Prosa

Riccardo III

foto © Gianluca Pantaleo

William Shakespeare, Riccardo III

regia di Antonio Latella

Firenze, Teatro della Pergola, 4 dicembre 2025

Il bianco che acceca: il Riccardo III di Latella e la seduzione del male

Antonio Latella rilegge Riccardo III vestendo di bianco il male e privando il protagonista della storica deformità, scelta che però indebolisce il fascino tragico del personaggio. Forte la scenografia simbolica e l’idea del Custode onnipresente. Meno riuscito l’uso dei microfoni. Marchioni domina un cast diseguale in uno spettacolo suggestivo ma teoricamente sbilanciato.

È il bianco il colore del male? A giudicare dal nuovo Riccardo III di Antonio Latella, parrebbe di sì. Il regista ribalta l’immaginario cromatico e trasforma uno dei personaggi più spietati della cultura occidentale in una figura vestita di un candore accecante: un bianco che non assolve, ma smaschera; non purifica, ma corrode. Bianche sono le rose della casa di York, dunque bianchi i fiori del giardino in cui Latella ambienta la vertiginosa scalata del monarca sanguinario: un giardino non di delizie, ma di nequizie. Qui il male germoglia nella bellezza, non nella bruttezza: Dostoevskij direbbe che la bellezza salva il mondo; Latella gli risponde che può anche rovinarlo.

A esplicitare la chiave di lettura è lo stesso interprete protagonista, Vinicio Marchioni: «In genere si è portati a pensare che il male stia soltanto nella deformità e nella bruttezza. […] Da sempre nella storia dell’umanità c’è stata la necessità di trovare un capro espiatorio e nel caso del Riccardo III il personaggio si adatta perfettamente a questa esigenza rassicurante. […] Il vero problema, però, è quando il male diventa affascinante e narcisistico, quando riesce a convincere gli altri di non esserlo ed esprime tutta la sua potenza ammaliatrice». Parole che chiariscono l’intenzione del regista: cancellare l’ombra della deformità fisica e consegnarci un Riccardo tutt’altro che repellente, anzi seducente, attraente. È qui, però, che l’operazione inciampa.

Privato della sua storica storpiatura, Riccardo perde quel paradossale magnetismo che Shakespeare gli ha cucito addosso: l’abilità di ammaliare nonostante l’aspetto ripugnante. Il fascino disturbante di figure come lo straordinario Ian McKellen nella celebre versione teatrale e poi cinematografica diretta da Richard Loncraine nasceva proprio dal conflitto fra repulsione e carisma, fra deformità e lucidissima intelligenza. Latella rinuncia a questo cardine drammaturgico, e con esso rinuncia a una parte essenziale dell’impianto tragico: il personaggio, così, rischia di non irradiarsi più nelle sue contraddizioni, e le premesse teoriche — per quanto interessanti — rimangono sulla carta, senza trasformarsi in necessità scenica. Lo spettacolo parte lentamente, poi il ritmo aumenta, ma la costruzione del protagonista resta sbilanciata: elegante, sì, ma depotenziata.

La scenografia di Annelisa Zaccheria è dominata da un tronco d’albero cavo, varco attraverso il quale Riccardo fa il suo primo ingresso. È l’utero maledetto da cui la madre Elisabetta rimpiange di aver generato un tale figlio; è la porta d’accesso a un mondo naturalistico eppure innaturale, dove al cinguettio degli uccelli si intreccia il sibilo del serpente, e con essi l’ombra del cinghiale e del rospo — animali da sempre legati all’immaginario del personaggio. Sul fondo, teli traslucidi separano l’aldilà dal regno dei vivi, evocando un oltremondo pronto a inghiottire chi cade vittima della sua ambizione. Ai lati del palcoscenico, gli attori attendono in vista la loro entrata, nei costumi settecenteschi di Simona D’Amico: una scelta suggestiva, ma che indulge a un eccesso didascalico quando veste di rosso Richmond, come a precisare a ogni costo la sua appartenenza alla casata della rosa rossa.

In questo impianto visivo volutamente statico, scolpito dalle luci implacabili di Simone de Angelis, a emergere è la parola shakespeariana, restituita nella sciolta traduzione di Federico Bellini. Il testo diventa la materia incandescente dello spettacolo: i monologhi, a cominciare da quello celeberrimo in cui Riccardo enuncia il suo “scontento”, funzionano come confessioni a cuore aperto di un uomo che parla direttamente allo spettatore. Mentre i duetti sono spesso un corpo a corpo emotivo: sconvolgente la scena con Anna, a cui Riccardo ha appena ucciso il marito ma che riesce comunque a sedurre; lacerante il confronto con la madre, dove il rancore familiare diventa destino.

Dove Latella convince di più è nella figura del Custode della Torre: un personaggio potenziato, trasformato in assistente onnipresente del protagonista. È lui a predisporre materialmente gli orrori, a segnare verbalmente («Muori!») il momento del trapasso delle vittime, fino a diventare il fulcro del colpo di scena finale. Una scelta felice, che conferisce compattezza all’intelaiatura narrativa e offre al pubblico un angelo (o demone) della morte sempre in agguato. Peccato che il giovane interprete, pur convincente, abbia una dizione talvolta impastata.

A complicare ulteriormente il quadro c’è poi l’uso dei microfoni, che appiattisce le timbriche e rende le voci quasi indistinguibili — un problema non secondario in una tragedia che vive di parola, ritmo e vocalità. Accanto alla presenza magnetica di Vinicio Marchioni, che alterna scatti d’ira a un’insinuante cortesia, si muove un cast numeroso e diseguale: Silvia Ajelli, Anna Coppola, Flavio Capuzzo Dolcetta, Sebastian Luque Herrera, Luca Ingravalle, Giulia Mazzarino, Candida Nieri, Stefano Patti, Annibale Pavone e Andrea Sorrentino offrono una prova complessivamente solida ma con momenti alterni, per intensità e tenuta drammatica.

