

Moncalieri, Fonderie Limone, 23 settembre 2021

Cercare la luce per trovare la strada

Nella lunghissima tournée internazionale con cui Dimitris Papaioannou presenta la sua ultima creazione non poteva mancare la tappa di TorinoDanza. Transverse Orientation è forse lo spettacolo più atteso della rassegna.

Per il titolo non ci aiuta il suo creatore: «Il titolo dei miei pezzi li sceglie sempre un mio amico geniale, Angelo Mendis, e mi fido di lui», aveva risposto alla domanda di Sergio Trombetta in una sua intervista su “La Stampa” del 31 agosto scorso. Più illuminante la definizione di wikipedia: «orientamento trasversale:  mantenere un angolo fisso su una fonte di luce lontana per l’orientamento», come fanno alcuni insetti quali le falene.

E la fonte di luce che per tutto lo spettacolo sarà lì col suo sfarfallio a incantarci è un tubo fluorescente in alto su una parete bianca in cui si apre anche una porta. In scena le immagini a cui l’artista greco ci ha abituato, che richiamano un’iconografia sterminata – dalle pitture micenee ai preraffaelliti a Picasso – o sono talmente evocative che nella mente di ognuno di noi spettatori sorgono inediti rimandi, come a un certo momento i letti di contenzione dipinti da Carol Rama, che probabilmente Papaioannou neanche conosce…

Su una rarefatta colonna sonora di musiche di Vivaldi, in scena sei ragazzi e una ragazza dipingono coi propri magnifici corpi le fasi della vita, dalla nascita (un neonato immerso in un liquido biancastro che cola a terra), alla morte, qui incarnata da un toro nero a grandezza reale, in cui però prevale l’aspetto sensuale (dalla figura nuda sul dorso del “Ratto di Europa” al torero nudo che offre da bere alla bestia), passando per la fatica di Sisifo del vivere (i massi spostati da un punto all’altro) e l’invecchiamento (il corpo non più giovane di una donna che attraversa nuda tutta la scena lentamente e su tacchi altissimi).

Spettacolo di grande suggestione, ma forse di faticosa gestazione: il lungo tempo della chiusura dei teatri sembra averne in qualche modo svigorito l’invenzione e qui è sembrato che mancasse la magia e la sorpresa che ci avevano così colpiti nella precedente trilogia (Primal Matter, Still Life, The Great Tamer) o nell’intimo INK visto al Teatro Carignano un anno fa.

Triptych


Gabriela Carrizo e Franck Chartier, Triptych

Compagnia Peeping Tom

Moncalieri, Teatro Fonderie Limone, 12 settembre 2021

Affondare in un oceano di lacrime

Come in un trittico di Francis Bacon, lo spettacolo della compagnia belga Peeping Tom ci mostra interni dove i sentimenti forti sono di casa, anche le violenze. Unione e riadattamento di tre distinti spettacoli creati nel tempo – The Missing Door (2013), The Lost Room (2015), The Hidden Floor (2017) – lo spettacolo è ora in scena per TorinoDanza.

In The missing door dimensioni parallele intrecciano fantasia e realtà. Su una nave in mare, siamo testimoni degli ultimi minuti di vita di un uomo che cerca ansiosamente di trovare una via attraverso l’intricato labirinto dei suoi pensieri. Mentre paesaggi sonori di rumori quotidiani si trasformano in ritmi perduti, l’uomo compie una battaglia solitaria con il tempo, lo spazio e coloro che sono assenti. The lost room racconta diverse storie simultaneamente dove i personaggi sembrano esistere in ogni tempo e in ogni luogo e i ricordi non sono una riproduzione letterale del passato, ma si basano su processi costruttivi soggetti a errori e distorsioni. L‘acqua è protagonista nel terzo episodio, The Hidden Floor: generata dalle lacrime nella seconda parte, ora invade la scena di un transatlantico che affonda inesorabilmente nell’oceano con i  suoi occupanti che cercano inutilmente di sopravvivere.