Lo spettacolo, coprodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria e dal LAC Lugano Arte Cultura, dopo lo Strehler di Milano approda ora a Firenze. Da qui proseguirà un fitto percorso che lo porterà già questo mese al Carignano di Torino, poi al Duse di Bologna, al Piccinni di Bari e al Mercadante di Napoli.

L’uomo, la bestia e la virtù

foto © Pino le Pera

Luigi Pirandello, L’uomo, la bestia e la virtù

regia di Roberto Valerio

Torino, Teatro Gobetti, 27 novembre 2025

Pirandello tra farsa, incubo e verità

Prodotto da Teatri di Pistoia–Centro di Produzione Teatrale in collaborazione con il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, L’uomo, la bestia e la virtù approda al Teatro Gobetti, dove resterà in scena fino a domenica 7 dicembre 2025, portando con sé tutta la sua miscela di ironia corrosiva e inquietudine pirandelliana. L’allestimento di Roberto Valerio ne esalta il lato grottesco e onirico, trasformando la farsa pirandelliana in un incubo brillante tra maschere, istinti e apparenze che crollano restituendo tutta l’ambiguità e la complessità del testo, sospeso tra comicità e turbamento.

Quando debuttò nel 1919, il pubblico rimase spiazzato: cos’era, esattamente, quel testo? Una farsa? Un incubo? Un esperimento grottesco? Forse tutto insieme. Pirandello si diverte – e ci sorprende ancora – con uno dei suoi lavori più anomali, un’opera che mescola comicità e perturbazione, leggerezza e crudeltà, lasciandoci sospesi tra sogno e realtà. Al centro, un triangolo amoroso che più spinoso non si può: un marito assente e brutale, una moglie virtuosa ma abbandonata, e l’amante di lei, un professore di reputazione immacolata. Da questo intreccio scaturisce un gioco di specchi che mette a nudo desideri, convenzioni soffocanti e quell’irriducibile ambiguità che anima – e tormenta – l’essere umano.

La storia è nota, ma sempre sorprendente. Il capitano Perella – la Bestia, almeno in apparenza – naviga più tra città e amanti che tra doveri domestici. Sua moglie, la Virtù incarnata, resta a casa a rimuginare solitudine e decoro. Accanto a lei, l’Uomo: Paolino, professore irreprensibile e precettore del figlio dei Perella, che però con la signora intreccia una relazione clandestina. A complicare tutto, una gravidanza che rischia di far saltare il castello delle apparenze.

La soluzione escogitata da Paolino è una delle invenzioni più improbabili – e irresistibilmente comiche – del teatro pirandelliano: somministrare al capitano un afrodisiaco micidiale con l’aiuto del medico e del farmacista, così da indurlo, nell’unica notte che trascorre a casa, a “consumare” il matrimonio e salvare così l’onore di tutti. Da questo espediente nasce una spirale tragicomica che finisce per rimettere in discussione ogni etichetta: Paolino è davvero l’Uomo? Perella davvero la Bestia? E la signora Perella così ineccepibilmente Virtuosa? Pirandello costruisce tutto sul paradosso: i personaggi indossano maschere così rigide da soffocare passioni e volontà; il perbenismo diventa una corazza che si crepa al primo urto; la “bestialità” non è dove ci si aspetterebbe.

L’allestimento di Roberto Valerio amplifica questa tensione, spingendo il testo verso un ritmo scattante, un registro farsesco e un’atmosfera costantemente ambigua. I personaggi si muovono come creature in bilico tra umano e animale, secondo un’indicazione che affonda le radici nella poetica pirandelliana: il comportamento civile si sgretola, l’istinto guadagna terreno e il pudore svanisce come un ricordo lontano.

L’impianto scenico ha una venatura sinistra, quasi allucinata. L’ingresso dei personaggi è accompagnato da un tappeto sonoro inquietante firmato da Anselmo Luisi, in equilibrio tra thriller e surreale; le luci fredde e stranianti di Emiliano Pona accentuano il disagio; i cambi scena, frenetici e affidati agli stessi interpreti con maschere anonime e perturbanti, si svolgono su una musica stridente che taglia lo spazio.

Tra gli elementi più affascinanti emergono le scene oniriche: vere pause visive in cui affiorano le maschere pirandelliane, simboli viventi delle verità sommerse dei personaggi. Queste apparizioni trasformano il palcoscenico in uno spazio mentale, una sorta di camera della coscienza dove prendono corpo pensieri, paure e sensi di colpa. Una soluzione scenica raffinata e profondamente teatrale, che dona allo spettacolo un’aura quasi metafisica.

In questo contesto si muovono gli interpreti: Max Malatesta accompagna Paolino in un crescendo di goffaggine animalesca; Vanessa Gravina scolpisce pose plastiche che rendono la signora Perella fragile e combattiva; Nicola Rignanese, nei panni del capitano, dosa grugniti, furie e inaspettata lucidità finale, costruendo una Bestia insieme grottesca e autentica. Accanto a loro, Beatrice Fedi, Massimo Grigò, Franca Penone, Lorenzo Prestipino e Mario Valiani compongono un coro scenico solido e partecipe, fondamentale nel disegnare un mondo che oscilla tra farsa, sogno e ferinità.

Quello di Valerio è un allestimento che abbraccia l’ambiguità pirandelliana, la amplifica e la rilancia attraverso un’estetica visionaria e cinematografica, fissando il dramma in un presente assoluto, teso e incombente. Una lettura che illumina, con ironia e inquietudine, la vertigine eterna tra apparenza e verità.

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Dracula

foto © Andrea Macchia

Dracula

testo di Fabrizio Sinisi dal romanzo di Bram Stoker

regia di Andrea de Rosa

Torino, Teatro Astra, 18 novembre 2025

Dracula: l’eternità che fa male

Dopo “Buchi neri”, “Cecità”, “Fantasmi”, il nuovo triennio del TPE, ancora con la direzione di Andrea de Rosa, si intitola “Persone” e nei prossimi tre anni verrà declinato come “Mostri”, “Guerra”, “Amore”. Quest’anno inizia appunto con “Mostri” e lo spettacolo di Andrea De Rosa trasforma il Teatro Astra in una cattedrale gotica immersiva. Federica Rosellini offre un vampiro simbolico e dolente, intrappolato in un’immortalità senza pace. La drammaturgia di Fabrizio Sinisi unisce lirismo e orrore in un’esperienza sensoriale totale, tra luci, suoni e visioni che riflettono le nostre paure più profonde.