I cambi scena a vista sono parte integrante di uno spettacolo che sfida la razionalità affidandosi alla dimensione onirica con le sue surrealistiche azioni non prive di ironia. I corpi degli otto performer sono manichini snodati e le loro acrobatiche movenze sfidano le leggi della fisica e dell’anatomia richiamando quelle dei fumetti o delle graphic novel. L’ipnotica colonna sonora va da Bach agli scricchiolii della nave che affonda, pochissime le parole pronunciate: la drammaturgia si affida alle bellissime immagini di uno spettacolo che suscita il caldo applauso di una sala esaurita in tutti i posti ammessi dal distanziamento ancora assurdamente in vigore nei teatri italiani.

 

For Rent/À louer


Gabriela Carrizo e Franck Chartier, For Rent/À louer

Compagnia Peeping Tom

Torino, Teatro Astra, 15 luglio 2012

Il guardone belga

Un affascinante viaggio attraverso pensieri, ricordi, visioni del futuro, sogni e incubi è quello proposto dalla compagnia belga Peeping Tom.

Il nome della compagnia è ispirato al personaggio della leggenda di Lady Godiva, in cui il giovane Tom la guardò e rimase talmente impressionato da diventare cieco, guardone punito e costretto a vivere tutta l’esistenza nel ricordo del suo attimo più bello e al contempo più tragico. Peeping Tom è anche un film cult del 1960 di Michael Powell su un serial killer che cattura l’ultimo sguardo delle sue vittime su pellicola prima di ucciderle.

For Rent/À louer affronta il tema della transitorietà: una diva dell’opera di talento ma in declino si aggira in un interno opprimente e lotta con le aspettative di un ambiente borghese. Niente è certo o permanente (compreso l’arredamento), tranne le sue stesse paure ricorrenti. Suoni spaventosi sottolineano l’insignificanza dei personaggi. «Nello spettacolo non c’è un tempo lineare, ma piuttosto un focus su quel momento di noia in cui i nostri pensieri improvvisamente scappano e si rifugiano in un mondo parallelo. È questo filo che attraversa tutta la realtà. È un universo di ricordi, di intenzioni future, di paure, sogni o incubi, costantemente viziato dalla realtà. È anche una passeggiata sul bordo di un precipizio, la danza di un funambolo su questo filo rosso tra la sensazione di possedere qualcosa e di perderla immediatamente, la sensazione di equilibrio prima di cadere nel vuoto. Tutto è effimero perché tutto può essere portato via da un giorno all’altro: un appartamento, i nostri oggetti personali, un lavoro, una persona o addirittura una vita. Tutto è in affitto».

È un teatro performativo il loro dove i gesti, i movimenti acrobatici, la colonna sonora, le azioni oniriche e la scenografia tra iperrealismo e surrealismo  (quel pavimento a scacchiera…) sembrano poter fare a meno della parola per raccontare con intensità e una drammaturgia personalissima che non non ha riscontri nel teatro europeo di oggi.

Boys don’t cry

Hervé Koubi e Fayçal Hamlat, Boys don’t cry

Venaria, Teatro Concordia, 8 luglio 2021

Danzare la libertà

Boys don’t cry trasmette il messaggio della libertà di essere sé stessi e la gioia della danza. Sette ragazzi dalla pelle ambrata e a torso nudo esprimono la costruzione della propria identità in una società chiusa e maschilista. Ci dicono cosa vuol dire scegliere di diventare ballerino invece che giocatore di football e vincere le tensioni che questa scelta può causare con la famiglia. E quanto costa affrancarsi dalla oppressiva mascolinità dei paesi dell’Africa del Nord da cui provengono, dove la differenza di genere pesa come un macigno sui destini individuali.

Con i movimenti acrobatici della danza hip hop, di quella moderna e del ballo di strada eseguiti con virtuosa fluidità, la coreografia di Hervé Koubi e del suo compagno Fayçal Hamlat – uno ebreo, l’altro mussulmano; uno detesta il calcio, l’altro lo adora… – è costruita su un testo di Chantal Thomas e si avvale delle musiche di Stéphane Fromentin. Su uno sfondo immacolato di teli bianchi e in pantaloni bianchi, a turno i giovani danzatori prendono la parola a un microfono – anch’esso bianco – per raccontare dei rapporti con i genitori, del bullismo subito, dei talora dolorosi tentativi di emancipazione.

Ipnotizzandolo con la bellezza dei loro corpi in movimento, dal palco trascinano il pubblico con la loro energia sfrenata e condividono con orgoglio il loro amore per la danza, rompendo stereotipi e pregiudizi in uno sfogo disinibito e potente di rivolta e di piacere.