Il TPE inaugura la stagione 2025/26 con un colpo di teatro che è anche un colpo al cuore: Dracula, una nuova produzione firmata dal regista Andrea De Rosa e dal drammaturgo Fabrizio Sinisi, liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker. Ma “liberamente” è dir poco: qui il mito del vampiro si scolla dalle sue tradizioni gotiche più consumate per trasformarsi in un’indagine lancinante sul desiderio d’immortalità, sulla carne che non muore e, proprio per questo, condanna chi la abita a un’esistenza interminabile e insopportabile. Dracula non è più solo il conte maledetto: è una forma di dolore che insiste, che torna, che non si estingue.

Entrare nel Teatro Astra equivale a oltrepassare la soglia del castello del Conte. De Rosa ha infatti trasformato lo spazio scenico – anzi, l’intero edificio – in una sorta di cattedrale spettrale. Il pubblico affronta un corridoio stretto, quasi un tunnel iniziatico, prima di spalancare una porta ed essere inghiottito da una sala alta, scura, vertiginosa. Le luci rasentano il nulla, i suoni – ferrigni, taglienti – arrivano da ogni lato come un assedio acustico: sopra, sotto, dietro, da punti impossibili da localizzare. È esattamente da questa perdita di orientamento che nasce il primo, potente effetto dello spettacolo: lo spaesamento. Un turbamento che non viene smorzato ma, al contrario, intensificato per tutto il corso della messinscena.

L’ombra di Nosferatu si allunga sulle finestre altissime; rumori sinistri scendono dal graticcio; parole disincarnate affiorano nel buio prima di aderire come ectoplasmi ai corpi in scena. Al centro dello spazio, tre tavoli autoptici, come in un obitorio fuori dal tempo. Su quello centrale, il corpo lattiginoso di una giovane donna; sopra di lei, sospeso a tubi traslucidi che somigliano a vene giganti, pulsa un enorme cuore. È in questo ambiente viscerale e rituale che fa la sua comparsa il Dracula di Federica Rosellini, interpretazione magnetica che tiene insieme ferocia e struggimento, inquietudine e pietà. Il suo vampiro non è un mostro che terrorizza, ma un essere che, non potendo morire, è condannato alla più radicale delle solitudini: quella di chi ama troppo per poter semplicemente svanire.

Sinisi, nella sua drammaturgia, abbraccia un ritmo quasi poetico: meno dialoghi, più monologhi che sanno di canto e di meditazione, flussi verbali che trascinano lo spettatore dal lirismo all’orrore fino a una sorta di vertiginosa lucidità finale. Dracula diventa una lunga lettera interiore, un ragionamento per immagini e sangue, un tentativo disperato di decifrare cosa significhi esistere ai margini della morte senza potervi precipitare del tutto.

Federica Rosellini compie un gesto quasi sacrale: restituisce il personaggio alla sua dimensione simbolica, trascendendo ogni riferimento di genere. Il suo Dracula è un’entità ferita che ha disimparato l’umanità, che non riconosce più i confini morali, affettivi, persino temporali dell’essere umano. Vive in una “luccicanza dannata”, sempre troppo tardi per amare, troppo tardi per redimersi, troppo tardi per rinunciare al desiderio che lo distrugge. In questo senso, il tema dell’immortalità si allarga a una riflessione universale: quante volte, anche noi, capiamo il senso di un amore, di un rapporto, di un gesto, quando l’orchestra ha già smesso di suonare? Dracula diventa un ammonimento: l’eternità è una condanna quando si ama fuori tempo massimo.

Nello spettacolo affiora anche un’altra chiave interpretativa: l’immortalità come risposta violenta alla paura di morire. E il Male – quello umano, quello storico, quello che attraversa guerre, massacri, violenze – emerge come figlio diretto di questa fame di permanenza, come se per sopravvivere fosse necessario sacrificare qualcun altro. Il mostro è dunque specchio dell’uomo: non fa male perché brutto, ma perché terribile. La bruttezza è innocua; la terribilità è devastazione pura.

Dracula, d’altronde, resta una figura unica nella letteratura mondiale: un personaggio che cerca la grazia attraverso la propria dannazione, che tenta – paradossalmente – una sorta di salvezza tramite il crimine commesso in nome dell’amore. La scelta di affidare il ruolo a un’interprete femminile non è un vezzo ma un’intuizione che restituisce al mito una universalità più ampia: il Male e il Mostro abitano chiunque, non hanno sesso, non hanno volto stabile.

Nella parte finale, lo spettacolo cambia tono: l’incontro tra Dracula e Mina, che lui crede la reincarnazione della moglie uccisa secoli prima, porta la regia verso un registro più diretto, quasi cinematografico. Le luci si aprono, il ritmo accelera, il sangue – fino a quel momento solo evocato – ora scorre esplicitamente, tingendo la scena. È un cambiamento spiazzante ma coerente: dopo l’incantamento iniziale, ecco il risveglio brutale della realtà.

Anche il Teatro Astra, spogliato delle sue sedute e riconfigurato in altezza e ampiezza, diventa una creatura viva: lo spazio si dilata per contenere un’esperienza totale, un viaggio nel cuore del gotico e della sua eredità più inquietante. Il tema della stagione è “Mostri” e questo Dracula non solo rispetta il titolo, ma lo incarna in ogni fibra.

Sinisi e De Rosa lavorano con determinazione sulla materia narrativa originaria, riaccendendo il fascino esotico e oscuro del romanzo di Stoker: leggende antiche, guerre sanguinarie, epidemie medievali, atrocità sospese nel tempo, tutto filtrato attraverso una scrittura che alterna lirismo e crudeltà, visioni e anatomie. Dracula non è mai semplice da affrontare: ogni epoca rilegge il vampiro secondo la propria ossessione, e questa produzione lo trasforma nell’archetipo di un’umanità che ha perso l’orientamento, che ha paura di finire e allo stesso tempo teme di restare troppo a lungo.

Accanto alla Rosellini e alla intensa Chiara Ferrara, meritano una menzione anche Michelangelo Dalisi, Marco Divsic e Michele Eburnea, che contribuiscono a creare un microcosmo emotivo disturbante e perfettamente calibrato. Di altissimo livello il lavoro sonoro di G.U.P. Alcaro, un paesaggio acustico che pare respirare, ringhiare, quasi vivere; e straordinaria la cura luministica di Pasquale Mari, che scolpisce le ombre come materiali fisici.

Nelle sue note di regia, De Rosa sintetizza la filosofia del progetto: Dracula è la storia di un uomo che non riesce a morire. Ed è anche la storia di un pubblico che accetta di guardare dentro questo desiderio impossibile. Il castello del vampiro diventa teatro d’apparizioni, spazio dove tempo e sogno si deformano, un altare spettrale in cui si celebra un rito antico e modernissimo. Tutto lo spettacolo, soprattutto nella sua prima parte, evoca con eleganza il cinema espressionista tedesco, il Nosferatu di Murnau, e il barocco visionario del film di Coppola del 1992. Poi, quando il mito si avvicina ai nostri nervi scoperti, la scena si fa più realistica: il sangue invade, la metafora si scioglie, resta la carne.

Ne esce un Dracula che non rassicura, non chiude, non consola. È uno spettacolo che inquieta, seduce, fa pensare, lascia dentro una vibrazione che continua a pulsare ben oltre la fine.

Da vedere assolutamente: al Teatro Astra fino al 30 novembre. Un viaggio dentro il buio che non si dimentica facilmente.

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Solness

foto © Luigi de Palma

da Henrik Ibsen, Il costruttore Solness

Regia di Kriszta Székely

Torino, Teatro Carignano, 27 maggio 2025

Ascesa e rovina di un costruttore d’anime

Bygmester Solness (Il maestro costruttore Solness, 1892) è uno dei lavori più significativi di Henrik Ibsen, con evidenti elementi autobiografici: la relazione tra il maturo Halvard Solness e la giovane Hilda Wangel riprendeva quella tra il drammaturgo norvegese e la diciottenne Emilie Bardach conosciuta durante una vacanza. Nel personaggio di Solness, poi, Ibsen fa un parallelo con la sua situazione di “maestro drammaturgo” e le conseguenze sulla sua vita. Il finale tragico della vicenda è invece tratto dalla storia dell’architetto della chiesa di San Michele, a Monaco, che si era gettato dalla torre appena terminata. Ibsen prese questa storia come prova che un uomo non possa raggiungere il successo senza pagarne un prezzo.

Halvard Solness, costruttore di mezza età, è diventato un architetto affermato. Ha uno studio dove lavorano l’ex architetto Knut Brovik, suo figlio Ragnar, di cui Solness ostacola le ambizioni, e Kaia, la sua assistente. Solness ha un matrimonio difficile con Aline, segnato dalla perdita dei figli. Un giorno riceve la visita di Hilda Wangel, una giovane che sostiene di averlo conosciuto dieci anni prima, quando lui le fece promesse romantiche. Solness la accoglie in casa. Hilda lo sprona a superare la sua paura delle altezze: durante l’inaugurazione di una torre, Solness cade e muore. Hilda lo acclama come suo “Maestro Costruttore”.

La regista ungherese Kriszta Székely ritorna ancora una volta a Ibsen di cui aveva messo in scena Casa di bambola Hedda Gabler. L’adattamento di Ármin Szabó-Székely fa del Solness una vicenda immersa nella contemporaneità, dove si dibattono temi quali lo scontro generazionale, il maschilismo e la misoginia, la nostalgia per il passato, il venir meno della forza fisica nell’inesorabile scorrere degli anni e il desiderio di una nuova occasione di felicità. Il tutto inserito nella riflessione sul rapporto fra creazione artistica e vita reale.

Con le scene di Botond Devich entriamo in un ambiente minimale: una piattaforma isola gli attori che entrano dai lati dopo aver cambiato costume a vista. Un tavolo con sedie per lo studio dell’archistar a sinistra, un grande modello illuminato di una villa in stile moderno a destra. Le luci di Pasquale Mari e i costumi di Ildi Tihanyi connotano l’essenzialità della ricostruzione contemporanea. Tutto è affidato alla recitazione, strabordante ma efficacissima quella di Valerio Binasco che delinea un arrogante e antipatico Halvard Solness di cui scopriamo poco per volta le debolezze, le paure, i risentimenti; Mariangela Granelli è la dolente moglie torturata dai rimorsi e prigioniera di un passato segnato dal dolore; Alice Fazzi è la giovane Hilde Wange che spunta dal nulla dopo dieci anni a riscuotere quanto promessole quando aveva quattordici anni; Marcello Spinetta è il giovane Ragnar Brovik incapace di emanciparsi cercando una sua strada per affermarsi nella professione; Lisa Lendaro la devota Kaja Fosli innamorata del suo datore di lavoro; Simone Luglio è il dottor Herdal, psicanalista – Sigmund Freud stava sviluppando le sue teorie dell’inconscio ai tempi della scrittura del testo.

Invenzione della regista è l’aver fatto diventare una donna Knut Brovik, il vecchio architetto alla cui ombra si è formato Solness e ora alle sue dipendenze, un’occasione per ammirare l’esperienza recitativa di Laura Curino. In questa rete di relazioni centrate sul protagonista e messe a nudo dalla regista che sottolinea la loro natura irrisolta con un linguaggio teso e intensi silenzi, sono tutti eccellenti, ma è nella relazione tra Solness e Hilda che gli interpreti fanno scintille e bisogna ammettere che la giovane attrice riesce a tenere magnificamente testa alla performance mattatoriale del maturo Binasco.

La restituzione alla nostra contemporaneità del testo di Ibsen ha il risultato di catturare il pubblico che risponde con copiosi applausi. Lo spettacolo, che chiude la stagione del Teatro Stabile di Torino, rimane in scena fino all’8 giugno.

La cerimonia del massaggio

Alan Bennett, La cerimonia del massaggio

regia di Roberto Piana e Angelo Curci

Torino, Teatro Gobetti, 18 maggio 2028

Un allegro funerale

The laying on of Hands è il titolo originale di questo breve romanzo del 2002 di Alan Bennett. Clive, di cui si svolge la cerimonia funebre, ha avuto per le mani, letteralmente, i VIP ambosessi di Londra, che ora si trovano assieme in chiesa per commemorare il caro estinto in una cerimonia tragicomica celebrata da padre Geoffrey Jolliffe.

Il compianto stallone è stato massaggiatore e “consolatore” anche di padre Geoffrey che ora deve gestire i suoi sentimenti davanti agli interventi dei presenti al rito funebre, soprattutto il sospetto che l’uomo sia morto per una malattia che si trasmette sessualmente… Fortunatamente, la testimonianza di un medico presente fuga ogni dubbio: Clive è morto in Sud America in seguito alla puntura di un insidioso insetto tropicale e il trasferimento al cimitero può così procedere più serenamente.

Come Il vizio dell’arte visto al Teatro dell’Elfo Puccini di Milano, La cerimonia del massaggio, che però non nasce per la scena, esalta al massimo l’umorismo tagliente e caustico di questo attore, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore nato a Leeds nel ’34 che fin dal suo primo lavoro del ’68, Forty years, ha fustigato senza pietà ma con tono lieve la società inglese con le sue contraddizioni, specie nelle rappresentazioni offerte dall’alta borghesia e dagli emarginati, oggetto abituale di uno sguardo capace di rendere i paradossi dell’esistenza urbana con raffinata e salace ironia, grazie a una scrittura asciutta ma ravvivata da improvvisi sketches o parodie.

Con la morte di Jonathan Miller nel 2019, Bennett, ora 91enne, è l’unico sopravvissuto del quartetto di Beyond the Fringe, una pièce scritta assieme a Peter Cook e Dudley Moore che aveva debuttato al Festival di Edimburgo nel 1960 trasferendosi poi con grande successo nel West End di Londra e a Broadway.

Dopo l’On/Off Theatre di Roma arriva a Torino per la stagione dello Stabile questa produzione di Roberto Piana e Angelo Curci con la semplice ma efficace scenografia di Francesco Fassone, un pulpito rotante che serve anche da guardaroba e confessionale, e poi tante candele attorno al ritratto di “mani d’oro”, il compianto massaggiatore. Gianluca Ferrato gestisce con abilità, grazie anche alla drammaturgia di Tobia Rossi, il mix di sacro e profano, il compromesso tra corpo e spirito del sacerdote che ha avuto anche lui rapporti intimi col fustone. Gli accorti tempi teatrali e la nonchalance della recitazione raggiungono momenti di una irresistibile comicità molto apprezzata dal pubblico che alla fine risponde con copiosi applausi alla intelligente performance dell’attore.

Re Chicchinella

Re Chicchinella

Testo, regia e costumi di Emma Dante

Torino, Teatro Carignano, 8 aprile 2025

La gallina del re: fiaba nera alla corte di Emma Dante

Il giorno dopo la triste notizia della scomparsa di Roberto de Simone – che della immaginifica lingua napoletana de Lo cunto de li cunte aveva fatto una preziosa traduzione in italiano, per non parlare del suo indimenticabile spettacolo La gatta Cenerentola tratto dalla stessa raccolta – Emma Dante con Re Chicchinella al Teatro Carignano per la stagione dello Stabile di Torino, completa la trilogia sulle fiabe barocche di Giambattista Basile.

Come con La scortecata e Pupo di zucchero, il lavoro della regista non è una semplice trasposizione scenica e drammaturgica del testo letterario, ma diventa fonte di ispirazione e di rielaborazione attraverso il profondo filtro della sua poetica. La fiaba grottesca e crudele è quella del libro quinto di questo “trattenemiento de le peccerille”, come definisce Basile il suo Pentamerone: ne “La papara” «Lilla e Lolla accattano na papara a lo mercato che le cacava denare», ma una comare gliela chiedo in prestito e poi la getta dalla finestra, ma quella «s’attacca allo tafanario di un principe mentre faceva de lo cuorpo» e nessuno riesce a staccarla di là se non Lolla, e per questo il principe se la sposa.

Nella elaborazione della Dante il principe diventa nientemeno che il Re di Napoli che commette l’insolito errore di utilizzare una gallina, apparentemente morta, per pulirsi le terga dopo le bisogna. La gallina, tutt’altro che defunta, risale le interiora del sovrano e vi si stabilisce dentro, divorando tutto quello che il re mangia, e portando il sovrano a espellere uova d’oro. Questo ci viene raccontato dal protagonista stesso diventato per tutti Re Chicchinella che decide di digiunare fino a morire di fame per liberarsi dal tormento. Ma non ha previsto la voracità della sua corte, che inventa diverse, sublimi tentazioni culinarie per convincere il monarca e riportarlo a mangiare per avere le uova d’oro.

Non ci sono scenografie pre-installate in questa produzione di Emma Dante dove il marito Carmine Maringola è impegnato come attore protagonista dalla recitazione di una fisicità assoluta. In scena ci sono solo 15 attori in uno spazio vuoto dove domina il nero, all’inizio il buio cupo. L’attenzione è tutta rivolta sugli attori che si presentano in gruppo, con una maschera da gallina, con il classico verso e i movimenti a scatti della testa. E in abiti da lutto. Gli stessi che vedremo alla fine attorno al catafalco del re defunto e rimpiazzato da una gallina, vera. Le uova d’oro sono salve.

La scena si riempie spesso di piume svolazzanti e i cortigiani, che hanno cosce gonfie come quelle delle pollastrelle, ricordano le ballerine delle Folies Bergères. Anche il re ha una gonna nera sotto cui si nasconde come uno struzzo impaurito e assume la postura diritta solo nel momento in cui gli viene ricordato il suo ruolo quale Carlo I D’Angiò. I servi allora gli gettano addosso un mantello e gli porgono una corona, con una vestizione tipicamente marionettistica e movenze da Pupi siciliani, elemento quasi immancabile negli spettacoli della regista palermitana che mescola parole e pietanze napoletane e siciliane.

La performance corale si avvale di attori giovani e meno giovani, tutti forgiati alla scuola della Dante, ma è lo straordinario Maringola a ricevere giustamente gli applausi più insistiti da un pubblico folto e piacevolmente divertito.

La grande magia


Eduardo de Filippo, La grande magia

Regia di Gabriele Russo

Torino, Teatro Carignano, 18 dicembre 2024

La commedia più pirandelliana di Eduardo

Come nel caso del Gedankenexperiment quantistico di Schrödinger – il paradosso del gatto in una scatola sigillata di cui non si sa se è vivo o morto – così avviene della moglie di Calogero Di Spelta: Marta, volendo incontrare segretamente il suo amante, per sfuggire alla continua sorveglianza del marito geloso corrompe il mago Marvuglia organizzando il trucco della sua sparizione durante uno spettacolo di magia in un grande albergo di una località termale. Il mago riesce a convincere il marito geloso e disperato che in realtà la moglie non è sparita ma è rimasta intrappolata in una scatola e l’apertura della stessa significherebbe accettare la realtà del tradimento e il fatto che lei se ne sia andata. Calogero, cioè, potrà riabbracciare sua moglie, di cui ha sempre sospettato, a condizione di accettarne il tradimento senza mai più dubitare della sua fedeltà, altrimenti ella sparirà definitivamente. L’uomo si abbandona alla sua follia vivendo senza mai separarsi dalla scatola e senza aprirla, preferendo quindi credere all’illusione che ella sia lì dentro, sempre con sé e fedele al suo amore. Ma passano quattro anni e Marta, abbandonata dall’amante, decide di tornare dal marito che però, prigioniero della sua illusione, respinge quella donna per lui estranea: se Marta fosse la donna ricomparsa vorrebbe dire che lo aveva abbandonato e tradito, per cui è meglio continuare a credere che sia ancora nella scatola, fedele e innamorata di lui. 

Con La grande magia Eduardo ha abbandonato le illusioni della giovinezza, anche queste un trucco della vita, e ha scoperto l’inganno delle vicende umane. Siamo nella fase della “Cantata dei giorni dispari”, dove la vita presenta il conto di tutte le sue amarezze e disillusioni. Quando Eduardo scrisse e mise in scena La grande magia nel 1948 il pubblico rimase spiazzato: in un’Italia che cercava ancora di riprendersi dalla guerra, lo spettacolo, con la sua atmosfera onirica e filosofica, sembrò troppo distante dai drammi quotidiani a cui Eduardo aveva abituato gli spettatori e la commedia non fu un grande successo. Troppe metafore, troppi livelli di lettura. Pirandello, con Così è (se vi pare) e i Sei personaggi in cerca d’autore, aveva già scardinato le certezze del pubblico: la realtà non è mai oggettiva, ma sempre una costruzione, un’interpretazione. Eduardo, ci aveva aggiunge un tocco tutto suo: mentre Pirandello gioca con la mente e con le strutture teatrali, Eduardo ci mette il cuore. La crisi di Calogero, che costruisce un mondo fittizio per sopravvivere alla propria mediocrità, non è solo un esperimento filosofico, ma un dramma profondamente umano. 

Con il tempo si è riconosciuta la potenza di questo lavoro che non è solo una riflessione sulla verità e sull’illusione, dove l’illusione si sostituisce prepotentemente alla realtà, ma uno specchio della nostra modernità. Se all’estero La grande magia ha conosciuto diverse interpretazioni e letture, in Italia resta insuperata e quasi unica quella del 1985, portata anche a Parigi, di Giorgio Strehler che la volle come terzo capitolo della “Trilogia dell’Illusione”, insieme a La tempesta di Shakespeare e a L’illusion comique di Corneille. Ora La grande magia è messa in scena da Gabriele Russo per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Una coproduzione della Fondazione Teatro Bellini di Napoli, il Teatro Biondo di Palermo e l’ERT, Emilia Romagna Teatro. 

Entrando nella sala del Carignano, il progetto sonoro di Antonio Della Ragione forma un primo impatto per il pubblico, quello acustico: un fondale continuo di suoni che creano un’atmosfera straniante, quasi onirica, alla David Lynch. Il sipario è già aperto sulla scenografia di Roberto Crea: il giardino dell’albergo con le piante in vaso, una passerella metallica sopraelevata e un pannello di velatino che occulta oppure lascia passare la vista di quanto succede dietro. Con le luci di Pasquale Mari i colori sono lividi. Nel secondo atto l’abitazione del mago Marvuglia è una Wunderkammer inondata di luce calda, nel terzo l’appartamento di Spelta è un ambiente vuoto e semibuio, un luogo della mente più che uno spazio reale.

A preludio della vicenda si ascolta la voce di Eduardo nell’introduzione alla versione televisiva del 1964 definire La grande magia «una frattura» nel corpus delle sue opere, «non definitiva ma significativa, per quello che poteva essere un nuovo teatro, un nuovo linguaggio». Un soggetto «un po’ scabroso, assurdo, che procede per simbolismi». Ed è infatti la cifra dell’assurdo a connotare la lettura di Gabriele Russo e la recitazione degli attori di cui il regista preserva le cadenze regionali. Il Marvuglia di Michele di Mauro usa le mille intonazioni della voce in maniera istrionica e virtuosistica per delineare il suo personaggio cinico ma umano, Natalino Basso dà vita al personaggio di Spelta cocciuto nella sua chiusa tragica follia. Tutti efficaci gli altri interpreti: Veronica D’Elia, Gennaro Di Biase, Christian Di Domenico, Maria Laila Fernandez, Alessio Piazza, Manuel Severino, Sabrina Scuccimarra, Alice Spisa, Anna Rita Vitolo. Teatro pieno e successo calorosissimo con innumerevoli chiamate alla ribalta.

Il gabbiano – Zio Vanja – Il giardino dei ciliegi

 

Anton Pavlovič Čechov

Il gabbiano

Zio Vanja

Il giardino dei ciliegi

Regia di Leonardo Lidi

Torino, Teatro Carignano, 30 novembre 2024

Il progetto Čechov arriva alla sua conclusione

Nel “Progetto Čechov”, coproduzione del Teatro Nazionale Spoleto Festival dei Due Mondi, del Teatro Stabile dell’Umbria e del Teatro stabile di Torino, il regista Leonardo Lidi affronta i tre capolavori del commediografo russo. Iniziato nel 2022 con Il gabbiano, l’anno successivo è stata la volta di Zio Vanja e ora la trilogia si conclude con Il giardino dei ciliegi. Al Teatro Carignano si possono rivivere le tre tappe in un giorno solo, tre momenti di una borghesia infelice a pochi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, artisti falliti e amori già stanchi sul nascere in una tenuta della campagna russa in cui poco lontano luccicano le acque di un lago o di un fiume e una vicina stazione ferroviaria permette di fuggire in città.

I tre spettacoli hanno la scenografia e le luci affidati a Nicolas Bovey, i costumi sono di Aurora Damanti, il suono è curato da Franco Visioli. La maratona inizia alle 11.30 del mattino con Il gabbiano, una vicenda di personaggi «inchiodati in un punto morto che si muovono a vuoto e per i quali la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli» aveva scritto a suo tempo Angelo Maria Ripellino. Il palcoscenico è vuoto e gli attori sempre a vista nei loro costumi ottocenteschi a turno sono chiamati a raccontare il testo, nella traduzione di Fausto Malcovati, con una frenesia di loquela che li porta a dire le battute in maniera accelerata. Qui lo spazio è capovolto: la panchina su cui la grande attrice Irina Arkadina, Trigorin siedono insieme a Sorin e al dottore Dorn è rivolta alla platea, dove si trova il lago che fa da sfondo allo spettacolo e da cui proviene il gabbiano del titolo. Nel prosieguo il lago diventa la scena stessa, quando teli neri calano ai lati e sul fondale verso cui si muovono i personaggi afflitti da una vecchiaia incalzante, come una compagnia d’attori che si presenta alla ribalta a fine spettacolo, qui dando le spalle allo spettatore. Intanto al proscenio assistiamo al “suicidio” di Kostia accompagnato da Sorin. I due faranno una loro comparsa anche nel secondo spettacolo.

Se nel Gabbiano gli attori avevano a disposizione l’intero palcoscenico vuoto, nello Zio Vanja del primo pomeriggio si accalcano tutti quanti su una stretta pedana davanti a una parete di assi di legni dietro cui molto spesso continuano a recitare. Su questa zattera claustrofobica il regista dimostra la sua virtuosistica abilità a gestire spazi e movimenti accompagnati da un’ironia che si ritrova negli abiti color pastello e nelle parrucche anni ’60 dei personaggi. Qui risentiamo le note de La bohème, la canzone di Aznavour che Gigliola Cinquetti aveva cantato nel Gabbiano, e le risentiremo ancora ne Il giardino dei ciliegi (1904), che conclude la trilogia in serata. Qui il palcoscenico si è ampliato di nuovo ma è limitato da teli neri, questa volta traslucidi, che contrastano con la plastica bianca delle sedie sparse o rovesciate per terra. Il traliccio dell’americana con le luci al neon a un certo punto si abbassa e funge da piattaforma sul quale si sdraiano i personaggi in tenuta balneare, ignari – o meglio ignavi – di quanto succederà alla loro proprietà che sta per andare all’asta assieme al giardino dei ciliegi che sarà abbattuto per fare posto alla lottizzazione e alle villette da costruire per la nuova borghesia. 

I tre spettacoli sono in progressione espressiva: dall’ambientazione spoglia e dal tono quasi filologico del Gabbiano, all’abbrutimento grottesco della vicenda dei personaggi dalle occasioni mancate che è Zio Vanja, fino alla volgarità, ai toni smaccatamente eccessivi, al desolato kitsch della sguaiata compagnia che entra dalla platea sulle note di Ritornerai, la canzone di Lauzi, stonata dall’anfitrione Lopachin, il servo che diventerà padrone nel Giardino dei ciliegi. I toni da farsa sono esagerati anche dalla non corrispondenza dei corpi ai personaggi con incongruenze anagrafiche e di genere (Sorin è interpretato da un’attrice, Charlottta Ivanovna da un attore), mentre il riutilizzo dell’ensemble nei diversi ruoli della trilogia (concepita anche per la visione in sequenza) esalta l’eccelsa qualità attoriale degli interpreti: Giordano Agrusta; Maurizio Cardillo; Alfonso De Vreese; Ilaria Falini; Sara Gedeone; Christian La Rosa; Angela Malfitano; Francesca Mazza; Orietta Notari; Mario Pirrello; Tino Rossi; Massimiliano Speziani; Giuliana Vigogna. 

Bent

Martin Sherman, Ben

Regia di Mauro Avogadro

Torino, Teatro Baretti, 27 novembre 2024

Amore nel Lager

Bent aveva fatto grande scalpore quando era stato presentato nel 1979 a Londra al Royal Court Theatre: allora quasi non c’era consapevolezza della persecuzione nazista degli omosessuali. Il titolo si riferisce infatti alla parola usata in alcuni paesi europei per indicare gli omosessuali, il nostro “invertito”.

Si tratta infatti della storia di personaggi maschili nella Berlino degli anni ’30. Max è in contrasto con la sua ricca famiglia a causa della sua omosessualità. Una sera, con grande risentimento del suo compagno Rudy, porta a casa un affascinante membro della Sturmabteilung, Wolf. È la “notte dei lunghi coltelli” e il mattino seguente Wolf viene scoperto e ucciso dalle SS nell’appartamento di Max e Rudy. I due sono costretti a fuggire da casa ma trovati in una tendopoli nella foresta vengono arrestati dalla Gestapo e costretti a salire su un treno diretto al campo di concentramento di Dachau.

Sul treno Rudy viene picchiato a sangue dalle guardie, mentre Max cerca di ignorare le sue urla. Un altro prigioniero sul treno, che indossa una toppa a triangolo rosa, spiega a Max il sistema delle toppe durante l’Olocausto. Un ufficiale fa riportare Rudy da Max e lo costringe a picchiarlo fino alla morte. Max viene preso dalle guardie e dice di essere ebreo e non omosessuale, perché ritiene che le sue possibilità di sopravvivenza nel campo saranno migliori. In seguito Max confessa allo stesso prigioniero del treno che le guardie lo hanno costretto ad avere rapporti sessuali con il corpo di una ragazzina morta per “dimostrare” che non era omosessuale. Il prigioniero rivela di chiamarsi Horst.

Nel campo, Max fa amicizia con Horst, che gli mostra la dignità nel riconoscere ciò che si è. I due si innamorano e diventano amanti attraverso la loro immaginazione e le loro parole. Dopo che Horst viene ucciso dalle guardie del campo, Max indossa la giacca di Horst con il triangolo rosa e si suicida lanciandosi contro il filo spinato elettrificato.

Dato il successo, la pièce si trasferì nel West End dove la parte di Max fu interpretata da Ian McKellen, mentre a Broadway quello stesso anno Max fu Richard Geere. Ian McKellen nel 1997 fu lo zio Freddie nell’adattamento cinematografico diretto da Sean Mathias. Lo spettacolo che inaugura la stagione del Teatro Baretti con la regia di Mauro Avogadro e la traduzione di Marco Mattolini prende in considerazione soltanto l’ultima parte della storia, quella nel Lager, con tre personaggi. La scena di Arcangelo Piccirillo è nuda, solo mucchi di pietre e come quarta parete un reticolato di fili spinato che separa gli attori dal pubblico. Sul palcoscenico due uomini cercano di salvare una dignità perduta, un’identità nascosta tentando un’intesa e una solidarietà difficili, ma arrivando fino al trasporto erotico e all’amore.

Diplomati all’Istituto Nazionale Dramma Antico di Siracusa, i giovani attori adottano una recitazione asciutta che esalta la tragicità della vicenda. Dario Battaglia è un Max che fugge i sentimenti per salvarsi portandosi dentro il tremendo passato che non conosciamo, solo alcuni accenni allo zio e al ballerino Rudy si riferiscono alla vicenda trascorsa. Inizialmente più distaccato, poi sempre più travolto dai sentimenti è il personaggio di Horst di Marcello Gravina, anche lui misurato ma intenso nella recitazione. Fa eccezione la figura del mellifluo capitano SS di Gabriele Rametta che sotto l’uniforme a un certo punto mostra un travestimento femminile decisamente incongruo ma che evidenzia l’assurdità tragica della situazione e rimanda alla Berlino di Cabaret. Un unico lampo di colore in una scena dominata dai grigi. Le luci di Alberto Giolitti e le musiche di Gioacchino Balistreri forniscono il giusto tocco a uno spettacolo applaudito da un pubblico visibilmente commosso.

La notte – Il risveglio

Pippo Delbono, La notte

Torino, Fondazione Merz, 5 novembre 2024

Pippo Delbono, Il risveglio

Torino, Teatro Astra, 6 novembre 2024

«La vita… è ricordarsi di un risveglio» (Sandro Penna)

Dopo la notte, il risveglio o meglio: dopo La notte, Il risveglio, i titoli delle due performance con cui Pippo Delbono chiude il Festival delle Colline e contemporaneamente inaugura la nuova stagione del Teatro Astra intitolata “Fantasmi”.

La notte è un monologo sul testo di Bernard-Marie Koltès La notte poco prima della foresta letto la prima volta ad Avignone nel 1977 e che nella interpretazione di Delbono diventa quasi un viaggio autobiografico con le voci di due migranti. La lettura rabbiosa e intensa è contrappuntata dalla chitarra di Piero Corso che con le sue modulazioni mitiga l’asprezza quasi insostenibile delle parole, offrendo un grato sollievo sonoro.

La notte è quella durata sette anni, un lungo periodo di crisi personale da cui Delbono si risveglia dopo la pandemia, con le guerre alle porte di casa, il ritorno di ideologie che si credevano definitivamente sepolte, un mondo impazzito. E si scopre irrimediabilmente invecchiato. Come siamo invecchiati anche tutti noi.

Alla fine di Amore – il suo precedente spettacolo – Delbono andava a sdraiarsi sotto un albero scheletrico che d’improvviso si copriva di fiori. E restava lì, assopito in un sonno da cui ora si risveglia, trovandosi di fronte a una realtà molto peggiore di quella che aveva lasciato. Il risveglio è dedicato appunto a chi, dopo essersi addormentato, ha avuto il coraggio di risvegliarsi, di riprendere a vivere. Ma è dedicato anche a chi non si è risvegliato, come Bobò, il fedele compagno di scena con cui ha condiviso per più di vent’anni la sua vita sul palcoscenico e fuori dal teatro e che è scomparso cinque anni fa.

Il teatro di Delbono nasce dalla musica, segue la partitura di un suo personale ritmo interiore. Lo spettacolo si apre sulle note della canzone Domani è un altro giorno cantata da Ornella Vanoni e si chiude su quelle de La vie en rose nella versione di Grace Jones. Nel mezzo musiche che suonano lamenti d’amore e tristezza come quelle del violoncellista Giovanni Ricciardi, con lo struggente addio della Didone di Purcell, o di tenerezza e malinconia, ritmi che trascinano gli attori della Compagnia in una danza sulla memoria degli anni passati. Una compagnia tra cui c’è un anziano napoletano senza dimora e con problemi di psicofarmaci che con Delbono ha trovato una nuova vita, come era successo col sordomuto Bobò.

È questo il messaggio di speranza che ci lascia il lavoro talmente sincero e personale di Pippo Delbono da essere quasi imbarazzante.